E’ una coincidenza che “fa pensare” – come si diceva una volta – che gli esiti del referendum istituzionale siano stati resi noti proprio mentre la nostra Nazionale di calcio stava annaspando in quel di Kaiserslautern, non riuscendo fino all’ultimo ad avere ragione di un’onesta compagine di pedatori australiani.
Infatti, la vittoria netta del “no”, nonostante un’affluenza alle urne che in tutte le democrazie occidentali sarebbe considerata più che significativa, in un colpo solo ha riportato l’assetto politico del Paese indietro di almeno vent’anni.
Cioè, fino agli ultimi anni nei quali i governi di centrosinistra si sono goduti la stabilità consociativa della Prima Repubblica, mentre i ceti produttivi del nord si arrabattavano come potevano, tra le tasse che crescevano, i servizi che malfunzionavano e le infrastrutture che mancavano.
Era un’Italia di minoranza quella che nei secondi anni ‘80 faceva crescere le proprie fabbrichette e studi professionali, e sognava l’Europa unita come unica possibilità di salvezza, della quale però non si era affatto sicuri che si sarebbe stati degni.
Proprio come ancor oggi avviene nella provincia profonda del pallone che sogna l’avventura in serie A.
In quegli anni cominciarono a sorgere nuove iniziative politiche, tutte più o meno fuori dagli schemi di quello che si chiamava, e di fatto continuerà a chiamarsi per ancora non sappiamo quanto, l’“arco costituzionale”.
Si trattava di idee e progetti politici del tutto sperimentali, il più delle volte estremistici e naïf, con i quali il popolo delle partite Iva cercava di mandare segnali di protesta alla corporazione dei politici, dei mandarini e dei boiardi di Stato, che tuttavia sembravano ancora destinati a durare in eterno.
Persino Mariotto Segni appariva come una possibile ancora di salvezza. Poi arrivarono le picconate di Cossiga e infine la rivoluzione giustizialista, che sconvolse ogni cosa e portò gli Italiani a dover ripensare completamente il loro rapporto con la politica.
Chi scrive ricorda ancora perfettamente una torrida fine di luglio del 1993, in una Bologna semideserta, dove – assieme alle poche osterie e ristoranti ancora aperti – si poteva trovare una unica sede di partito con le luci accese anche alle undici di sera.
Non era una delle sezioni del Pds di Occhetto, che a quell’ora e in quella stagione avevano le serrande abbassate persino alla Bolognina. I pensionati comunisti rimasti in città, in serate come quelle se ne stavano tranquillamente a prendere il fresco, fuori dalle gelaterie e nei giardinetti.
Era invece la sede della Lega Nord, dove fino a tarda notte si incontravano gruppi accaniti ed eterogenei di persone e persino di intere famiglie. Molti di loro erano alla prima esperienza di politica attiva.
Dopo meno di un anno qualcosa del genere avvenne anche in un albergo di prima periferia, dove alcuni promotori finanziari del gruppo Fininvest avevano dato appuntamento per la fondazione dei primi clubs di Forza Italia.
Molti di quelli che accorsero all’appello del Cavaliere erano gli stessi personaggi che avevamo già visto in quelle afose serate estive nella sede della Lega Nord.
Si continuò a discutere in un’altra ambientazione più o meno degli stessi temi, ma la nuova situazione che si era creata con la “discesa in campo” favorì il verificarsi di scene ben più stralunate e surreali.
Nella sala riunioni di quell’albergo, i nuovi ed improvvisati militanti parlavano male soprattutto dei politici professionisti e dei loro funzionari di partito. E tuttavia, già ponevano le basi perché se ne dovesse sentire presto il bisogno.
Non si trattava ancora di una Right Nation in cerca di rappresentanza politica. Le contraddizioni che ancora oggi stiamo cercando assai faticosamente di superare (vedi la polemica di questi giorni sulla natura di TocqueVille) all’epoca non si sarebbero nemmeno potute immaginare, tanto indistinto e culturalmente rozzo era il magma di quel volgo disperso.
L’unica cosa che pareva accomunare quel ceto di minoranza era quella di fare parte del popolo dei “non garantiti”. Di essere cioè gli unici, in un’Italia ancora ai margini persino del tavolo del G7, a non avere qualche rendita di posizione su cui fare affidamento.
A non avere né la grama certezza di uno stipendio da parastatale, né rendite immobiliari o corporative, e nemmeno la sontuosa prospettiva di una pensione d’oro che qualcun altro avrebbe pagato.
Era un relativamente piccolo gregge di italiani non-sindacalizzati, non-raccomandati, non-tutelati da una famiglia alle spalle, perché erano i figli di un’Italia dove i loro padri ancora pensavano che sarebbe bastato mantenerli fino al diploma o alla laurea per assicurare loro il futuro.
In una parola, appunto, era il Paese dei non-garantiti. Un ceto composito, che continuava a finanziare il debito pubblico destinato dalla classe politica a mantenere i propri clientes. I quali ultimi, nel complesso, formavano le contrapposte legioni dell’Italia dei garantiti.
Nonostante la caduta del muro di Berlino nell’89, nei primi anni novanta pochissimi avevano intuito che la Prima Repubblica fosse entrata nel suo bizantino crepuscolo. Infatti il ceto dei non-garantiti si limitava a protestare, non sognandosi nemmeno di poter un giorno essere maggioranza.
Anzi, i non-garantiti vivevano con un certo complesso da fortezza assediata il proprio orgoglio di minoranza insoddisfatta. Sapevano di essere l’Italia che lavorava e faceva lavorare, vessata dal fisco e umiliata – nel suo ceto imprenditoriale e professionale – dai continui confronti che anche allora si proponevano con gli altri Paesi occidentali.
I nostri piccoli e medi imprenditori, e ancor più gli artigiani e i professionisti che accorrevano a quelle riunioni un po’ carbonare, sapevano di non potersi permettere la politica del “privatizzare i profitti e socializzare le perdite” che lo Stato continuava a concedere alla grande industria. E tantomeno di poter scaricare sulla collettività – sotto forma di debito pubblico e pressione fiscale – i costi delle prebende pensionistiche ed assistenziali per i lavoratori sindacalizzati.
In quei primi anni novanta, a produrre sul serio c’erano solo i più piccoli. Rifugiandosi nel lavoro e nella creatività, quel ceto di imprenditori non-garantiti riusciva comunque ad esportare prodotti di qualità. Per questo avevano bisogno più degli altri della modernizzazione del Paese.
Come sappiamo, è stato Berlusconi l’unico che ha saputo riunire l’Italia dei non-garantiti in un progetto politico coerente, e a darle per la prima volta l’idea di poter essere maggioranza di governo.
Comunque sia andata a finire, è stata un’esperienza modernizzatrice, che avrebbe potuto rendersi duratura anche sul piano istituzionale, adeguando l’assetto politico del nostro Paese ai tempi nuovi.
Ma ecco che, dopo il contestato esito delle ultime elezioni politiche, con la vittoria del “no” al referendum l’Italia dei garantiti si è presa definitivamente la sua rivincita.
Finalmente possono sperare di aver cancellato l’incubo del decennio berlusconiano, e di essere riusciti a riportare il Paese esattamente dove si trovava sul finire degli anni ‘80.
L’Italia che lavora e produce in proprio, e può credere solo in se stessa, dopo la grande illusione offerta dall’esperienza della Casa delle Libertà, si sta avviando ad essere di nuovo una minoranza arrabbiata, e priva di un visibile sbocco politico.
E’ di nuovo un volgo disperso in cerca di rappresentanza, che oscilla tra lo scetticismo nei confronti della politica e il desiderio – per adesso molto più rarefatto – di costruire un nuovo progetto.
La situazione potrebbe anche essere feconda, come lo è stata quella analoga dei primi anni ‘90: c’è solo da sperare che quella grande occasione che si è presentata in modo drammatico, con il periodo giustizialista di Mani Pulite, non debba tardare decenni per riproporsi e soprattutto non abbia da tornare sotto forma di farsa.
L’unico aspetto positivo della nuova situazione è che oggi, almeno, l’esperienza ha dato a tanti di noi maggiore consapevolezza culturale.
Nel corso di questi ultimi anni, i profondi cambiamenti avvenuti sulla scena internazionale - dagli attentati dell’11 settembre, all’avvento di un nuovo Pontificato - hanno fatto sì che più che ad un’Europa ormai asfittica, burocratizzata e deprivata di qualsiasi tensione ideale, oggi la nostra Right Nation possa guardare agli Stati Uniti di Bush e dei neo-con come riferimento per il futuro.
Ma cosa hanno a che vedere i Mondiali di calcio con tutto questo? C’entrano, perché secondo noi è stata proprio l’Italietta dei garantiti ad esultare più dell’altra, oltre che per il referendum, per la sudata vittoria al 95° contro l’Australia.
Solo quella parte del nostro Paese che, ormai per riflesso atavico, è abituata a procurarsi le proprie certezze più dall’assistenzialismo di Stato che non dai frutti del proprio lavoro, poteva scalmanarsi così senza vergogna per quel rigore regalato.
Oltretutto permettendosi anche di fare il gesto dell’ombrello all’avversario, come è avvenuto con il telecronista di mamma Rai che – rivolto a Guus Hiddink – ha persino urlato sguaiatamente “stavolta non ci hai fregati!”, riferendosi alla beffa coreana del 2002.
E dire che, a parti invertite, se quel rigore a tempo scaduto fosse stato dato all’Australia, non c’è da dubitare che a quest’ora l’Italietta piagnona ed assistenzialista sarebbe tutta lì a sacramentare, nei bar e sui giornali, contro il nuovo Byron Moreno.
Insomma, nel giorno del “no” all’ultima speranza di modernizzazione istituzionale del Paese, l’Italia dei garantiti si è presa anche una concomitante soddisfazione calcistica, medicando senza vergogna il rigore della mutua, esattamente come è solita mendicare pensioni, incarichi, rendite e prebende varie da parte dello Stato-mamma.
Per questo, nel suo piccolo, chi scrive sa già con chi andrà a trepidare davanti allo schermo per Italia-Ucraina: sarò nel tinello di casa di mia nonna, assieme alla sua badante che ormai da qualche anno vive con lei, e ogni mese manda lo stipendio – proveniente da una pensione finanziata dal sottoscritto e da tanti altri non-garantiti – al figlio che deve pagarsi gli studi a Kiev.
Perché anche la badante di mia nonna in gioventù era stata garantita dallo Stato, come tutta la sua famiglia. Poi, con il crollo del comunismo sovietico hanno perso tutto, ed ora lei deve guadagnarsi il pane in terra straniera, pulendo il culo a chi ha avuto la fortuna di vivere in un welfare che i nostri figli dovranno rifinanziare senza poterselo a loro volta più permettere.
Dunque, mi unirò a quella dignitosa signora dell’Est, che cercherà di affidare ad un calciatore di nome Shevchenko (che pure lui deve la sua fortuna a Berlusconi) le proprie più immediate speranze di un riscatto sociale, almeno simbolico.
Comunque vada, per me sarà un successo.
28 giugno 2006
24 giugno 2006
Sì, ultima chiamata
E così Carlo Azeglio Ciampi ha definito la Costituzione in vigore “la mia Bibbia civile”, con ciò lasciando intuire che modificarla si tradurrebbe automaticamente in eresia. Lasciano sempre perplessi quei laici, come l’ex presidente della Repubblica, che in determinate condizioni, per rimarcare la validità e la forza delle loro opinioni, ricorrono a termini e concetti fideistici.
È come se si sentissero in debito di credibilità. Siccome non riescono a far passare la bontà di ciò in cui credono, o temono di non riuscire a farlo con sufficiente autorevolezza, abbandonano la sfera del “naturale” per rifugiarsi in quella del “soprannaturale”. Tradendo inconsapevolmente la loro storia e la loro cultura. La conseguenza è che chi vuole cambiare la nostra Carta scivola nella bestemmia.
La profonda contraddizione di fondo, che muove anche a un sorrisetto beffardo, è che la bolla di scomunica attiene a un documento che, seppur importante, resta materiale e finito. E come tale i cittadini non solo hanno il diritto di cambiarlo laddove ritengano opportuno farlo, ma ne hanno anche il dovere perché in gioco c’è il futuro del Paese e a cascata quello loro nonché dei loro discendenti. Sia chiaro, si può essere in disaccordo sui cambiamenti proposti.
Ma il centrosinistra ciurla nel manico quando dice votiamo No e sediamoci attorno a un tavolo per cambiare ciò che non va. È positivo che Piero Fassino riconosca di essere d’accordo su alcune modifiche. Tuttavia quando si volta e si guarda alle spalle, si accorge di essere alla testa di una coalizione che litiga sulle strade. Come potrà raggiungere una decente intesa per dare una sistemata alla Costituzione?
Per questa ragione di fondo al referendum di domani e lunedì bisogna votare Sì. Ci troviamo nel mezzo di uno di quei rari frangenti della vita istituzionale d’Italia in cui è meglio una cattiva riforma, ammesso che la si consideri tale (e noi non siamo fra costoro), che nessuna riforma.
Sono i cittadini che devono suonare la campanella a lorsignori, o meglio: a certi lorsignori, che utilizzano il referendum a solo scopo di disfarsi del berlusconismo e del leghismo. Ossia dei due movimenti popolari da cui è giunta negli ultimi quindici anni l’unica brezza riformatrice per le nostre esauste istituzioni.
Basta leggersi il Venerdì di Repubblica in edicola. A sinistra, infatti, si è tentato di far perdere al referendum il suo respiro strategico per ridurlo a mera carta da giocare sullo scacchiere della tattica quotidiana. Si persegue nell’obiettivo di sempre, anche quando c’è di mezzo la Costituzione: far fuori il popolo dei liberali e dei moderati.
È come se si sentissero in debito di credibilità. Siccome non riescono a far passare la bontà di ciò in cui credono, o temono di non riuscire a farlo con sufficiente autorevolezza, abbandonano la sfera del “naturale” per rifugiarsi in quella del “soprannaturale”. Tradendo inconsapevolmente la loro storia e la loro cultura. La conseguenza è che chi vuole cambiare la nostra Carta scivola nella bestemmia.
La profonda contraddizione di fondo, che muove anche a un sorrisetto beffardo, è che la bolla di scomunica attiene a un documento che, seppur importante, resta materiale e finito. E come tale i cittadini non solo hanno il diritto di cambiarlo laddove ritengano opportuno farlo, ma ne hanno anche il dovere perché in gioco c’è il futuro del Paese e a cascata quello loro nonché dei loro discendenti. Sia chiaro, si può essere in disaccordo sui cambiamenti proposti.
Ma il centrosinistra ciurla nel manico quando dice votiamo No e sediamoci attorno a un tavolo per cambiare ciò che non va. È positivo che Piero Fassino riconosca di essere d’accordo su alcune modifiche. Tuttavia quando si volta e si guarda alle spalle, si accorge di essere alla testa di una coalizione che litiga sulle strade. Come potrà raggiungere una decente intesa per dare una sistemata alla Costituzione?
Per questa ragione di fondo al referendum di domani e lunedì bisogna votare Sì. Ci troviamo nel mezzo di uno di quei rari frangenti della vita istituzionale d’Italia in cui è meglio una cattiva riforma, ammesso che la si consideri tale (e noi non siamo fra costoro), che nessuna riforma.
Sono i cittadini che devono suonare la campanella a lorsignori, o meglio: a certi lorsignori, che utilizzano il referendum a solo scopo di disfarsi del berlusconismo e del leghismo. Ossia dei due movimenti popolari da cui è giunta negli ultimi quindici anni l’unica brezza riformatrice per le nostre esauste istituzioni.
Basta leggersi il Venerdì di Repubblica in edicola. A sinistra, infatti, si è tentato di far perdere al referendum il suo respiro strategico per ridurlo a mera carta da giocare sullo scacchiere della tattica quotidiana. Si persegue nell’obiettivo di sempre, anche quando c’è di mezzo la Costituzione: far fuori il popolo dei liberali e dei moderati.
23 giugno 2006
Prodi promette il suicidio di massa dei parlamentari
Il Prodi che propone in zona Cesarini l’accordo con la CdL per ridurre il numero dei parlamentari è l’essenza stessa del prodismo. E il prodismo è un modello di comportamento politico fondato, da un lato, sulla rapidità di sentire nell’aria l’odore del sangue cui intende abbeverarsi il popolo giacobino, per offrirglielo in una coppa d’argento; dall’altro, nel promettere ciò che si sa già di non riuscire mai e poi mai a mantenere, intimamente qualificando quel popolo giacobino come un’accozzaglia di indigeni della foresta con l’anello al naso.
Il presidente del Consiglio è ben consapevole che l’argomento di far fuori un certo numero di deputati e senatori potrebbe far presa nei confronti degli italiani e spingerli ad andare a votare. Allora si fa intervistare da una giornalista del Tg5 e butta là che l’Ulivo da sempre vorrebbe mandare al macero una bella quantità di cadreghe. Visto che c’è, poi, azzarda pure che se fosse per loro ne sbatterebbero in rottamazione ben più di quelle previste dalla riforma del centrodestra. “Vedete come sono bravo? - sembra dire – Votate no e vi garantisco che faremo piazza pulita”. La faccia è quella delle grandi occasioni: sofferta, contrita, infinitamente addolorata. La faccia di uno che ha il coraggio di mettersi sulle spalle i problemi del Paese.
Il punto è un altro, però: un premier che si vede bocciare il suo candidato alla direzione generale della Rai, su quale forza potrà contare per mantenere fede al suo impegno? Su nessuna, ovviamente. Ed ecco svelato il cuore del prodismo, la tendenza a darti la fregatura – sapendo che è tale e facendotelo pure capire – con l’aria di volerti salvare dalla dannazione eterna.
Supponiamo che vinca il No. Il giorno dopo, se qualcuno glielo ricorderà (altrimenti continuerebbe a fischiettare distrattamente), dovrà convocare la sua maggioranza e porre all’ordine del giorno la riduzione del numero dei parlamentari. Come reagiranno i suoi? Bene che vada qualcuno scoppierà a ridere, altri si alzeranno immediatamente dalla sedia che per l’occasione si saranno incollati all’onorevole deretano, Caruso gli farà piombare sul testone un irriverente aeroplanino di carta. Prodi tornerà in televisione e singhiozzando comunicherà che le priorità dell’Italia sono altre. Riforma accantonata nei secoli dei secoli con gli indigeni che torneranno nella foresta.
Votiamo Sì perché ora o mai più.
Il presidente del Consiglio è ben consapevole che l’argomento di far fuori un certo numero di deputati e senatori potrebbe far presa nei confronti degli italiani e spingerli ad andare a votare. Allora si fa intervistare da una giornalista del Tg5 e butta là che l’Ulivo da sempre vorrebbe mandare al macero una bella quantità di cadreghe. Visto che c’è, poi, azzarda pure che se fosse per loro ne sbatterebbero in rottamazione ben più di quelle previste dalla riforma del centrodestra. “Vedete come sono bravo? - sembra dire – Votate no e vi garantisco che faremo piazza pulita”. La faccia è quella delle grandi occasioni: sofferta, contrita, infinitamente addolorata. La faccia di uno che ha il coraggio di mettersi sulle spalle i problemi del Paese.
Il punto è un altro, però: un premier che si vede bocciare il suo candidato alla direzione generale della Rai, su quale forza potrà contare per mantenere fede al suo impegno? Su nessuna, ovviamente. Ed ecco svelato il cuore del prodismo, la tendenza a darti la fregatura – sapendo che è tale e facendotelo pure capire – con l’aria di volerti salvare dalla dannazione eterna.
Supponiamo che vinca il No. Il giorno dopo, se qualcuno glielo ricorderà (altrimenti continuerebbe a fischiettare distrattamente), dovrà convocare la sua maggioranza e porre all’ordine del giorno la riduzione del numero dei parlamentari. Come reagiranno i suoi? Bene che vada qualcuno scoppierà a ridere, altri si alzeranno immediatamente dalla sedia che per l’occasione si saranno incollati all’onorevole deretano, Caruso gli farà piombare sul testone un irriverente aeroplanino di carta. Prodi tornerà in televisione e singhiozzando comunicherà che le priorità dell’Italia sono altre. Riforma accantonata nei secoli dei secoli con gli indigeni che torneranno nella foresta.
Votiamo Sì perché ora o mai più.
22 giugno 2006
Brunetta, il partito unico della CdL o parte dal basso o non parte
Di passaggio a Bologna per la campagna referendaria, abbiamo avvicinato Renato Brunetta, europarlamentare di Forza Italia, al quale abbiamo posto tre brevi domande su quello che potrà succedere all’interno del centrodestra all’indomani del voto sulla riforma costituzionale.
Allora, Brunetta, dopo i due mesi sabbatici che Berlusconi ha deciso di prendersi, quale sarà il destino di Forza Italia da settembre in poi?
“A parte il fatto che si prenderà soltanto le due classiche settimane di ferie, il presidente continuerà a fare quello che sta facendo ora, ossia il capo dell’opposizione. Forza Italia è un partito solido, flessibile, forte. Un partito che quando va male viene votato da un quarto degli italiani e quando va bene da un terzo. È un partito diverso dagli altri perché non è strutturato come gli altri. Questa è la sua forza e, in parte, anche la sua debolezza. Forza Italia non può essere giudicata con gli occhiali dei partiti tradizionali. Chi lo fa sbaglia, compiendo un’operazione ingiusta”.
Si ha la sensazione che il partito unico sia l’ultimo desiderio dei vertici nazionali della Casa delle Libertà. È così?
“Prima di tutto, dobbiamo condurre bene l’opposizione. Poi si possono far partire progetti di federazione, che per avere successo – a mio avviso – dovranno nascere dal basso. Vedrei bene, per esempio, la fusione dei gruppi consiliari della Casa delle Libertà negli enti locali. È dal basso che si può far crescere un idem sentire che solo dopo potrà raggiungere i vertici. Questi processi, quando vengono calati dall’alto, falliscono”.
Il quotidiano Liberazione parla di un disegno all’interno dell’Unione per sostituire Rifondazione comunista con l’Udc di Casini. Lei cosa ne pensa?
“Si tratta di una bufala”.
Queste le dichiarazioni di Brunetta, sulle quali almeno un paio di riflessioni si possono tentare. La prima è che anche se vinceranno i sì al referendum, molto difficilmente si assisterà a una spallata al governo Prodi. Il quale si combatte facendo esplodere a ripetizione le numerose contraddizioni genetiche dell’Unione. Azione, questa, che il centrodestra può portare avanti a condizione che sia coeso e creda realmente nell’obiettivo. Oggi, scandali o meno, qualche perplessità ce l’abbiamo.
Se poi, di fatto, manca una road map per arrivare al partito unico (Brunetta, di fatto, dice che se non si comincia a livello locale, non si arriverà mai da nessuna parte), la carta da giocare per un’opposizione dura ed efficace resta Berlusconi.
Allora, Brunetta, dopo i due mesi sabbatici che Berlusconi ha deciso di prendersi, quale sarà il destino di Forza Italia da settembre in poi?
“A parte il fatto che si prenderà soltanto le due classiche settimane di ferie, il presidente continuerà a fare quello che sta facendo ora, ossia il capo dell’opposizione. Forza Italia è un partito solido, flessibile, forte. Un partito che quando va male viene votato da un quarto degli italiani e quando va bene da un terzo. È un partito diverso dagli altri perché non è strutturato come gli altri. Questa è la sua forza e, in parte, anche la sua debolezza. Forza Italia non può essere giudicata con gli occhiali dei partiti tradizionali. Chi lo fa sbaglia, compiendo un’operazione ingiusta”.
Si ha la sensazione che il partito unico sia l’ultimo desiderio dei vertici nazionali della Casa delle Libertà. È così?
“Prima di tutto, dobbiamo condurre bene l’opposizione. Poi si possono far partire progetti di federazione, che per avere successo – a mio avviso – dovranno nascere dal basso. Vedrei bene, per esempio, la fusione dei gruppi consiliari della Casa delle Libertà negli enti locali. È dal basso che si può far crescere un idem sentire che solo dopo potrà raggiungere i vertici. Questi processi, quando vengono calati dall’alto, falliscono”.
Il quotidiano Liberazione parla di un disegno all’interno dell’Unione per sostituire Rifondazione comunista con l’Udc di Casini. Lei cosa ne pensa?
“Si tratta di una bufala”.
Queste le dichiarazioni di Brunetta, sulle quali almeno un paio di riflessioni si possono tentare. La prima è che anche se vinceranno i sì al referendum, molto difficilmente si assisterà a una spallata al governo Prodi. Il quale si combatte facendo esplodere a ripetizione le numerose contraddizioni genetiche dell’Unione. Azione, questa, che il centrodestra può portare avanti a condizione che sia coeso e creda realmente nell’obiettivo. Oggi, scandali o meno, qualche perplessità ce l’abbiamo.
Se poi, di fatto, manca una road map per arrivare al partito unico (Brunetta, di fatto, dice che se non si comincia a livello locale, non si arriverà mai da nessuna parte), la carta da giocare per un’opposizione dura ed efficace resta Berlusconi.
21 giugno 2006
TocqueVille: a che gioco giochiamo?
Prima dell’avvento di Internet e in particolare dei blogs, quando si costituiva una qualsiasi associazione culturale, ricreativa, ma soprattutto politica, la prima cosa che si decideva invariabilmente di fare era pubblicare il proprio piccolo periodico. L’house organ, come si direbbe oggi.
Finita la riunione di fondazione, appena approvato lo Statuto, la prima cosa che il tesoriere doveva vagliare era il preventivo del tipografo per stampare in double face, su un foglio di carta patinata, non rilegato ma da piegare perché formasse quattro pagine, il numero zero del proprio “giornalino”.
Bisognava vedere se ci si poteva permettere la policromia, e come fare a smaltire l’enorme eccedenza di copie. Infatti in genere non c’era nessuno che stampasse a costi accettabili meno di 300 copie, ma quando l’associazione aveva trenta soci a cui spedirle era già grasso che colava.
In gioventù ci siamo passati anche noi del Filo a Piombo. Dal momento che la vita ha regalato a tutti e tre significative esperienze di giornalismo, in seguito abbiamo avuto modo di astrarci da quelle situazioni, e di poterle riguardare con un certo distacco.
Però, da studenti universitari, anche noi abbiamo ampiamente avuto a che fare con i soci che ti inviavano i loro “pezzi” scritti a mano, o con la Lettera 32. Così come con quelli che si sentivano censurati, non appena vedevano che per il loro sudato articolo non si era trovato posto in pagina. Ai quali non riuscivi mai a spiegare che non era questione di censura ma di spazio.
Anche perché in realtà lo spazio era quasi sempre una pietosa scusa, in quanto il più delle volte ti venivano sottoposti dei compitini di banalità sconfortante. O al contrario, dei “mattoni” cervellotici, magari sgrammaticati fino all’incomprensibilità. Articolesse, o aspiranti tali, dove era necessario scorrere di un fiato dieci righe prima di incontrare la prima virgola.
Insomma, in verità non si trattava mai di censura, bensì di produzioni intellettuali del tutto improponibili su un qualsiasi foglio stampato, anche a quei nostri livelli basic di comunicazione.
Anni dopo, sbattuti nella “cucina” della redazione di alcuni quotidiani, abbiamo avuto modo di vedere le lettere originali di quelli che scrivono sempre al Direttore.
I quali non sono altro che la versione scritta di quegli immancabili soggetti – in genere tutti dall’allure un po’ misticheggiante e un po’ retrò – che alla fine dei convegni si impadroniscono del microfono e sproloquiano senza mai fare la domanda, finchè non glielo strappano via.
Prima della rivoluzione mediatica innescata dal web, quel che più interessava alla “gente comune” – che i giornali non li scrive e spesso nemmeno li legge – era la piccola vanità di vedere il proprio nome stampato su una pagina. Perché è noto che gli Italiani scrivano molto più di quanto non leggano, e amino leggersi più di quanto non amino leggere i grandi maestri (come diceva una delle nostre nonne, nessuno prega Dio per avere più intelligenza).
Anche noi, probabilmente, abbiamo ancora in casa da qualche parte il ritaglio del nostro primo articolo sul giornaletto dell’associazione.
Poi, come è ovvio, con il tempo non ci si fa più caso. Ma a quelli che hanno la fortuna (si fa per dire) di proseguire con il giornalismo o con la politica, l’esperienza dona la possibilità di vedere che nel mondo della comunicazione, proprio come nel calcio, le dinamiche che si presentano sui campetti di periferia si riproducono identiche in serie A.
Chi scrive ha avuto modo di vedere coi suoi occhi un’assemblea di redazione di uno storico settimanale italiano, dove i giornalisti – tutti professionisti in carriera da anni – nicchiavano peggio che ad un’assemblea di condominio che deve deliberare sul rifacimento della caldaia, pur di evitare che si attuasse uno “sciopero della firma” sotto agli articoli del numero successivo.
La carta stampata ha sempre avuto un influsso magico sulle persone, molto più esteso e persistente della credibilità nel merito di quelli che ci scrivono sopra.
La smania dei quisque de populo di comparire in televisione, che è esplosa con l’avvento dei reality show e ancor prima dei varietà dove si telefonava in diretta e si diceva “complimenti per la trasmissione posso salutare mia cugina?”, è sempre esistita pari pari anche per il più infimo dei bollettini della bocciofila.
Ma oggi, grazie ad Internet, molto sta cambiando. Sappiamo tutti che anche per i bloggers meno velleitari, il problema non è più quello di poter scrivere, ma di trovare chi ti legge. E’ il tormentone della “visibilità”, che ha reso tutto un po’ più complicato.
Tutto questo per dire che non possiamo escludere che certi processi si siano innescati anche tra i cittadini di TocqueVille.
Anche tra noi ci sarà quello che, pur di scalare la lista dei link in prima pagina, sarebbe tentato di concludere il proprio post con il più classico dei “voglio vedere se avrete il coraggio di pubblicare questa lettera”.
Per questo (finora abbiamo messo le mani avanti, non ci nascondiamo) vogliamo dire che noi l’abbiamo fatto apposta.
Da quando ci siamo iscritti alla Città dei Liberi, non abbiamo mai fatto molto caso ai criteri con cui vengono selezionati i post: solo quando il Sorvegliato e qualcun altro ci hanno messo la pulce nell’orecchio ci siamo andati a riguardare.
Abbiamo poi chiesto lumi a qualche blogger amico. E’ stato così che ci siamo accorti che, in due mesi di attività del Filo a Piombo, ci è stata aggregata sull’home page di Tocqueville qualunque cazzata scrivessimo.
Ma le uniche, invero rare, eccezioni erano costituite da qualche post nel quale – invece di scagliarci come al solito contro il Governo o contro i kompagni – ci dedicavamo alla critica del laicismo e del relativismo.
Abbiamo quindi provato, alla vigilia di Sestri, a confezionare un paio di ballon d’essai, con tanto di frasetta semipolemica in calce, del tipo di quella citata sopra.
Un bel paio di post squsitamente anti-, dove però il nemico era l’idea laicista ed anticlericale, e non una persona. Tantomeno, ci teniamo a dirlo, un blogger di TocqueVille.
Puff, per la prima volta siamo scomparsi dalla home. A differenza – bisognerà pur dirlo – dei consueti e contemporanei post che se la prendevano con il buon papa Benedetto e il cardinale Ruini. Assieme al solito rispettabile contorno di saloni voltairiani e breviari pagani, che il loro posticino al sole anche il giorno dopo Sestri se lo sono subito ripreso.
Visto che non c’eravamo ed eravamo curiosi di vedere quel che si era detto, abbiamo notato che i commenti dei bloggers più laicolibertari su quanto accaduto nel week-end ligure, sono finiti in home page di TocqueVille ancora prima che riaprisse per tutti quanti la pagina di segnalazione dei post.
Pertanto, eccoci qui dopo lunga premessa, per dire ai nostri venticinque della blogosfera che presumiamo di essere appena un po’ troppo cresciuti perché sia il tipo di giochino a cui ci faccia piacere di giocare.
Non siamo qui per il puro piacere di dare visibilità alle nostre idee o a noi stessi. Abbiamo appena detto che il nostro è un Paese dove già ci sono troppi scrittori rispetto ai lettori, e comunque per qualsiasi persona colta – non solo in Italia – il problema non è nemmeno più quello di leggere, bensì di selezionare le letture.
Siamo qui perché siamo partecipi di un’idea e un progetto politico. Lo facciamo nel nostro piccolo e non da protagonisti, per carità, che siamo tutti nani sulle spalle di giganti.
Però nel contempo ci sentiamo troppo grandicelli per poter essere confusi tra i bambini che si lamentano perché i grandi non li fanno giocare.
Quindi per cortesia, e ci rivolgiamo a quelli che tengono le mani sulla consolle, non pensiate che il problema si potrà risolvere come una volta faceva il bambino padrone della palla.
Non pensiate di essere in presenza dell’eterno gioco politico di quelli che, per costringere tutti ad ascoltarli anche quando non hanno niente da dire, cominciano subito a protestare contro la “mancanza di democrazia interna”, gridano alla censura di regime, e magari fanno anche lo sciopero della fame.
Come è noto, quello è lo stile politico di qualcun altro. Di qualcuno che in effetti è urgente sapere da che parte sta.
Siamo di quelli che schmittianamente pensano che in politica non si possa eludere l’individuazione del nemico e poi dell’amico. Ma prima ancora di definire questo, vorremmo capire da lor signori se per caso pensano che il nemico numero uno del momento, nella vita politica italiana ed europea, sia papa Ratzinger ovvero Ruini. O se, eventualmente, il nemico dovessimo essere noi teo-con, o chi altro.
Non ce la caveremo appellandoci allo spirito liberale: siamo partiti con il rilanciare l’appello del Domenicale sulla “abolizione del liberalismo”, proprio per uscire da questa nebbia terminologica in cui ogni vacca è grigia.
La nostra intenzione è invece quella di capire qual è la vacca più grassa e in che direzione è il pascolo più verde. Rimanendo fermi a disputare su chi sia il più liberale del reame, e ad invocare aperture e confronti a 360 gradi fini a se stessi, non ci arriveremo mai.
E nemmeno pensiate che il problema si potrà risolvere alla democristiana, troncando, sopendo o rinviando la questione. Né, tantomeno, facendo il solito appello paraculo a “guardare a ciò che unisce e non a ciò che divide”.
Se permettete, quel giochino è nato proprio nella nostra area politica, quindi nel corso degli anni ci siamo troppo abituati a chi ce lo vuol servire perché, eventualmente, qualcuno possa nutrire ancora qualche speranza di successo.
Qui c’è in gioco un progetto politico, e una comunità di persone che non scrivono solo per passione, ma anche perché hanno delle idee e sono preoccupati per il futuro dei loro figli, della loro città, dell’Italia e dell’Europa.
Non ce ne andremo sbattendo la porta, appunto perché non siamo bimbi e ai direttori dei giornali non scriviamo più da anni. Della nostra firma in pagina non ce ne frega niente.
Ci interessa partecipare al massimo delle nostre potenzialità ad un progetto politico condiviso. Ridare voce e una direzione comune alla Right Nation. Non era quello che si era detto di fare?
Allora cominciamo a mettere in chiaro da che parte si sta, e a che gioco sta giocando ciascuno di noi.
Finita la riunione di fondazione, appena approvato lo Statuto, la prima cosa che il tesoriere doveva vagliare era il preventivo del tipografo per stampare in double face, su un foglio di carta patinata, non rilegato ma da piegare perché formasse quattro pagine, il numero zero del proprio “giornalino”.
Bisognava vedere se ci si poteva permettere la policromia, e come fare a smaltire l’enorme eccedenza di copie. Infatti in genere non c’era nessuno che stampasse a costi accettabili meno di 300 copie, ma quando l’associazione aveva trenta soci a cui spedirle era già grasso che colava.
In gioventù ci siamo passati anche noi del Filo a Piombo. Dal momento che la vita ha regalato a tutti e tre significative esperienze di giornalismo, in seguito abbiamo avuto modo di astrarci da quelle situazioni, e di poterle riguardare con un certo distacco.
Però, da studenti universitari, anche noi abbiamo ampiamente avuto a che fare con i soci che ti inviavano i loro “pezzi” scritti a mano, o con la Lettera 32. Così come con quelli che si sentivano censurati, non appena vedevano che per il loro sudato articolo non si era trovato posto in pagina. Ai quali non riuscivi mai a spiegare che non era questione di censura ma di spazio.
Anche perché in realtà lo spazio era quasi sempre una pietosa scusa, in quanto il più delle volte ti venivano sottoposti dei compitini di banalità sconfortante. O al contrario, dei “mattoni” cervellotici, magari sgrammaticati fino all’incomprensibilità. Articolesse, o aspiranti tali, dove era necessario scorrere di un fiato dieci righe prima di incontrare la prima virgola.
Insomma, in verità non si trattava mai di censura, bensì di produzioni intellettuali del tutto improponibili su un qualsiasi foglio stampato, anche a quei nostri livelli basic di comunicazione.
Anni dopo, sbattuti nella “cucina” della redazione di alcuni quotidiani, abbiamo avuto modo di vedere le lettere originali di quelli che scrivono sempre al Direttore.
I quali non sono altro che la versione scritta di quegli immancabili soggetti – in genere tutti dall’allure un po’ misticheggiante e un po’ retrò – che alla fine dei convegni si impadroniscono del microfono e sproloquiano senza mai fare la domanda, finchè non glielo strappano via.
Prima della rivoluzione mediatica innescata dal web, quel che più interessava alla “gente comune” – che i giornali non li scrive e spesso nemmeno li legge – era la piccola vanità di vedere il proprio nome stampato su una pagina. Perché è noto che gli Italiani scrivano molto più di quanto non leggano, e amino leggersi più di quanto non amino leggere i grandi maestri (come diceva una delle nostre nonne, nessuno prega Dio per avere più intelligenza).
Anche noi, probabilmente, abbiamo ancora in casa da qualche parte il ritaglio del nostro primo articolo sul giornaletto dell’associazione.
Poi, come è ovvio, con il tempo non ci si fa più caso. Ma a quelli che hanno la fortuna (si fa per dire) di proseguire con il giornalismo o con la politica, l’esperienza dona la possibilità di vedere che nel mondo della comunicazione, proprio come nel calcio, le dinamiche che si presentano sui campetti di periferia si riproducono identiche in serie A.
Chi scrive ha avuto modo di vedere coi suoi occhi un’assemblea di redazione di uno storico settimanale italiano, dove i giornalisti – tutti professionisti in carriera da anni – nicchiavano peggio che ad un’assemblea di condominio che deve deliberare sul rifacimento della caldaia, pur di evitare che si attuasse uno “sciopero della firma” sotto agli articoli del numero successivo.
La carta stampata ha sempre avuto un influsso magico sulle persone, molto più esteso e persistente della credibilità nel merito di quelli che ci scrivono sopra.
La smania dei quisque de populo di comparire in televisione, che è esplosa con l’avvento dei reality show e ancor prima dei varietà dove si telefonava in diretta e si diceva “complimenti per la trasmissione posso salutare mia cugina?”, è sempre esistita pari pari anche per il più infimo dei bollettini della bocciofila.
Ma oggi, grazie ad Internet, molto sta cambiando. Sappiamo tutti che anche per i bloggers meno velleitari, il problema non è più quello di poter scrivere, ma di trovare chi ti legge. E’ il tormentone della “visibilità”, che ha reso tutto un po’ più complicato.
Tutto questo per dire che non possiamo escludere che certi processi si siano innescati anche tra i cittadini di TocqueVille.
Anche tra noi ci sarà quello che, pur di scalare la lista dei link in prima pagina, sarebbe tentato di concludere il proprio post con il più classico dei “voglio vedere se avrete il coraggio di pubblicare questa lettera”.
Per questo (finora abbiamo messo le mani avanti, non ci nascondiamo) vogliamo dire che noi l’abbiamo fatto apposta.
Da quando ci siamo iscritti alla Città dei Liberi, non abbiamo mai fatto molto caso ai criteri con cui vengono selezionati i post: solo quando il Sorvegliato e qualcun altro ci hanno messo la pulce nell’orecchio ci siamo andati a riguardare.
Abbiamo poi chiesto lumi a qualche blogger amico. E’ stato così che ci siamo accorti che, in due mesi di attività del Filo a Piombo, ci è stata aggregata sull’home page di Tocqueville qualunque cazzata scrivessimo.
Ma le uniche, invero rare, eccezioni erano costituite da qualche post nel quale – invece di scagliarci come al solito contro il Governo o contro i kompagni – ci dedicavamo alla critica del laicismo e del relativismo.
Abbiamo quindi provato, alla vigilia di Sestri, a confezionare un paio di ballon d’essai, con tanto di frasetta semipolemica in calce, del tipo di quella citata sopra.
Un bel paio di post squsitamente anti-, dove però il nemico era l’idea laicista ed anticlericale, e non una persona. Tantomeno, ci teniamo a dirlo, un blogger di TocqueVille.
Puff, per la prima volta siamo scomparsi dalla home. A differenza – bisognerà pur dirlo – dei consueti e contemporanei post che se la prendevano con il buon papa Benedetto e il cardinale Ruini. Assieme al solito rispettabile contorno di saloni voltairiani e breviari pagani, che il loro posticino al sole anche il giorno dopo Sestri se lo sono subito ripreso.
Visto che non c’eravamo ed eravamo curiosi di vedere quel che si era detto, abbiamo notato che i commenti dei bloggers più laicolibertari su quanto accaduto nel week-end ligure, sono finiti in home page di TocqueVille ancora prima che riaprisse per tutti quanti la pagina di segnalazione dei post.
Pertanto, eccoci qui dopo lunga premessa, per dire ai nostri venticinque della blogosfera che presumiamo di essere appena un po’ troppo cresciuti perché sia il tipo di giochino a cui ci faccia piacere di giocare.
Non siamo qui per il puro piacere di dare visibilità alle nostre idee o a noi stessi. Abbiamo appena detto che il nostro è un Paese dove già ci sono troppi scrittori rispetto ai lettori, e comunque per qualsiasi persona colta – non solo in Italia – il problema non è nemmeno più quello di leggere, bensì di selezionare le letture.
Siamo qui perché siamo partecipi di un’idea e un progetto politico. Lo facciamo nel nostro piccolo e non da protagonisti, per carità, che siamo tutti nani sulle spalle di giganti.
Però nel contempo ci sentiamo troppo grandicelli per poter essere confusi tra i bambini che si lamentano perché i grandi non li fanno giocare.
Quindi per cortesia, e ci rivolgiamo a quelli che tengono le mani sulla consolle, non pensiate che il problema si potrà risolvere come una volta faceva il bambino padrone della palla.
Non pensiate di essere in presenza dell’eterno gioco politico di quelli che, per costringere tutti ad ascoltarli anche quando non hanno niente da dire, cominciano subito a protestare contro la “mancanza di democrazia interna”, gridano alla censura di regime, e magari fanno anche lo sciopero della fame.
Come è noto, quello è lo stile politico di qualcun altro. Di qualcuno che in effetti è urgente sapere da che parte sta.
Siamo di quelli che schmittianamente pensano che in politica non si possa eludere l’individuazione del nemico e poi dell’amico. Ma prima ancora di definire questo, vorremmo capire da lor signori se per caso pensano che il nemico numero uno del momento, nella vita politica italiana ed europea, sia papa Ratzinger ovvero Ruini. O se, eventualmente, il nemico dovessimo essere noi teo-con, o chi altro.
Non ce la caveremo appellandoci allo spirito liberale: siamo partiti con il rilanciare l’appello del Domenicale sulla “abolizione del liberalismo”, proprio per uscire da questa nebbia terminologica in cui ogni vacca è grigia.
La nostra intenzione è invece quella di capire qual è la vacca più grassa e in che direzione è il pascolo più verde. Rimanendo fermi a disputare su chi sia il più liberale del reame, e ad invocare aperture e confronti a 360 gradi fini a se stessi, non ci arriveremo mai.
E nemmeno pensiate che il problema si potrà risolvere alla democristiana, troncando, sopendo o rinviando la questione. Né, tantomeno, facendo il solito appello paraculo a “guardare a ciò che unisce e non a ciò che divide”.
Se permettete, quel giochino è nato proprio nella nostra area politica, quindi nel corso degli anni ci siamo troppo abituati a chi ce lo vuol servire perché, eventualmente, qualcuno possa nutrire ancora qualche speranza di successo.
Qui c’è in gioco un progetto politico, e una comunità di persone che non scrivono solo per passione, ma anche perché hanno delle idee e sono preoccupati per il futuro dei loro figli, della loro città, dell’Italia e dell’Europa.
Non ce ne andremo sbattendo la porta, appunto perché non siamo bimbi e ai direttori dei giornali non scriviamo più da anni. Della nostra firma in pagina non ce ne frega niente.
Ci interessa partecipare al massimo delle nostre potenzialità ad un progetto politico condiviso. Ridare voce e una direzione comune alla Right Nation. Non era quello che si era detto di fare?
Allora cominciamo a mettere in chiaro da che parte si sta, e a che gioco sta giocando ciascuno di noi.
18 giugno 2006
Maledetta laicità # 2
Se dobbiamo giudicare dai discorsi di certi bloggers, ma anche da alcuni titoli di saggistica comparsi di recente in libreria, di questi tempi è proprio l’idea distorta della “laicità” a dividere la politica italiana più di ogni altro problema.
Soprattutto nel campo dei moderati, dal momento che i primi passi del governo Prodi ci hanno mostrato che sul versante progressista le presenze cattoliche sono state subito annichilite, esattamente come le residue istanze liberali dei Rosapugnisti.
Però della Margherita non ci preoccupiamo più di tanto, perché il destino di dissolvimento dei “cattolici democratici” nel calderone progressista non è certo una novità della politica italiana. E i continui deliri – ormai oltre il limite della dissonanza cognitiva – ai quali ci hanno abituati personaggi come Daniele Capezzone, al limite possono servirci come cartina di tornasole di quel che può succedere a chi esageri nel fare del laicismo il proprio dogma.
Invece, visto che ci interessano le prospettive della Casa della Libertà, noi vorremmo rivedere la questione della laicità nell’interesse dei liberali ancora rimasti da questa parte della barricata. Anzi, ci interessano soprattutto coloro che – magari per narcisismo intellettuale – ancora credono nel terzismo, ovvero sono convinti che essere liberali voglia dire mettersi sempre al di sopra delle parti.
Parliamo cioè di coloro che abbiamo chiamato “liberali alle vongole”, per la loro incapacità di porsi al di fuori del punto di osservazione ormai troppo angusto e provinciale del vecchio liberalismo italiano. Il quale come sappiamo è di derivazione risorgimentale, e quindi ancora piuttosto conflittuale rispetto all’humus cattolico del nostro Paese.
Abbiamo già scritto altrove che i “laici” di ispirazione liberale, anche quando non finiscono per condannarsi alla senescenza politica in seno all’Armata Brancaleone progressista, tendono ad essere una delle componenti più inquiete – ma secondo noi anche più sterili, e culturalmente sorpassate – dell’attuale momento del polo moderato.
Purtroppo, l’irruzione sulla scena culturale e politica di sensibilità del tutto nuove, come quelle dei cosiddetti “atei devoti” e dei cattolici impegnati che non accettano di dissolvere la propria identità nel progressismo, sembra essere diventata la bestia nera anche dei nostri liberali alle vongole.
Lo si capisce dal sarcasmo che traspare da alcuni loro recenti editoriali e saggi politologici: i bersagli preferiti delle loro rancorose reprimende sono i pretesi “teo-con” che continuano a definirsi agnostici, come Giuliano Ferrara e Marcello Pera. Ancor più che i credenti dichiarati, che ad uno sguardo laicista conservano il pregio di essere assai più facilmente catalogabili, e di conseguenza ghettizzabili.
Il fenomeno era prevedibile, dal momento che i cattolici irriducibili alla secolarizzazione ci sono sempre stati ma – sempre dal punto di vista laicista – dopo le battaglie su divorzio e aborto degli anni ’70, ormai erano da considerare una specie di corpo estraneo della società.
Una riserva indiana interna ad un’altra riserva indiana, ancor più nascosta e marginale della prima, e quindi per ciò stesso tollerabile. O meglio, trascurabile.
Per chi è tuttora legato a questi schemi mentali, scoprire che numerose tematiche irrimediabilmente “di destra”, perdipiù ispirate da concetti religiosi, e quel che è peggio di derivazione americana, abbiano fatto presa persino su autorevoli personalità “laiche”, deve aver rappresentato un tradimento insopportabile. Ma è noto che, per coloro che fanno politica in modo passionale o settario, più che il nemico di sempre è l’ex amico che tradisce la causa a suscitare le reazioni peggiori.
Tuttavia, come dicevamo prima, non ci interessa tanto la solita sinistra più o meno salottiera, bensì un ceto di persone di media ed alta cultura, che spesso si sono politicamente esposte con il centrodestra. E quindi, di possibili compagni di strada che, specie in questa fase politica, non possiamo permetterci di abbandonare.
Anche se, per molti versi, il compito non sarà facile.
Infatti la nostra impressione è che – alla base della loro ostinazione laicista – non vi siano unicamente ragioni ideologiche, e discutibili punti di riferimento culturali. Oltre a ciò, in molte persone potrebbero facilmente essersi consolidati stili di vita e vissuti personali tanto radicati da fare velo anche all’intelligenza politica, impedendo a questi nostri amici di ripensare il senso della propria stessa “laicità”.
A nostro parere è evidente che di fronte al problema del senso religioso e della morale pubblica non sono in gioco soltanto diverse visioni della società. Il problema coinvolge profondamente anche le scelte personali e la stessa esistenza di ognuno. Quindi, ripensare la laicità per molti non rappresenta unicamente un problema politico contingente, come potrebbe esserlo decidere se costruire o meno il Ponte sullo Stretto.
Nonostante questo, la delicatezza di una questione non è quasi mai un buon motivo per evitarla, magari con l’ipocrisia tipica di un certo sentire cattolico (ma estremamente laico nei presupposti) che, per guardare solo a ciò che ciò unisce, finisce per lasciare irrisolto ciò che divide.
In fondo, la questione della “laicità” è nata proprio quando nella nostra società ha smesso di essere condiviso non soltanto il modo di guardare alla politica, ma anche quello di guardare alla vita. Per questo riteniamo sia urgente ripensare il tema e rimetterlo sempre più al centro del dibattito politico e culturale.
E allora, suggeriamo di riavvolgere il nastro. Di rivedere alcune strutture portanti del modo corrente di pensare alla politica, quando si pretende di essere liberali.
Perché c’è qualcosa di sbagliato, un equivoco di fondo, che grava sul nostro comune passato e quindi sulla educazione politica che un po’ tutti abbiamo ricevuto.
C’è stato un momento nel quale la storia della libertà si è divisa per due sentieri. E di quella divisione ancora noi subiamo le conseguenze.
Da una parte la Rivoluzione Americana, il Bill of Rights, l’idea di una società dove ognuno nasce libero ed eguale perché tale è stato creato da Dio.
Un’idea che non era nuova, bensì uno sviluppo originale – in un Paese che è nato come un’Europa trapiantata – della tradizione scolastica medioevale. Cioè, dell’idea cristiana di libertà, e dell’autonomia della politica rispetto all’ordine spirituale.
Gli Stati Uniti si sono sviluppati in continuità con una tradizione dove la questione della laicità era stata studiata fin dall’alto medioevo. Perchè il cristianesimo stesso è nato laico: una delle grandi novità del Vangelo è stata proprio quella della divisione tra la sfera spirituale e quella politica.
Prima di Gesù non era così, e non solo nella società ebraica, che considerava il Messia un capo politico. Anche nell’Impero Romano, il Cesare annoverava tra i suoi attributi quelli del pontifex, del capo religioso.
Ed è stato così per tutte le civiltà antiche. In Europa ha tornato ad essere così con la riforma protestante, che ha conferito nuovamente ai sovrani autorità sulle materie spirituali, tanto che le guerre di religione si composero solo con l’imposizione del principio del cuius regio.
Nel mondo anglosassone che si trapiantò negli Stati Uniti, la teoria della laicità nacque sulla base di esigenze del tutto empiriche.
Agli orecchianti della storia delle idee, che rispetto a questi argomenti ci appaiono letteralmente schienati dai luoghi comuni imparati fin dalle medie superiori, potrà sembrare strano apprendere che John Locke, autore del primo “Saggio sulla tolleranza” (1667), predicasse rispetto per le posizioni di tutti tranne che per gli uomini irreligiosi e per i “papisti”.
Ma era un’idea del tutto coerente con le esigenze del suo tempo. Il bisogno di laicità nasce nelle società dove le idee religiose, e più in generale la concezione della vita, non sono più condivise da tutti e creano divisioni anche nel modo di rapportarsi all’autorità civile.
Tanto è vero che nei Paesi dei cristiani ortodossi – che sono stati più preservati dagli influssi della Riforma e quindi dalle relative guerre – una tradizione di consolidata sottomissione del potere religioso a quello civile ha fatto sì che il problema della “laicità” rimanga ancor oggi poco comprensibile.
Ma nel contempo, sono pienamente laiche quelle società dove rimangono saldi alcuni principi comuni di fondo, anche in materia spirituale e religiosa, perché altrimenti la laicità non serve affatto e non può impedire né i più aspri conflitti, né la decadenza morale e civile.
Questa impostazione empirica è propria della tradizione americana. E difatti gli Stati Uniti – Paese multiculturale fin dalle origini – rappresentano tuttora la più laica delle grandi Nazioni per ragioni del tutto pratiche, e non ideologiche. Nonostante la la loro perfetta laicità, anzi proprio in relazione ad essa, gli Usa non sono mai stati una società irreligiosa.
Tutt’altra cosa fu invece la Rivoluzione Francese, dalla quale discende – per via risorgimentale – la visione della laicità che va per la maggiore in Italia, così come in tutta l’Europa continentale.
Quella dei sacri principi dell’ottantanove è stata piuttosto l’affermazione di un’unica idea piuttosto totalizzante, anche e soprattutto in materia religiosa.
Di certo ha rappresentato una grande rottura col passato, e difatti si è proposta alla società del suo tempo – in modo sempre assai traumatico, dal Terrore alla Vandea – come l’avvento di un’era del tutto nuova.
E’ stato il trionfo delle idee illuministiche, dei pamphlet, del culto degli Enciclopedisti per la Dea ragione. La rottura radicale con il passato e, con essa, l’affermazione dell’idea che libertè egalitè fraternitè fossero realizzabili soltanto contro Dio e la tradizione ricevuta dai padri.
Non vi è mai stato nulla in quella tradizione che potesse portare laicità. Non poteva esservi nulla di laico nel pretendere che i ministri di culto giurassero fedeltà al potere politico.
Paradossalmente, avrebbe potuto esserci un po’ di più di laicità nel massacrare i Vandeani, nonché nel saccheggiare ed espropriare i beni ecclesiastici, se questo almeno fosse avvenuto senza la pretesa di instaurare un nuovo ordine morale.
Ma una simile opzione sarebbe stata impossibile, perché in natura il vuoto non esiste, e quindi non si sarebbe mai potuto sradicare dalla memoria civile dei popoli una tradizione religiosa, senza almeno provare a sostituirla con un’altra.
Per questo diciamo che l’idea di laicità che tuttora va per la maggiore nell’Europa Continentale è un gigantesco imbroglio storico e culturale.
Dal punto di vista delle libertà civili, quella dei laicisti è sempre stata la parte sbagliata. Appena meno che per i comunisti. Difatti va detto che fin dalle origini le due linee di pensiero hanno sviluppato una importantissima tradizione comune: entrambe alla libertà hanno ben presto sostituito il mito della “liberazione”.
La liberazione dal bisogno, vagheggiata dei marxisti, assieme alla liberazione dalla norma morale, che è fine ultimo del relativismo.
In ultima analisi, la filosofia della laicitè della tradizione giacobina ha perseguito la liberazione da Dio. Ma questa – come insegna la visione storica cattolica – in ultima analisi porta l’uomo soltanto a fuoriuscire da se stesso e dalla realtà, e quindi alla alienazione.
Nonostante il luogo comune che ancora si insegna nelle scuole, proprio la tradizione illuministica si è trasformata, nel corso degli ultimi due secoli, nel campo privilegiato dell’irrazionalità. Non è dunque su questa linea di pensiero che si può costruire una società aperta e libera. E quindi, nemmeno la vera laicità.
Nel nostro mondo occidentale, dove stanno emergendo con prepotenza le conseguenze di questa fuga dell’uomo da se stesso, l’unica laicità sostenibile è il ritorno alla razionalità concreta della dottrina politica medioevale, preservata nelle sue linee guida dalla tradizione americana. Secondo la quale l’uomo nasce libero e gode di diritti naturali che il potere politico deve riconoscere, e che le autorità spirituali da esso autonome (solo questa è la vera laicità) devono saper interpretare e garantire.
Insomma, occorre il riaggancio a ciò che prima della Rivoluzione Francese era stato eredità comune europea, e che si è preservato nella tradizione americana.
Per potercisi almeno avvicinare, come prima cosa bisogna finirla con gli equivoci sulla laicità, e poi con le discutibili idee sulle libertà civili che vi girano attorno. Altrimenti non andremo da nessuna parte.
Soprattutto nel campo dei moderati, dal momento che i primi passi del governo Prodi ci hanno mostrato che sul versante progressista le presenze cattoliche sono state subito annichilite, esattamente come le residue istanze liberali dei Rosapugnisti.
Però della Margherita non ci preoccupiamo più di tanto, perché il destino di dissolvimento dei “cattolici democratici” nel calderone progressista non è certo una novità della politica italiana. E i continui deliri – ormai oltre il limite della dissonanza cognitiva – ai quali ci hanno abituati personaggi come Daniele Capezzone, al limite possono servirci come cartina di tornasole di quel che può succedere a chi esageri nel fare del laicismo il proprio dogma.
Invece, visto che ci interessano le prospettive della Casa della Libertà, noi vorremmo rivedere la questione della laicità nell’interesse dei liberali ancora rimasti da questa parte della barricata. Anzi, ci interessano soprattutto coloro che – magari per narcisismo intellettuale – ancora credono nel terzismo, ovvero sono convinti che essere liberali voglia dire mettersi sempre al di sopra delle parti.
Parliamo cioè di coloro che abbiamo chiamato “liberali alle vongole”, per la loro incapacità di porsi al di fuori del punto di osservazione ormai troppo angusto e provinciale del vecchio liberalismo italiano. Il quale come sappiamo è di derivazione risorgimentale, e quindi ancora piuttosto conflittuale rispetto all’humus cattolico del nostro Paese.
Abbiamo già scritto altrove che i “laici” di ispirazione liberale, anche quando non finiscono per condannarsi alla senescenza politica in seno all’Armata Brancaleone progressista, tendono ad essere una delle componenti più inquiete – ma secondo noi anche più sterili, e culturalmente sorpassate – dell’attuale momento del polo moderato.
Purtroppo, l’irruzione sulla scena culturale e politica di sensibilità del tutto nuove, come quelle dei cosiddetti “atei devoti” e dei cattolici impegnati che non accettano di dissolvere la propria identità nel progressismo, sembra essere diventata la bestia nera anche dei nostri liberali alle vongole.
Lo si capisce dal sarcasmo che traspare da alcuni loro recenti editoriali e saggi politologici: i bersagli preferiti delle loro rancorose reprimende sono i pretesi “teo-con” che continuano a definirsi agnostici, come Giuliano Ferrara e Marcello Pera. Ancor più che i credenti dichiarati, che ad uno sguardo laicista conservano il pregio di essere assai più facilmente catalogabili, e di conseguenza ghettizzabili.
Il fenomeno era prevedibile, dal momento che i cattolici irriducibili alla secolarizzazione ci sono sempre stati ma – sempre dal punto di vista laicista – dopo le battaglie su divorzio e aborto degli anni ’70, ormai erano da considerare una specie di corpo estraneo della società.
Una riserva indiana interna ad un’altra riserva indiana, ancor più nascosta e marginale della prima, e quindi per ciò stesso tollerabile. O meglio, trascurabile.
Per chi è tuttora legato a questi schemi mentali, scoprire che numerose tematiche irrimediabilmente “di destra”, perdipiù ispirate da concetti religiosi, e quel che è peggio di derivazione americana, abbiano fatto presa persino su autorevoli personalità “laiche”, deve aver rappresentato un tradimento insopportabile. Ma è noto che, per coloro che fanno politica in modo passionale o settario, più che il nemico di sempre è l’ex amico che tradisce la causa a suscitare le reazioni peggiori.
Tuttavia, come dicevamo prima, non ci interessa tanto la solita sinistra più o meno salottiera, bensì un ceto di persone di media ed alta cultura, che spesso si sono politicamente esposte con il centrodestra. E quindi, di possibili compagni di strada che, specie in questa fase politica, non possiamo permetterci di abbandonare.
Anche se, per molti versi, il compito non sarà facile.
Infatti la nostra impressione è che – alla base della loro ostinazione laicista – non vi siano unicamente ragioni ideologiche, e discutibili punti di riferimento culturali. Oltre a ciò, in molte persone potrebbero facilmente essersi consolidati stili di vita e vissuti personali tanto radicati da fare velo anche all’intelligenza politica, impedendo a questi nostri amici di ripensare il senso della propria stessa “laicità”.
A nostro parere è evidente che di fronte al problema del senso religioso e della morale pubblica non sono in gioco soltanto diverse visioni della società. Il problema coinvolge profondamente anche le scelte personali e la stessa esistenza di ognuno. Quindi, ripensare la laicità per molti non rappresenta unicamente un problema politico contingente, come potrebbe esserlo decidere se costruire o meno il Ponte sullo Stretto.
Nonostante questo, la delicatezza di una questione non è quasi mai un buon motivo per evitarla, magari con l’ipocrisia tipica di un certo sentire cattolico (ma estremamente laico nei presupposti) che, per guardare solo a ciò che ciò unisce, finisce per lasciare irrisolto ciò che divide.
In fondo, la questione della “laicità” è nata proprio quando nella nostra società ha smesso di essere condiviso non soltanto il modo di guardare alla politica, ma anche quello di guardare alla vita. Per questo riteniamo sia urgente ripensare il tema e rimetterlo sempre più al centro del dibattito politico e culturale.
E allora, suggeriamo di riavvolgere il nastro. Di rivedere alcune strutture portanti del modo corrente di pensare alla politica, quando si pretende di essere liberali.
Perché c’è qualcosa di sbagliato, un equivoco di fondo, che grava sul nostro comune passato e quindi sulla educazione politica che un po’ tutti abbiamo ricevuto.
C’è stato un momento nel quale la storia della libertà si è divisa per due sentieri. E di quella divisione ancora noi subiamo le conseguenze.
Da una parte la Rivoluzione Americana, il Bill of Rights, l’idea di una società dove ognuno nasce libero ed eguale perché tale è stato creato da Dio.
Un’idea che non era nuova, bensì uno sviluppo originale – in un Paese che è nato come un’Europa trapiantata – della tradizione scolastica medioevale. Cioè, dell’idea cristiana di libertà, e dell’autonomia della politica rispetto all’ordine spirituale.
Gli Stati Uniti si sono sviluppati in continuità con una tradizione dove la questione della laicità era stata studiata fin dall’alto medioevo. Perchè il cristianesimo stesso è nato laico: una delle grandi novità del Vangelo è stata proprio quella della divisione tra la sfera spirituale e quella politica.
Prima di Gesù non era così, e non solo nella società ebraica, che considerava il Messia un capo politico. Anche nell’Impero Romano, il Cesare annoverava tra i suoi attributi quelli del pontifex, del capo religioso.
Ed è stato così per tutte le civiltà antiche. In Europa ha tornato ad essere così con la riforma protestante, che ha conferito nuovamente ai sovrani autorità sulle materie spirituali, tanto che le guerre di religione si composero solo con l’imposizione del principio del cuius regio.
Nel mondo anglosassone che si trapiantò negli Stati Uniti, la teoria della laicità nacque sulla base di esigenze del tutto empiriche.
Agli orecchianti della storia delle idee, che rispetto a questi argomenti ci appaiono letteralmente schienati dai luoghi comuni imparati fin dalle medie superiori, potrà sembrare strano apprendere che John Locke, autore del primo “Saggio sulla tolleranza” (1667), predicasse rispetto per le posizioni di tutti tranne che per gli uomini irreligiosi e per i “papisti”.
Ma era un’idea del tutto coerente con le esigenze del suo tempo. Il bisogno di laicità nasce nelle società dove le idee religiose, e più in generale la concezione della vita, non sono più condivise da tutti e creano divisioni anche nel modo di rapportarsi all’autorità civile.
Tanto è vero che nei Paesi dei cristiani ortodossi – che sono stati più preservati dagli influssi della Riforma e quindi dalle relative guerre – una tradizione di consolidata sottomissione del potere religioso a quello civile ha fatto sì che il problema della “laicità” rimanga ancor oggi poco comprensibile.
Ma nel contempo, sono pienamente laiche quelle società dove rimangono saldi alcuni principi comuni di fondo, anche in materia spirituale e religiosa, perché altrimenti la laicità non serve affatto e non può impedire né i più aspri conflitti, né la decadenza morale e civile.
Questa impostazione empirica è propria della tradizione americana. E difatti gli Stati Uniti – Paese multiculturale fin dalle origini – rappresentano tuttora la più laica delle grandi Nazioni per ragioni del tutto pratiche, e non ideologiche. Nonostante la la loro perfetta laicità, anzi proprio in relazione ad essa, gli Usa non sono mai stati una società irreligiosa.
Tutt’altra cosa fu invece la Rivoluzione Francese, dalla quale discende – per via risorgimentale – la visione della laicità che va per la maggiore in Italia, così come in tutta l’Europa continentale.
Quella dei sacri principi dell’ottantanove è stata piuttosto l’affermazione di un’unica idea piuttosto totalizzante, anche e soprattutto in materia religiosa.
Di certo ha rappresentato una grande rottura col passato, e difatti si è proposta alla società del suo tempo – in modo sempre assai traumatico, dal Terrore alla Vandea – come l’avvento di un’era del tutto nuova.
E’ stato il trionfo delle idee illuministiche, dei pamphlet, del culto degli Enciclopedisti per la Dea ragione. La rottura radicale con il passato e, con essa, l’affermazione dell’idea che libertè egalitè fraternitè fossero realizzabili soltanto contro Dio e la tradizione ricevuta dai padri.
Non vi è mai stato nulla in quella tradizione che potesse portare laicità. Non poteva esservi nulla di laico nel pretendere che i ministri di culto giurassero fedeltà al potere politico.
Paradossalmente, avrebbe potuto esserci un po’ di più di laicità nel massacrare i Vandeani, nonché nel saccheggiare ed espropriare i beni ecclesiastici, se questo almeno fosse avvenuto senza la pretesa di instaurare un nuovo ordine morale.
Ma una simile opzione sarebbe stata impossibile, perché in natura il vuoto non esiste, e quindi non si sarebbe mai potuto sradicare dalla memoria civile dei popoli una tradizione religiosa, senza almeno provare a sostituirla con un’altra.
Per questo diciamo che l’idea di laicità che tuttora va per la maggiore nell’Europa Continentale è un gigantesco imbroglio storico e culturale.
Dal punto di vista delle libertà civili, quella dei laicisti è sempre stata la parte sbagliata. Appena meno che per i comunisti. Difatti va detto che fin dalle origini le due linee di pensiero hanno sviluppato una importantissima tradizione comune: entrambe alla libertà hanno ben presto sostituito il mito della “liberazione”.
La liberazione dal bisogno, vagheggiata dei marxisti, assieme alla liberazione dalla norma morale, che è fine ultimo del relativismo.
In ultima analisi, la filosofia della laicitè della tradizione giacobina ha perseguito la liberazione da Dio. Ma questa – come insegna la visione storica cattolica – in ultima analisi porta l’uomo soltanto a fuoriuscire da se stesso e dalla realtà, e quindi alla alienazione.
Nonostante il luogo comune che ancora si insegna nelle scuole, proprio la tradizione illuministica si è trasformata, nel corso degli ultimi due secoli, nel campo privilegiato dell’irrazionalità. Non è dunque su questa linea di pensiero che si può costruire una società aperta e libera. E quindi, nemmeno la vera laicità.
Nel nostro mondo occidentale, dove stanno emergendo con prepotenza le conseguenze di questa fuga dell’uomo da se stesso, l’unica laicità sostenibile è il ritorno alla razionalità concreta della dottrina politica medioevale, preservata nelle sue linee guida dalla tradizione americana. Secondo la quale l’uomo nasce libero e gode di diritti naturali che il potere politico deve riconoscere, e che le autorità spirituali da esso autonome (solo questa è la vera laicità) devono saper interpretare e garantire.
Insomma, occorre il riaggancio a ciò che prima della Rivoluzione Francese era stato eredità comune europea, e che si è preservato nella tradizione americana.
Per potercisi almeno avvicinare, come prima cosa bisogna finirla con gli equivoci sulla laicità, e poi con le discutibili idee sulle libertà civili che vi girano attorno. Altrimenti non andremo da nessuna parte.
17 giugno 2006
Referendum, l’aggressione al buon senso di chi crede alle ragioni del no (e perché i cattolici dovrebbero votare sì)
Nell’edizione delle ore 20 di venerdì 16 giugno il Tg5 ha ospitato le dichiarazioni di voto al referendum costituzionale del 25 e 26 giugno di due politici di primo piano, un rappresentante del comitato del Sì, il leghista Roberto Calderoli, e uno del No, il diessino Franco Bassanini. Entrambi, per far fruttare al meglio il mezzo minuto a disposizione, hanno preferito alzare i toni e metterla sul catastrofico. “Se la riforma verrà bocciata – ha detto l’uomo di Bossi –, l’Italia andrà a fondo e i cittadini con lei”. “Non è vero – ha risposto Bassanini -. Piuttosto se passerà, verranno minati i diritti fondamentali degli italiani, a partire da quello alla salute”.
Confessiamo che un sorriso scettico ci è sfuggito a sentire l’appello dell’esponente della Quercia. E non perché riteniamo, da bravi liberal-conservatori autentici, che uno con la storia e il presente di Bassanini abbia perso di vista i diritti dei cittadini da un pezzo. Per carità, saremmo tentati di farlo. Ma non lo faremo. Il nostro scetticismo, al contrario, si fonda su un sospetto molto più concreto e legato alla strategia comunicativa della sinistra da diversi mesi a questa parte. I toni da tregenda usati da Bassanini, infatti, ci hanno immediatamente riportato alla mente i toni, altrettanto da tregenda, usati per scomunicare la Finanziaria 2006 dell’ex governo Berlusconi.
Forse qualcuno ricorderà che da ottobre 2005 a febbraio di quest’anno, contro l’ultimo importante provvedimento della Casa delle Libertà venne scatenata dal centrosinistra una campagna di disinformazione esemplarmente leninistica. Per settimane e settimane venne ripetuto in modo ossessivo un ritornello soltanto: “Con questa Finanziaria, che azzera i contributi dello Stato agli enti locali, Berlusconi mette a repentaglio i servizi fondamentali da erogare ai cittadini”.
Il 10 novembre 2005, il sindaco di Bologna Sergio Cofferati dichiarò alle agenzie di stampa: “È un danno enorme per le persone, perché il taglio della Finanziaria stabilito sulla spesa corrente colpisce la mobilità, l’ambiente, la sicurezza, una parte delle politiche sociali. I Comuni – continuava lo sceriffo in babbucce di Cremona – saranno in grande difficoltà a fare i loro bilanci, e le persone che normalmente vengono assistite attraverso le politiche di protezione, si troveranno di fronte a una serie di incognite enormi. Quindi non è solo una scelta sbagliata, quella del Governo, ma è una vera e propria aggressione alle condizioni della coesione sociale”.
Insomma, lo scenario paventato dall’ex leader della Cgil era di quelli drammatici. All’orizzonte già si intuivano i contorni di masse di diseredati affamati e senza un tetto. Poi la campagna elettorale è passata, le elezioni pure e solo qualche giorno fa è emersa la semplice verità. La giunta di Bologna, con una variazione di bilancio, ha ufficializzato maggiori entrate per diversi milioni di euro. Tra questi, più di quattro arrivano da contributi dello Stato. Dubitiamo che il governo Prodi, malgrado le ragioni del cuore lo stimolassero, sia intervenuto a favore del capoluogo emiliano romagnolo con una legge ad hoc.
Dunque il ritornello di prima si è rivelato alla luce del sole per quello che era fin dall’inizio: una balla di dimensioni colossali. E come tale di puro stampo leninistico. Ecco, tutto questo ci è passato per la mente ascoltando gli insulti al buon senso di Bassanini.
Insulti, peraltro, anche di carattere anti-cattolico. Non vogliamo per forza infilare la dottrina sociale della Chiesa dappertutto. Tuttavia respingere una riforma costituzionale che impone al presidente della Repubblica di “nominare il Premier sulla base dei risultati delle elezioni” e sancisce che il primo ministro “determina (e non dirige) la politica generale del Governo”, significa dire no ad una maggiore centralità dell’individuo, che è anche elettore e cittadino. Significa, alla fine, dire no ad una maggiore responsabilizzazione del popolo, al quale in questo modo si offrirebbe una buona occasione per cominciare a mettere da parte decenni di diffidenza verso quella politica politicante e spesso incomprensibile, se non addirittura in conflitto con i propri interessi, che ha gettato fango sul patto fra cittadini e istituzioni.
Confessiamo che un sorriso scettico ci è sfuggito a sentire l’appello dell’esponente della Quercia. E non perché riteniamo, da bravi liberal-conservatori autentici, che uno con la storia e il presente di Bassanini abbia perso di vista i diritti dei cittadini da un pezzo. Per carità, saremmo tentati di farlo. Ma non lo faremo. Il nostro scetticismo, al contrario, si fonda su un sospetto molto più concreto e legato alla strategia comunicativa della sinistra da diversi mesi a questa parte. I toni da tregenda usati da Bassanini, infatti, ci hanno immediatamente riportato alla mente i toni, altrettanto da tregenda, usati per scomunicare la Finanziaria 2006 dell’ex governo Berlusconi.
Forse qualcuno ricorderà che da ottobre 2005 a febbraio di quest’anno, contro l’ultimo importante provvedimento della Casa delle Libertà venne scatenata dal centrosinistra una campagna di disinformazione esemplarmente leninistica. Per settimane e settimane venne ripetuto in modo ossessivo un ritornello soltanto: “Con questa Finanziaria, che azzera i contributi dello Stato agli enti locali, Berlusconi mette a repentaglio i servizi fondamentali da erogare ai cittadini”.
Il 10 novembre 2005, il sindaco di Bologna Sergio Cofferati dichiarò alle agenzie di stampa: “È un danno enorme per le persone, perché il taglio della Finanziaria stabilito sulla spesa corrente colpisce la mobilità, l’ambiente, la sicurezza, una parte delle politiche sociali. I Comuni – continuava lo sceriffo in babbucce di Cremona – saranno in grande difficoltà a fare i loro bilanci, e le persone che normalmente vengono assistite attraverso le politiche di protezione, si troveranno di fronte a una serie di incognite enormi. Quindi non è solo una scelta sbagliata, quella del Governo, ma è una vera e propria aggressione alle condizioni della coesione sociale”.
Insomma, lo scenario paventato dall’ex leader della Cgil era di quelli drammatici. All’orizzonte già si intuivano i contorni di masse di diseredati affamati e senza un tetto. Poi la campagna elettorale è passata, le elezioni pure e solo qualche giorno fa è emersa la semplice verità. La giunta di Bologna, con una variazione di bilancio, ha ufficializzato maggiori entrate per diversi milioni di euro. Tra questi, più di quattro arrivano da contributi dello Stato. Dubitiamo che il governo Prodi, malgrado le ragioni del cuore lo stimolassero, sia intervenuto a favore del capoluogo emiliano romagnolo con una legge ad hoc.
Dunque il ritornello di prima si è rivelato alla luce del sole per quello che era fin dall’inizio: una balla di dimensioni colossali. E come tale di puro stampo leninistico. Ecco, tutto questo ci è passato per la mente ascoltando gli insulti al buon senso di Bassanini.
Insulti, peraltro, anche di carattere anti-cattolico. Non vogliamo per forza infilare la dottrina sociale della Chiesa dappertutto. Tuttavia respingere una riforma costituzionale che impone al presidente della Repubblica di “nominare il Premier sulla base dei risultati delle elezioni” e sancisce che il primo ministro “determina (e non dirige) la politica generale del Governo”, significa dire no ad una maggiore centralità dell’individuo, che è anche elettore e cittadino. Significa, alla fine, dire no ad una maggiore responsabilizzazione del popolo, al quale in questo modo si offrirebbe una buona occasione per cominciare a mettere da parte decenni di diffidenza verso quella politica politicante e spesso incomprensibile, se non addirittura in conflitto con i propri interessi, che ha gettato fango sul patto fra cittadini e istituzioni.
15 giugno 2006
Maledetta laicità # 1
Proviamo a prenderlo per le corna (grabbing it by the horns), questo tormentone della “laicità”.
Secondo noi sarebbe ora di farla finita persino con la parola, non solo per gli equivoci le incomprensioni che suscita, ma anche perché alcuni personaggi della nostra vita politica – che sul predetto termine ci campano – hanno davvero esagerato, ed ampiamente sorpassato il limite dell’onestà intellettuale.
In un’altra occasione, parlando dei “liberali alle vongole”, abbiamo sostenuto l’esistenza di un sedimentato equivoco storico, e addirittura semantico, che assieme al liberalismo coinvolge in pieno anche la questione della laicità. Il dibattito era stato lanciato da ben più autorevole rivista, e anche noi nel nostro piccolo abbiamo cercato di contribuire.
Però, la polemica recentemente sorta tra i bloggers di TocqueVille ci ha suggerito che, tra coloro che per il futuro pensano di poter ancora condividere un minimo di appartenenza ideale, sia urgente avviare quantomeno una “modalità provvisoria” per affrontare il problema. Altrimenti, continueranno a farla da padroni solo quelli che sulla propria presunta “laicità” ci stanno marciando senza ritegno da ormai troppo tempo.
Sono sotto gli occhi di tutti le personalità intellettuali e gli interi movimenti politici che, per quanto numericamente esigui, conservano un minimo di visibilità soltanto grazie all’ambiguità di questo concetto. Che invece, secondo noi, sia sul piano politico che su quello culturale non ha più alcuna ragione sostanziale di esistere.
Diciamo questo perché dopo tante polemiche, slogan e chiacchiere al vento, siamo convinti che servirebbe un sano e rapido ritorno alla realtà. Nell’ambito della quale è intellettualmente “visibile” solo ciò che possiede uno straccio di sostanza. Anzi, di essenza, nel senso aristotelico (e vorremmo dire tomistico, se lorsignori non si incazzano) del termine.
Al contrario, tra tutti gli orientamenti ideali che oggi si contendono il campo, i laicisti duri e puri sono probabilmente quelli che di sostanza ne hanno meno di tutti. Benché in compenso sia sempre assai solida la loro pretesa – che costituisce la loro caratteristica forse più odiosa e anche meno “laica” – di essere gli unici abilitati a dispensare patentini di liberalismo a destra e a manca.
Anzi, solo a destra: infatti è bastato un mese di governo Prodi per accorgersi che, quando si rivolgono a manca, i nostri eroi sono capaci di starsene ancor più allineati e coperti dei tanto vituperati cattolici adulti.
Siamo dell’idea che per i laicisti la “società” e la “politica” alla fin fine siano concetti eminentemente astratti, dei quali si può dire e disdire ciò che si vuole. La loro visione ci sembra ancor più semplificata di quella dei progressisti, ed anche quella più esposta a conseguenze inintenzionali disastrose, se solo riuscisse a dispiegarsi pienamente.
Del resto, è indubbio che nell’orizzonte ideale dei laicisti contino soprattutto gli individui. Anzi, diciamo pure che contano solo loro stessi, e i loro legami personali più o meno “deboli”. Negano Dio in nome dell’Io.
Solo per questo non si può pretendere alcuna condivisione da parte di coloro che, pur ostinandosi a praticare idee liberali, hanno scelto di prendersi la responsabilità di una famiglia tradizionale e di un lavoro professionale. Per questo, a maggior ragione, non abbiamo più alcuna intenzione di lasciarli dire e fare, ed eventualmente di decidere da soli anche per i nostri figli.
I motivi per cui in Italia è così rifiorita la questione della “laicità” li dovremmo conoscere tutti: negli ultimi anni – a causa dell’esplosione di una serie di questioni etiche e sociologiche davvero epocali – la parola in esame ha riconquistato il centro del nostro dibattito politico. E qualcosa di analogo è avvenuto, sia pure nell’ambito di tradizioni diverse, anche nel resto d’Europa e dell’Occidente.
Cosa c’è alla base di tutto questo? A nostro parere, si tratta di fenomeni sostanziali che erano già rilevabili in tutta Europa da almeno un quarto di secolo, ma che ci sono passati letteralmente sotto al naso senza che nessuno – ad eccezione della Chiesa Cattolica – lanciasse l’allarme.
Stiamo parlando dell’inarrestabile progressione dei divorzi di massa, della contraccezione generalizzata e delle genitorialità narcisistiche (non più di un figlio, massimo due).
Per non parlare – che in effetti è l’altro corno di una medesima grande questione etica – dell’ormai sopraggiunta insostenibilità del welfare state, così come lo si è concepito e costruito nell’Europa continentale, dal dopoguerra ad oggi.
Anche se si fa finta di non accorgersene, queste trasformazioni sociali basate sull’esaltazione delle libertà individuali ormai sono divenute così imponenti da disgregare il tessuto sociale. E addirittura, in una prospettiva ormai imminente, da spopolare il vecchio Continente, depauperandolo sempre più sia delle sue risorse materiali che delle sue genti autoctone.
L’avvento delle tecniche di fecondazione assistita e delle sperimentazioni sugli embrioni umani, nonché delle istanze omosessuali riguardo al matrimonio, hanno fatto sì che i problemi etici prima inosservati diventassero di grande attualità. Anche perché, nel contempo, la pressione dell’integralismo islamico ha messo in luce tutta la debolezza culturale dell’Europa a questo riguardo.
I “laici” più ortodossi tuttavia sembrano essere rimasti fermi alla spensierata e irresponsabile euforia degli anni ’70, quando le legislazioni su divorzio ed aborto si affermarono anche in Italia nella più assoluta inconsapevolezza delle conseguenze.
Tanto che la questione della “laicità” è stata da loro riproposta con così tanta veemenza unicamente per reazione all’iniziativa altrui. Difatti sono state le ultime forze culturali non secolarizzate ad aver imposto, con la forza dei fatti e della ragione, i temi etici all’attenzione della politica.
Per quanto possa sembrare paradossale, dopo la sbornia progressista del post-Concilio è stato il restaurato pensiero cattolico di Giovanni Paolo II a dimostrarsi il più attento alla realtà e alla razionalità dei fatti, rispetto al mondo astratto delle ideologie. “Chi è oggi il grande difensore della capacità della ragione umana nell’afferrare la verità?”, come ha chiesto provocatoriamente George Weigel. “Chi, se non il vescovo di Roma?”.
E’ stato di fronte a questo spiazzamento che i nostri lai-con hanno risposto innalzando (scusate il bisticcio) i loro alti lai. Alla forza della ragione, e al principio di realtà, hanno freudianamente opposto il principio di piacere. Sembra infatti che alla base della loro chiusura mentale ci sia solo il non volersi sentir dire che stanno ballando sul Titanic.
Per questo li abbiamo chiamati così, con il suffisso “con”: di fronte alle nuove sfide che si stanno proponendo alla razionalità del mondo occidentale, sono proprio i laicisti impenitenti, quasi peggio dei post-comunisti, coloro che hanno assunto l’atteggiamento più squisitamente conservatore. Anzi, reazionario, e comunque assai dogmatico.
Il tutto alla faccia del metodo liberale del dubbio, che per loro vale quando si tratta di opporsi alla Chiesa Cattolica, ma mai nei confronti del resto del mondo.
Nel crepuscolo delle antiche certezze nel quale è indubbiamente entrata la civiltà occidentale, i nostri lai-con – che non hanno mai modificato di una virgola le loro categorie di pensiero – si sono conquistati a pieno titolo le posizioni culturali più retrograde.
Eppure, l’ideologia del nichilismo gaio e il primato dell’io e le sue voglie sono ancora dominanti nelle nostre metropoli assediate. Si è prodotto un altro paradosso: mentre la nostra civiltà moritur et ridet, per usare l’immagine di Salviano, le sue enormi problematiche vengono rubricate sotto la voce della “laicità in pericolo”, soltanto e segnatamente in quanto l’Europa continentale ha perso la capacità di guardare alla propria situazione in modo autenticamente laico.
Alla base di tutto, vi è una concezione astratta e monistica dei diritti individuali, che porta a gridare al lupo di fronte ad ogni domanda non convenzionale che venga posta riguardo al significato delle nostre libertà.
Da parte del mondo laicista, l’unica reazione alle istanze morali è tuttora quella individuata a suo tempo da Augusto del Noce: il “divieto di fare domande”. Più banalmente, l’invito a farsi i fatti propri in modo ideologizzato. Anche questo a ben vedere è un atteggiamento assai meno aperto, e quindi meno “laico”, di quello che invece si ostina a voler cercare la verità.
La nostra opinione pubblica presume tuttora che quello della “laicità” sia soltanto il problema di limitare e regolamentare la rilevanza pubblica delle scelte di vita religiosamente ispirate. Per evitare che si producano “ingerenze” nella politica, così come nelle libertà altrui.
Cosicché va a finire che le grandi questioni etiche non vengono nemmeno affrontate. O vengono trattate con dosi incredibili di disinformazione e malafede, come possiamo riscontrare quasi ogni giorno anche dalla lettura di certi quotidiani e di certi blog politici. Come se non si stesse parlando del futuro di tutti, ma solo delle esigenze di qualcuno.
Secondo la ristretta mentalità laicista, ferma all’anticlericalismo ottocentesco, il sentimento religioso e le sue esigenze possono avere rilevanza pubblica nelle società moderne solo come residuo di un passato oppressivo. O al limite, come pericoloso instrumentum regni delle forze politiche asseritamente più illiberali.
Per chi parte sempre da questo pregiudizio giacobino, i motivi di scandalo sono sempre gli stessi, e si sono trasformati in vere e proprie ossessioni. Come le “ingerenze” del Vaticano denunciate per ogni dove, e il nuovo oscurantismo che sarebbe ormai alle porte.
Quando il merito dei problemi non può essere eluso, allora – pur di difendere a tutti i costi gli antichi dogmi individualisti – il principio di realtà viene sempre più calpestato.
Pensiamo a questioni come la ricerca scientifica sulle cellule staminali, le unioni civili omosessuali, la libertà di educazione nelle scuole pubbliche e private, il problema delle tossicodipendenze.
Su questi argomenti, da parte del fronte laicista stiamo assistendo – anche quando si pretende di fare riferimento a dati scientifici – ad esemplificazioni così capziose, e talvolta a menzogne così spudorate da fare impallidire persino la propaganda dei totalitarismi novecenteschi.
Che almeno non pretendevano di essere laici, anzi – come il marxista Ernst Bloch – te lo dicevano chiaro e tondo che se i fatti li avessero contraddetti, sarebbe stato tanto peggio per questi ultimi.
Insomma, nell’atteggiamento di fondo dei nostri lai-con le contraddizioni di principio sono così tante da far ritenere che, alla prova del dibattito politico, la loro ideologia si sia rovesciata in quello che avrebbe dovuto essere il suo contrario. Dimostrando così la propria inconsistenza, o quantomeno il suo esaurimento.
Oltretutto i loro argomenti specifici sono sempre più vetusti, ormai oltre il limite del grottesco.
Sarebbe interessante vedere come reagirebbe un qualunque intellettuale “laico”, se discutendo dello stato attuale delle libertà civili improvvisamente evocassimo l’appoggio dato da Martin Lutero alla strage dei contadini a Frankenhausen (1525), che secondo alcuni costò decine di migliaia di morti.
Ovvero se, confrontandoci sulla libertà di ricerca scientifica, gli riproponessimo come un mantra la vicenda di Johannes Keplero, grande scienziato luterano, che fu considerato per tutta la vita dai suoi correligionari come figlio di una strega (che dovette anche salvare dal rogo), e che nel 1594 fu costretto a lasciare il Collegio di Tubinga per trasferirsi nella cattolica Linz, e poi a Praga, proprio per aver sostenuto la teoria copernicana che il protestantesimo considerava eretica e blasfema.
Eppure, quando si tratta di temi d’attualità come la ricerca sulle staminali embrionali, è tuttora assai usuale sentir richiamare il tormentone sulla Santa Inquisizione, il caso Galileo e Giordano Bruno.
Bastano questi esempi per intuire quanto ormai sia divenuto un peso inutile, nel dibattito culturale e politico italiano, doversi stare a confrontare con un ceto intellettuale che, a quasi duecento anni da quando le truppe napoleoniche hanno rivalicato le Alpi, e a poco meno di centoquarant’anni dalla fine dello Stato Pontificio, ancora non riesce a farsi serenamente una ragione del ruolo civile e sociale del fenomeno religioso.
E allora, diciamolo chiaro e tondo: la laicità, per come la intendono loro, non esiste. Non esiste sul piano ontologico. E’ una moneta falsa.
Ovvero, se proprio vogliamo essere storicisti e meno perentori, cominciamo a discutere l’ipotesi che la storia d’Europa stia per essere sconfitta dalla sua stessa idea di laicità. In quanto la nostra civiltà ormai post-cristiana sta letteralmente per cedere, sotto il peso delle conseguenze non intenzionali del laicismo realizzato.
Ok. Come pars destruens pensiamo possa bastare. Nel post che segue cercheremo di essere più costruttivi. Siamo sicuri che gli aggregatori di TocqueVille, con il consueto spirito laico, ce li passeranno entrambi.
Secondo noi sarebbe ora di farla finita persino con la parola, non solo per gli equivoci le incomprensioni che suscita, ma anche perché alcuni personaggi della nostra vita politica – che sul predetto termine ci campano – hanno davvero esagerato, ed ampiamente sorpassato il limite dell’onestà intellettuale.
In un’altra occasione, parlando dei “liberali alle vongole”, abbiamo sostenuto l’esistenza di un sedimentato equivoco storico, e addirittura semantico, che assieme al liberalismo coinvolge in pieno anche la questione della laicità. Il dibattito era stato lanciato da ben più autorevole rivista, e anche noi nel nostro piccolo abbiamo cercato di contribuire.
Però, la polemica recentemente sorta tra i bloggers di TocqueVille ci ha suggerito che, tra coloro che per il futuro pensano di poter ancora condividere un minimo di appartenenza ideale, sia urgente avviare quantomeno una “modalità provvisoria” per affrontare il problema. Altrimenti, continueranno a farla da padroni solo quelli che sulla propria presunta “laicità” ci stanno marciando senza ritegno da ormai troppo tempo.
Sono sotto gli occhi di tutti le personalità intellettuali e gli interi movimenti politici che, per quanto numericamente esigui, conservano un minimo di visibilità soltanto grazie all’ambiguità di questo concetto. Che invece, secondo noi, sia sul piano politico che su quello culturale non ha più alcuna ragione sostanziale di esistere.
Diciamo questo perché dopo tante polemiche, slogan e chiacchiere al vento, siamo convinti che servirebbe un sano e rapido ritorno alla realtà. Nell’ambito della quale è intellettualmente “visibile” solo ciò che possiede uno straccio di sostanza. Anzi, di essenza, nel senso aristotelico (e vorremmo dire tomistico, se lorsignori non si incazzano) del termine.
Al contrario, tra tutti gli orientamenti ideali che oggi si contendono il campo, i laicisti duri e puri sono probabilmente quelli che di sostanza ne hanno meno di tutti. Benché in compenso sia sempre assai solida la loro pretesa – che costituisce la loro caratteristica forse più odiosa e anche meno “laica” – di essere gli unici abilitati a dispensare patentini di liberalismo a destra e a manca.
Anzi, solo a destra: infatti è bastato un mese di governo Prodi per accorgersi che, quando si rivolgono a manca, i nostri eroi sono capaci di starsene ancor più allineati e coperti dei tanto vituperati cattolici adulti.
Siamo dell’idea che per i laicisti la “società” e la “politica” alla fin fine siano concetti eminentemente astratti, dei quali si può dire e disdire ciò che si vuole. La loro visione ci sembra ancor più semplificata di quella dei progressisti, ed anche quella più esposta a conseguenze inintenzionali disastrose, se solo riuscisse a dispiegarsi pienamente.
Del resto, è indubbio che nell’orizzonte ideale dei laicisti contino soprattutto gli individui. Anzi, diciamo pure che contano solo loro stessi, e i loro legami personali più o meno “deboli”. Negano Dio in nome dell’Io.
Solo per questo non si può pretendere alcuna condivisione da parte di coloro che, pur ostinandosi a praticare idee liberali, hanno scelto di prendersi la responsabilità di una famiglia tradizionale e di un lavoro professionale. Per questo, a maggior ragione, non abbiamo più alcuna intenzione di lasciarli dire e fare, ed eventualmente di decidere da soli anche per i nostri figli.
I motivi per cui in Italia è così rifiorita la questione della “laicità” li dovremmo conoscere tutti: negli ultimi anni – a causa dell’esplosione di una serie di questioni etiche e sociologiche davvero epocali – la parola in esame ha riconquistato il centro del nostro dibattito politico. E qualcosa di analogo è avvenuto, sia pure nell’ambito di tradizioni diverse, anche nel resto d’Europa e dell’Occidente.
Cosa c’è alla base di tutto questo? A nostro parere, si tratta di fenomeni sostanziali che erano già rilevabili in tutta Europa da almeno un quarto di secolo, ma che ci sono passati letteralmente sotto al naso senza che nessuno – ad eccezione della Chiesa Cattolica – lanciasse l’allarme.
Stiamo parlando dell’inarrestabile progressione dei divorzi di massa, della contraccezione generalizzata e delle genitorialità narcisistiche (non più di un figlio, massimo due).
Per non parlare – che in effetti è l’altro corno di una medesima grande questione etica – dell’ormai sopraggiunta insostenibilità del welfare state, così come lo si è concepito e costruito nell’Europa continentale, dal dopoguerra ad oggi.
Anche se si fa finta di non accorgersene, queste trasformazioni sociali basate sull’esaltazione delle libertà individuali ormai sono divenute così imponenti da disgregare il tessuto sociale. E addirittura, in una prospettiva ormai imminente, da spopolare il vecchio Continente, depauperandolo sempre più sia delle sue risorse materiali che delle sue genti autoctone.
L’avvento delle tecniche di fecondazione assistita e delle sperimentazioni sugli embrioni umani, nonché delle istanze omosessuali riguardo al matrimonio, hanno fatto sì che i problemi etici prima inosservati diventassero di grande attualità. Anche perché, nel contempo, la pressione dell’integralismo islamico ha messo in luce tutta la debolezza culturale dell’Europa a questo riguardo.
I “laici” più ortodossi tuttavia sembrano essere rimasti fermi alla spensierata e irresponsabile euforia degli anni ’70, quando le legislazioni su divorzio ed aborto si affermarono anche in Italia nella più assoluta inconsapevolezza delle conseguenze.
Tanto che la questione della “laicità” è stata da loro riproposta con così tanta veemenza unicamente per reazione all’iniziativa altrui. Difatti sono state le ultime forze culturali non secolarizzate ad aver imposto, con la forza dei fatti e della ragione, i temi etici all’attenzione della politica.
Per quanto possa sembrare paradossale, dopo la sbornia progressista del post-Concilio è stato il restaurato pensiero cattolico di Giovanni Paolo II a dimostrarsi il più attento alla realtà e alla razionalità dei fatti, rispetto al mondo astratto delle ideologie. “Chi è oggi il grande difensore della capacità della ragione umana nell’afferrare la verità?”, come ha chiesto provocatoriamente George Weigel. “Chi, se non il vescovo di Roma?”.
E’ stato di fronte a questo spiazzamento che i nostri lai-con hanno risposto innalzando (scusate il bisticcio) i loro alti lai. Alla forza della ragione, e al principio di realtà, hanno freudianamente opposto il principio di piacere. Sembra infatti che alla base della loro chiusura mentale ci sia solo il non volersi sentir dire che stanno ballando sul Titanic.
Per questo li abbiamo chiamati così, con il suffisso “con”: di fronte alle nuove sfide che si stanno proponendo alla razionalità del mondo occidentale, sono proprio i laicisti impenitenti, quasi peggio dei post-comunisti, coloro che hanno assunto l’atteggiamento più squisitamente conservatore. Anzi, reazionario, e comunque assai dogmatico.
Il tutto alla faccia del metodo liberale del dubbio, che per loro vale quando si tratta di opporsi alla Chiesa Cattolica, ma mai nei confronti del resto del mondo.
Nel crepuscolo delle antiche certezze nel quale è indubbiamente entrata la civiltà occidentale, i nostri lai-con – che non hanno mai modificato di una virgola le loro categorie di pensiero – si sono conquistati a pieno titolo le posizioni culturali più retrograde.
Eppure, l’ideologia del nichilismo gaio e il primato dell’io e le sue voglie sono ancora dominanti nelle nostre metropoli assediate. Si è prodotto un altro paradosso: mentre la nostra civiltà moritur et ridet, per usare l’immagine di Salviano, le sue enormi problematiche vengono rubricate sotto la voce della “laicità in pericolo”, soltanto e segnatamente in quanto l’Europa continentale ha perso la capacità di guardare alla propria situazione in modo autenticamente laico.
Alla base di tutto, vi è una concezione astratta e monistica dei diritti individuali, che porta a gridare al lupo di fronte ad ogni domanda non convenzionale che venga posta riguardo al significato delle nostre libertà.
Da parte del mondo laicista, l’unica reazione alle istanze morali è tuttora quella individuata a suo tempo da Augusto del Noce: il “divieto di fare domande”. Più banalmente, l’invito a farsi i fatti propri in modo ideologizzato. Anche questo a ben vedere è un atteggiamento assai meno aperto, e quindi meno “laico”, di quello che invece si ostina a voler cercare la verità.
La nostra opinione pubblica presume tuttora che quello della “laicità” sia soltanto il problema di limitare e regolamentare la rilevanza pubblica delle scelte di vita religiosamente ispirate. Per evitare che si producano “ingerenze” nella politica, così come nelle libertà altrui.
Cosicché va a finire che le grandi questioni etiche non vengono nemmeno affrontate. O vengono trattate con dosi incredibili di disinformazione e malafede, come possiamo riscontrare quasi ogni giorno anche dalla lettura di certi quotidiani e di certi blog politici. Come se non si stesse parlando del futuro di tutti, ma solo delle esigenze di qualcuno.
Secondo la ristretta mentalità laicista, ferma all’anticlericalismo ottocentesco, il sentimento religioso e le sue esigenze possono avere rilevanza pubblica nelle società moderne solo come residuo di un passato oppressivo. O al limite, come pericoloso instrumentum regni delle forze politiche asseritamente più illiberali.
Per chi parte sempre da questo pregiudizio giacobino, i motivi di scandalo sono sempre gli stessi, e si sono trasformati in vere e proprie ossessioni. Come le “ingerenze” del Vaticano denunciate per ogni dove, e il nuovo oscurantismo che sarebbe ormai alle porte.
Quando il merito dei problemi non può essere eluso, allora – pur di difendere a tutti i costi gli antichi dogmi individualisti – il principio di realtà viene sempre più calpestato.
Pensiamo a questioni come la ricerca scientifica sulle cellule staminali, le unioni civili omosessuali, la libertà di educazione nelle scuole pubbliche e private, il problema delle tossicodipendenze.
Su questi argomenti, da parte del fronte laicista stiamo assistendo – anche quando si pretende di fare riferimento a dati scientifici – ad esemplificazioni così capziose, e talvolta a menzogne così spudorate da fare impallidire persino la propaganda dei totalitarismi novecenteschi.
Che almeno non pretendevano di essere laici, anzi – come il marxista Ernst Bloch – te lo dicevano chiaro e tondo che se i fatti li avessero contraddetti, sarebbe stato tanto peggio per questi ultimi.
Insomma, nell’atteggiamento di fondo dei nostri lai-con le contraddizioni di principio sono così tante da far ritenere che, alla prova del dibattito politico, la loro ideologia si sia rovesciata in quello che avrebbe dovuto essere il suo contrario. Dimostrando così la propria inconsistenza, o quantomeno il suo esaurimento.
Oltretutto i loro argomenti specifici sono sempre più vetusti, ormai oltre il limite del grottesco.
Sarebbe interessante vedere come reagirebbe un qualunque intellettuale “laico”, se discutendo dello stato attuale delle libertà civili improvvisamente evocassimo l’appoggio dato da Martin Lutero alla strage dei contadini a Frankenhausen (1525), che secondo alcuni costò decine di migliaia di morti.
Ovvero se, confrontandoci sulla libertà di ricerca scientifica, gli riproponessimo come un mantra la vicenda di Johannes Keplero, grande scienziato luterano, che fu considerato per tutta la vita dai suoi correligionari come figlio di una strega (che dovette anche salvare dal rogo), e che nel 1594 fu costretto a lasciare il Collegio di Tubinga per trasferirsi nella cattolica Linz, e poi a Praga, proprio per aver sostenuto la teoria copernicana che il protestantesimo considerava eretica e blasfema.
Eppure, quando si tratta di temi d’attualità come la ricerca sulle staminali embrionali, è tuttora assai usuale sentir richiamare il tormentone sulla Santa Inquisizione, il caso Galileo e Giordano Bruno.
Bastano questi esempi per intuire quanto ormai sia divenuto un peso inutile, nel dibattito culturale e politico italiano, doversi stare a confrontare con un ceto intellettuale che, a quasi duecento anni da quando le truppe napoleoniche hanno rivalicato le Alpi, e a poco meno di centoquarant’anni dalla fine dello Stato Pontificio, ancora non riesce a farsi serenamente una ragione del ruolo civile e sociale del fenomeno religioso.
E allora, diciamolo chiaro e tondo: la laicità, per come la intendono loro, non esiste. Non esiste sul piano ontologico. E’ una moneta falsa.
Ovvero, se proprio vogliamo essere storicisti e meno perentori, cominciamo a discutere l’ipotesi che la storia d’Europa stia per essere sconfitta dalla sua stessa idea di laicità. In quanto la nostra civiltà ormai post-cristiana sta letteralmente per cedere, sotto il peso delle conseguenze non intenzionali del laicismo realizzato.
Ok. Come pars destruens pensiamo possa bastare. Nel post che segue cercheremo di essere più costruttivi. Siamo sicuri che gli aggregatori di TocqueVille, con il consueto spirito laico, ce li passeranno entrambi.
14 giugno 2006
Invece dell'amnistia costruiamo carceri private
Contro il provvedimento di clemenza proposto dal guardasigilli Clemente Mastella sono state sollevate alcune classiche obiezioni. Molti giudicano l’amnistia come anti-liberale, perché spezza il nesso tra la pena e il reato e pregiudica la certezza della pena, e immorale, perché distrugge l’effetto deterrente che sui criminali esercita il rischio di incorrere nella punizione prevista dalle leggi penali. Esistono infatti numerosi studi sull’analisi economica del crimine che confermano la relazione causale tra l’allentamento della risposta repressiva da parte dello Stato e l’aumento dei reati. Secondo questa prospettiva, promossa anche dal premio Nobel per l’economia Gary Becker, i delinquenti sarebbero dei massimizzatori di utilità, capaci di soppesare rischi e benefici potenziali prima di intraprendere un’azione criminosa. Di recente anche l’economista americano Steven Leavitt, autore del bestseller Freakonomics, ha realizzato uno studio in cui sostiene, dati alla mano, che “la galera riduce la criminalità”.
L’amnistia è inoltre fortemente antipopolare. Quasi sempre la sua adozione viene avversata a schiacciante maggioranza dall’opinione pubblica, che la vede come un immotivato premio ai delinquenti. Perché allora i membri dell’apparato statale sono tendenzialmente favorevoli a provvedimenti di indulto o di amnistia, o comunque di riduzione delle pene (basti pensare alla legge Gozzini o alla larghezza con cui vengono concessi i benefici premiali, che ogni volta scandalizzano il pubblico)? La ragione probabilmente sta nel modo burocratico di produzione dei servizi di sicurezza e giustizia da parte dello Stato. Nel libero mercato se la domanda per un particolare bene o servizio cresce, l’impresa che lo produce ne gioisce: accoglie con felicità i nuovi affari ed espande la propria attività per poter evadere i nuovi ordini. Le entrate dello Stato, però, provengono dalle imposte e non hanno alcuna relazione con la qualità e la quantità dei servizi offerti. Per la burocrazia che opera in un ente pubblico, pertanto, la crescita della domanda per i servizi che offre non fa aumentare i profitti, ma rappresenta un appesantimento della mole di lavoro. Mentre ai cittadini, come consumatori dei beni relativi alla protezione e alla giustizia, interessa che il maggior numero di delinquenti sia punito e rimanga in carcere per tutta la durata della pena, gli operatori dell’amministrazione della giustizia hanno invece un interesse “corporativo” a ridurre il proprio carico di lavoro, e per questo premono per allentare la “pressione carceraria”.
Giustificare l’amnistia con il problema del sovraffollamento delle carceri suona pertanto assurdo: se lo Stato non riesce a svolgere efficientemente in condizioni di monopolio una certa funzione, non può pensare di risolvere il problema semplicemente cessando di svolgerla! Più corretta appare la posizione di coloro che per rimediare al collasso della giustizia chiedono la costruzione di nuove carceri o l’introduzione di criteri di produttività e di merito tra forze dell’ordine, magistrati e funzionari della giustizia. Sappiamo però per esperienza quanto sia difficile implementare questi obiettivi di efficienza all’interno delle strutture statali, per cui da alcune parti si è proposto di introdurre anche in Italia le carceri private, secondo un modello sperimentato con ottimi risultati nel mondo anglosassone.
Negli Stati Uniti sono operative infatti più di cento prigioni private, in Gran Bretagna undici e in Australia sette. Come ha documentato Adrian T. Moore, studioso del Reason Public Policy Institute, nel saggio “Private Prisons: Quality Correction at a Lower Cost”, i costi dei penitenziari privati che ricevono un appalto statale per la custodia dei detenuti sono in media del 23 per cento inferiori a quelli statali. Queste strutture private, inoltre, vengono costruite nella metà del tempo di quelle statali, con risparmi del 30-40 per cento. Lo studio di Moore evidenzia anche la presenza, nelle carceri private, di migliori programmi educativi e sanitari per i detenuti, un minor numero di aggressioni alle guardie o agli altri carcerati e un minor numero di recidive.
Malgrado questi eccellenti risultati, la cultura politica dominante nel nostro paese rende estremamente improbabile l’adozione del sistema delle carceri private. Non va dimenticato, inoltre, che anche la sanzione carceraria presenta, dal punto di vista sociale, alcuni difetti. Da un lato, l’incarceramento non sembra contribuire a migliorare la personalità del reo, perché la prigione rappresenta spesso una scuola del crimine. Ma soprattutto, la pena carceraria non ricompensa in alcun modo la vittima, ma pone a carico della collettività (e quindi della vittima stessa) l’elevato costo per il mantenimento del detenuto. Se si vuole nei tempi brevi ridurre il problema del sovraffollamento delle carceri e spostare l’attenzione del sistema penale verso la vittima del reato, invece dell’amnistia si potrebbe rivalutare lo strumento del lavoro di pubblica utilità, in modo da rendere obbligatoria l’adesione a meccanismi di risarcimento delle vittime del reato da parte degli autori degli stessi, quale condizione per l’ammissione alle misure alternative al carcere.
L’amnistia è inoltre fortemente antipopolare. Quasi sempre la sua adozione viene avversata a schiacciante maggioranza dall’opinione pubblica, che la vede come un immotivato premio ai delinquenti. Perché allora i membri dell’apparato statale sono tendenzialmente favorevoli a provvedimenti di indulto o di amnistia, o comunque di riduzione delle pene (basti pensare alla legge Gozzini o alla larghezza con cui vengono concessi i benefici premiali, che ogni volta scandalizzano il pubblico)? La ragione probabilmente sta nel modo burocratico di produzione dei servizi di sicurezza e giustizia da parte dello Stato. Nel libero mercato se la domanda per un particolare bene o servizio cresce, l’impresa che lo produce ne gioisce: accoglie con felicità i nuovi affari ed espande la propria attività per poter evadere i nuovi ordini. Le entrate dello Stato, però, provengono dalle imposte e non hanno alcuna relazione con la qualità e la quantità dei servizi offerti. Per la burocrazia che opera in un ente pubblico, pertanto, la crescita della domanda per i servizi che offre non fa aumentare i profitti, ma rappresenta un appesantimento della mole di lavoro. Mentre ai cittadini, come consumatori dei beni relativi alla protezione e alla giustizia, interessa che il maggior numero di delinquenti sia punito e rimanga in carcere per tutta la durata della pena, gli operatori dell’amministrazione della giustizia hanno invece un interesse “corporativo” a ridurre il proprio carico di lavoro, e per questo premono per allentare la “pressione carceraria”.
Giustificare l’amnistia con il problema del sovraffollamento delle carceri suona pertanto assurdo: se lo Stato non riesce a svolgere efficientemente in condizioni di monopolio una certa funzione, non può pensare di risolvere il problema semplicemente cessando di svolgerla! Più corretta appare la posizione di coloro che per rimediare al collasso della giustizia chiedono la costruzione di nuove carceri o l’introduzione di criteri di produttività e di merito tra forze dell’ordine, magistrati e funzionari della giustizia. Sappiamo però per esperienza quanto sia difficile implementare questi obiettivi di efficienza all’interno delle strutture statali, per cui da alcune parti si è proposto di introdurre anche in Italia le carceri private, secondo un modello sperimentato con ottimi risultati nel mondo anglosassone.
Negli Stati Uniti sono operative infatti più di cento prigioni private, in Gran Bretagna undici e in Australia sette. Come ha documentato Adrian T. Moore, studioso del Reason Public Policy Institute, nel saggio “Private Prisons: Quality Correction at a Lower Cost”, i costi dei penitenziari privati che ricevono un appalto statale per la custodia dei detenuti sono in media del 23 per cento inferiori a quelli statali. Queste strutture private, inoltre, vengono costruite nella metà del tempo di quelle statali, con risparmi del 30-40 per cento. Lo studio di Moore evidenzia anche la presenza, nelle carceri private, di migliori programmi educativi e sanitari per i detenuti, un minor numero di aggressioni alle guardie o agli altri carcerati e un minor numero di recidive.
Malgrado questi eccellenti risultati, la cultura politica dominante nel nostro paese rende estremamente improbabile l’adozione del sistema delle carceri private. Non va dimenticato, inoltre, che anche la sanzione carceraria presenta, dal punto di vista sociale, alcuni difetti. Da un lato, l’incarceramento non sembra contribuire a migliorare la personalità del reo, perché la prigione rappresenta spesso una scuola del crimine. Ma soprattutto, la pena carceraria non ricompensa in alcun modo la vittima, ma pone a carico della collettività (e quindi della vittima stessa) l’elevato costo per il mantenimento del detenuto. Se si vuole nei tempi brevi ridurre il problema del sovraffollamento delle carceri e spostare l’attenzione del sistema penale verso la vittima del reato, invece dell’amnistia si potrebbe rivalutare lo strumento del lavoro di pubblica utilità, in modo da rendere obbligatoria l’adesione a meccanismi di risarcimento delle vittime del reato da parte degli autori degli stessi, quale condizione per l’ammissione alle misure alternative al carcere.
13 giugno 2006
Piccolo manifesto del Filo a Piombo
Cerchiamo di definire meglio la posizione del Filo a Piombo, e di indagare se la nostra ispirazione cattolica, liberale e conservatrice possa tradursi in una proposta valida per il centrodestra italiano.
La risposta è al momento tutt'altro che scontata: nonostante i numerosi tentativi di questi ultimi anni, che hanno veduto la nascita di varie riviste “di area”, i cattolici e i liberali nel nostro Paese si guardano ancora con sospetto. Tra i liberisti più intransigenti, e nell'area “libertarian”, sono ancora molti quelli che giudicano le concessioni fatte dal governo Berlusconi alle istanze del mondo cattolico e dei centristi come un tradimento della causa, o al limite come il motivo principale per il quale l'agognata “rivoluzione liberale” non sarebbe stata realizzata. E dal canto suo la cattolicità continua ad essere, come del resto è coerente rispetto alla sua natura, una sorta di pietra d'inciampo per le istanze dei liberali duri e puri.
Allora, come sempre quando si è in presenza di una crisi, forse non farà male ritornare ai principi, e rivisitare le storie da cui si proviene.
Anche noi che diamo vita a questo blog, come tutti coloro che cercano di “pensare” al polo moderato italiano, siamo dovuti ripartire dal 1993. L’anno in cui la rivoluzione giudiziaria ha spazzato via i partiti di centrosinistra della prima Repubblica, che da lì a poco sarebbero stati sostituiti dalla grandiosa intuizione politica di Silvio Berlusconi e dalla nascita del bipolarismo compiuto.
Noi ci eravamo conosciuti qualche anno prima all’Università, grazie all’esperienza – che proprio in quel 1993 andò ad esaurirsi – di Controcorrente Giovani. Qualcuno si ricorderà di quella associazione dei lettori del Giornale di Montanelli: un’iniziativa giovanile che, nonostante la sua esiguità numerica e debolezza politica, qualche buon punto deve averlo segnato, considerato che ancora oggi si vendono libri su di essa (vedi link).
A ripensarci ora, visto che il rammarico del momento è quello di una maggioranza quasi assoluta non conquistata per 24 mila voti, fa una certa impressione ricordare che all’epoca di Controcorrente Giovani e ancor prima della Gioventù Liberale – per quelli che c’erano – la nostra massima prospettiva di liberali conservatori era quella di scagliarci in nome del reaganismo contro il lib-lab, come allora veniva definito il progressismo alla Ralf Dahrendorf.
Insomma, propugnavamo cose che in Italia non si erano ancora mai viste, e che quasi nessuno credeva politicamente attuabili: le nostre erano iniziative di minoranza anche all’interno di quelli che sarebbe stato esagerato – se già si fosse usato il termine – definire circoli “di nicchia”.
Nonostante questo, il nostro vanto è di avere evitato di arruolarci tra gli schizzinosi che, in nome delle proprie convinzioni estetiche, ancora oggi sembrano ignorare quel che è successo dal 1993 ad oggi e quindi tuttora si perdono nel vagheggiare “la bella destra”.
Siamo sempre stati tra coloro che, pur non sempre essendone militanti, ed anzi spesso senza nemmeno esserne elettori, fin dal principio hanno salutato in Forza Italia il tanto desiderato partito liberale di massa. Finalmente un partito di ispirazione popolare, con tutti i rischi demagogici che questo comporta, ma che per la prima volta nella storia repubblicana si è dimostrato in grado di rappresentare la maggioranza degli italiani senza concedere troppo al desiderio di farsi assistere e garantire da qualche greppia di Stato.
Tanto che oggi, dopo le elezioni del 9-10 aprile, abbiamo la sensazione di essere sempre stati, e di essere ancora, sempre un po’ più avanti e assieme un po’ più indietro rispetto alla personalità di Silvio Berlusconi. Più avanti, perché anche ora che Forza Italia si è confermata il primo partito italiano, e ha dimostrato la sua capacità di rispondere alle attese della maggioranza degli italiani, continuiamo ad interrogarci su come un partito simile potrà sopravvivere alla personalità del Caimano, e strutturarsi come polo di attrazione di un futuro partito dei moderati. Ma nel contempo ci sentiamo più indietro, rispetto alla genialità con cui Berlusconi è riuscito e tuttora continua ad interpretare il sentire comune del Paese che non si riconosce nella sinistra. Non è la prima volta, dal 1994 ad oggi, che ci sorprendiamo a doverlo idealmente rincorrere, subito dopo avere temuto che la sua epopea politica fosse quasi al capolinea.
Tuttavia, per pensare al centrodestra che verrà dopo Berlusconi, fino ad oggi siamo andati a cercare le idee perlopiù in modelli stranieri. Ci siamo rivolti laddove in politica il bipolarismo è più compiuto, ma soprattutto dove è più radicata, e quindi più avanzata, la capacità di interpretare e di condividere a livello popolare i valori delle libertà politiche ed economiche. Da cattolici, ci siamo poi riletti Tocqueville, Lord Acton, Carl Schmitt, il Compendio della dottrina sociale della Chiesa. In quanto liberisti, ci siamo arrovellati su Hayek, von Mises e Rothbard. E come conservatori, siamo tornati a cercar lumi da Edmund Burke e dagli altri classici, ma poi anche presso Goldwater e le più recenti ispirazioni del pensiero teo-con statunitense, soprattutto la “triade” di Novak, Weigel e Neuhaus.
I libri fanno sempre bene, a leggerli davvero, ma a ben vedere - grazie anche a quel che è stato fatto in questi tredici anni, bisogna riconoscerlo - ora non è più necessario guardare così lontano, come avveniva ai tempi eroici di Controcorrente Giovani: un movimento popolare di matrice cattolica e liberale, in Italia, può radicarsi anche solo sulla base di principi universali ed elementari. Forse è sufficiente una riflessione sul senso della libertà, che tenga conto dei segnali confortanti che sono venuti dai recenti esiti referendari e poi elettorali.
La tenuta politica della Casa delle Libertà, che ancora rappresenta la maggioranza del Paese soprattutto nelle aree più evolute e produttive, ma ancor prima il clamoroso naufragio del referendum sulla uccisione e la manipolazione genetica degli embrioni umani (cd. fecondazione assistita), hanno portato alla luce l’animus più profondo del popolo italiano. Siamo in presenza del sentire di un popolo che non condivide più – ammesso che mai lo abbia fatto – il relativismo delle sue oligarchie culturali, accademiche, dell’informazione. E tantomeno, ça va sans dire, si trova in sintonia con i poteri finanziari ed industriali. Ma al contrario continua ad ascoltare la voce della Chiesa Cattolica e del Papa, sui grandi temi della vita umana, ma anche sulle questioni connesse della libertà politica.
Proprio dalla dottrina cattolica può ripartire la nostra idea di libertà. Finora, abbiamo un po’ sofferto la contraddizione tra l’individualismo e il relativismo propri del pensiero liberale, rispetto alla tensione etica verso il vero e l’universale che pure ci appartiene in quanto cattolici. Ma oggi crediamo che questo nodo possa e debba venire sciolto, per non trasformarsi un impedimento drammatico. Il liberalismo “debole” dei relativisti così come quello “di nicchia” dei duri e puri, se così si possono chiamare, vanno in qualche modo superati perché sono i fatti della attualità politica – e non le discussioni tra intellettuali – che stanno mettendo in discussione i fondamenti stessi della nostra società. A partire dalle questioni della famiglia, del rapporto tra sessi, dell’educazione, per arrivare al terrorismo islamista, all’immigrazione, al crollo demografico, alla imminente rottura del patto generazionale su cui si sostiene il nostro welfare.
Per questo troviamo urgente recuperare il sentire cattolico, nella nostra idea di libertà politica: anni fa l’allora cardinale Ratzinger, riflettendo su questi grandi temi, osservò che il limite del pensiero occidentale che discende dall’illuminismo è quello di avere concepito le libertà politiche in modo molto meno razionale di quanto non si pensi. Da Rousseau in poi, non è stata tanto la ragione quanto la natura ad occupare il centro della riflessione: “l’uomo creato libero”, come scrisse von Schiller, ha iniziato ad essere concepito come portatore di desideri e di bisogni che non avevano più bisogno né di significato, né di una corretta relazione con il mondo e con Dio, per essere considerati buoni. Tali desideri avrebbero comunque potuto e dovuto trovare – per mezzo di un’idea del tutto astratta e disincarnata della razionalità umana – la più ampia soddisfazione possibile.
Ma questa concezione nei secoli a venire avrebbe oscurato progressivamente la verità sull’uomo, e quindi alla fine la sua stessa libertà. L’esito più radicale (ma anche più prevedibile da parte della secolare saggezza della Chiesa, come ha annotato lo stesso cardinale Ratzinger) è stata la disperazione esistenzialista di Jean Paul Sartre: l’uomo che non ricerca più la verità su stesso, bensì solo la libertà, diventa privo di senso. Perché della sua libertà non sa più che farsene, e in definitiva può usarla solo in modo distruttivo per sé e per gli altri.
L’errore marxista fu quello di considerare pienamente libera – o meglio liberata – solo la società in cui l’eguaglianza e la fine dello sfruttamento del lavoro avrebbero potuto salvaguardare le esigenze e i desideri di tutti. Addirittura si sarebbe dovuti arrivare a liberare l'uomo dal lavoro, che veniva visto come una schiavitù e una maledizione (e a parlarne ora sembrano cose d'altri tempi, ma l'attuale nostra terza carica dello Stato la pensa ancora così).
Una tale idea di società era contraria alla realtà e alla verità sull’uomo, e pertanto l’oppressione ideologica è giunta immediata. Ma anche nelle società democratiche il problema della libertà è rimasto ancor oggi almeno parzialmente irrisolto, e continua a generare abusi. Anche laddove il socialismo non si è mai inverato e hanno prevalso modelli liberali ovvero solidaristi, è rimasta forte la spinta politica a rifugiarsi in una falsa concezione dell’uomo, della società, dello Stato.
Le libertà politiche disgiunte dalla verità sull’uomo e dal suo bisogno di legami e di significato, tendono ad autodistruggersi e anche ad essere rifiutate. Tanto che le strutture politiche e giuridiche dello Stato oggigiorno faticano non poco a configurarsi, e ancor più a farsi pienamente accettare, come condizione della libertà di ognuno e della piena realizzazione di tutti. Esse continuano ad essere percepite da ampi strati della popolazione – non sempre a torto – come un potere oppressivo dal quale “liberarsi”, ovvero come Grande Madre dalla quale farsi proteggere ed assistere.
Forse è per questo che gli apparati ideologici occidentali sono ancora così legati al vecchio sogno comunista, e i liberali più radicaleggianti continuano a legarsi al carro delle sinistre: gli interessi degli altri continuano ad essere percepiti come un limite, un’aporia insuperabile, e alla fine solo l’invidia resta il motore dell’azione politica, come si è visto anche in Italia in questi ultimi anni di spaventoso odio ideologico per il cosiddetto berlusconismo.
Se anche l’individualismo liberale ha portato ad esiti incerti, è stato perché il modello che ancora oggi ci propone è quello di una società dove non può più pretendersi una morale. Ciò in quanto da che mondo è mondo i mores presuppongono una verità condivisa, e un significato comune per i comportamenti socialmente rilevanti.
Un'esigenza di fondo del tutto imprescindibile, che però per la prima volta nella storia dell'umanità (e solo nelle società occidentali) ora è considerata non più necessaria e anzi del tutto inammissibile, in quanto l’unico metro di giudizio sulla qualità di una società libera è divenuto quello della sua capacità di trasformare in diritti i desideri di ogni singolo, salvaguardandoli da ogni vincolo esterno, specie se di tipo statuale.
Il criterio ultimo della politica contemporanea, in effetti, sembra davvero essere la difesa ad oltranza dell’“io e le sue voglie”, per riprendere l’efficace espressione dello stesso Ratzinger, usata nella sua ultima omelia prima dell’elezione a Pontefice.
Ma questo modello così insufficiente rispetto al problema della verità, e quindi anche della libertà, ed oggi versa in una crisi profonda. Lo vediamo nell’altrimenti inspiegabile difficoltà dell’Occidente di rispettare se stesso, e di difendere “dall’interno” i propri valori. Oggi il pensiero corrente tende a diffidare del concetto stesso di verità e si trova spaventosamente disgregato e indifeso, sia di fronte all’aggressività islamista, dall’esterno, sia di fronte alle sfide indotte dalla propria stessa modernità, all’interno.
La risposta cattolica ci appare dunque come quella più efficace, ma anche come quella più autenticamente liberale: perché parte dalla questione della verità sull’uomo, e ricostruisce le libertà politiche non come semplice difesa dei desideri, degli interessi e delle esigenze dei singoli. Se ognuno è arbitro dei suoi desideri finisce per esserne schiavo, e alla lunga si verifica una situazione di crisi che poi è quella della società occidentale contemporanea, che non sa più darsi ragione dell’altro e non sa più costruire relazioni stabili (vedi la crisi della famiglia, l’aborto, la disgregazione sociale).
Invece, nel sentire cattolico, la libertà dei singoli e dei gruppi hanno sempre un significato e una direzione, in quanto ogni diritto fondamentale è un aspetto coessenziale ed ineludibile della verità sull’uomo e sulla sua dimensione sociale. Nasce su questi presupposti il pensiero giusnaturalista e la dottrina sociale della Chiesa, e la critica dello Stato che queste scuole hanno sempre attuato.
L’autentica realizzazione dei singoli e della collettività, nella prospettiva cattolica, tiene conto di una verità secondo la quale ogni uomo si definisce solo per mezzo di relazioni ed appartenenze. Ogni uomo è libero in quanto proviene “da”, vive “per” e si relaziona “con”. Questi ultimi non sono limiti esterni né intrinseci, bensì le condizioni e la possibilità stessa della libertà individuale e collettiva. Dunque, la dottrina sociale cattolica sulla libertà come “bene comune”, e cioè ricerca di una situazione in cui ad ogni singolo e gruppo sia dato di sviluppare nel massimo grado realisticamente possibile la verità su se stesso, ci sembra oggigiorno la ricetta meno in crisi tra tutte quelle liberali.
Nel nostro definirci “cattolici, liberali, conservatori” ognuno dei termini si relaziona strettamente con gli altri. Sappiamo che sono termini che per ragioni storiche in Italia sono sempre stati visti in contrapposizione reciproca.
Ma noi ci diciamo cattolici non tanto in senso confessionale, quanto nel senso della nostra aspirazione all’universalità, e ad un’azione politica che, tenendo conto della verità sull’uomo e del suo bisogno di significato, possa andare nel senso della autentica libertà. E quindi siamo liberali non nel modo illuministico e giacobino, né tantomeno in quello progressista.
Il nostro liberalismo si declina in senso conservatore, in quanto esiste una tradizione da difendere: la nostra identità occidentale ed italiana, che non è fatta tanto di principi e di bandiere, quanto di relazioni ed appartenenze. Non è solo la nostra fede e la nostra visione del mondo che intendiamo difendere. Sono le nostre famiglie, il nostro lavoro, le nostre case e le nostre scuole, le nostre strade, piazze ed opere d’arte, i nostri libri e spettacoli preferiti, le nostre amicizie e persino le nostre antipatie, quelle relazioni alle quali sentiamo di appartenere e alle quali guardiamo, perché oggi le vediamo messe in pericolo.
Nel quadro politico attuale, la Casa delle Libertà a nostro avviso deve convergere su questa prospettiva: per comprendere quanto possa essere vincente, basta guardare a come solo il liberalismo popolare di Forza Italia, e il pragmatismo berlusconiano che nonostante tante incertezze continua a regalarci tanti bei momenti di verità sulle condizioni del Paese, anche nelle elezioni in cui era dato per spacciato è riuscito a catalizzare quasi la metà dei voti di tutto il centrodestra.
Guardiamo poi a come il convinto sostegno di tante oligarchie economiche e culturali, per non parlare dei mezzi di informazione, non abbia saputo salvare la Rosa nel Pugno – esempio emblematico di istanza liberale, che ha finito per rinnegare se stessa nel momento in cui ha deciso di proporsi unicamente come movimento anticattolico – da un sonoro flop elettorale.
La strada per la costruzione dell’identità del centrodestra per gli anni a venire, a nostro parere passa dunque per quelle tre parole, ma soprattutto dal rapporto reciproco tra di esse: cattolici, liberali, conservatori.
La risposta è al momento tutt'altro che scontata: nonostante i numerosi tentativi di questi ultimi anni, che hanno veduto la nascita di varie riviste “di area”, i cattolici e i liberali nel nostro Paese si guardano ancora con sospetto. Tra i liberisti più intransigenti, e nell'area “libertarian”, sono ancora molti quelli che giudicano le concessioni fatte dal governo Berlusconi alle istanze del mondo cattolico e dei centristi come un tradimento della causa, o al limite come il motivo principale per il quale l'agognata “rivoluzione liberale” non sarebbe stata realizzata. E dal canto suo la cattolicità continua ad essere, come del resto è coerente rispetto alla sua natura, una sorta di pietra d'inciampo per le istanze dei liberali duri e puri.
Allora, come sempre quando si è in presenza di una crisi, forse non farà male ritornare ai principi, e rivisitare le storie da cui si proviene.
Anche noi che diamo vita a questo blog, come tutti coloro che cercano di “pensare” al polo moderato italiano, siamo dovuti ripartire dal 1993. L’anno in cui la rivoluzione giudiziaria ha spazzato via i partiti di centrosinistra della prima Repubblica, che da lì a poco sarebbero stati sostituiti dalla grandiosa intuizione politica di Silvio Berlusconi e dalla nascita del bipolarismo compiuto.
Noi ci eravamo conosciuti qualche anno prima all’Università, grazie all’esperienza – che proprio in quel 1993 andò ad esaurirsi – di Controcorrente Giovani. Qualcuno si ricorderà di quella associazione dei lettori del Giornale di Montanelli: un’iniziativa giovanile che, nonostante la sua esiguità numerica e debolezza politica, qualche buon punto deve averlo segnato, considerato che ancora oggi si vendono libri su di essa (vedi link).
A ripensarci ora, visto che il rammarico del momento è quello di una maggioranza quasi assoluta non conquistata per 24 mila voti, fa una certa impressione ricordare che all’epoca di Controcorrente Giovani e ancor prima della Gioventù Liberale – per quelli che c’erano – la nostra massima prospettiva di liberali conservatori era quella di scagliarci in nome del reaganismo contro il lib-lab, come allora veniva definito il progressismo alla Ralf Dahrendorf.
Insomma, propugnavamo cose che in Italia non si erano ancora mai viste, e che quasi nessuno credeva politicamente attuabili: le nostre erano iniziative di minoranza anche all’interno di quelli che sarebbe stato esagerato – se già si fosse usato il termine – definire circoli “di nicchia”.
Nonostante questo, il nostro vanto è di avere evitato di arruolarci tra gli schizzinosi che, in nome delle proprie convinzioni estetiche, ancora oggi sembrano ignorare quel che è successo dal 1993 ad oggi e quindi tuttora si perdono nel vagheggiare “la bella destra”.
Siamo sempre stati tra coloro che, pur non sempre essendone militanti, ed anzi spesso senza nemmeno esserne elettori, fin dal principio hanno salutato in Forza Italia il tanto desiderato partito liberale di massa. Finalmente un partito di ispirazione popolare, con tutti i rischi demagogici che questo comporta, ma che per la prima volta nella storia repubblicana si è dimostrato in grado di rappresentare la maggioranza degli italiani senza concedere troppo al desiderio di farsi assistere e garantire da qualche greppia di Stato.
Tanto che oggi, dopo le elezioni del 9-10 aprile, abbiamo la sensazione di essere sempre stati, e di essere ancora, sempre un po’ più avanti e assieme un po’ più indietro rispetto alla personalità di Silvio Berlusconi. Più avanti, perché anche ora che Forza Italia si è confermata il primo partito italiano, e ha dimostrato la sua capacità di rispondere alle attese della maggioranza degli italiani, continuiamo ad interrogarci su come un partito simile potrà sopravvivere alla personalità del Caimano, e strutturarsi come polo di attrazione di un futuro partito dei moderati. Ma nel contempo ci sentiamo più indietro, rispetto alla genialità con cui Berlusconi è riuscito e tuttora continua ad interpretare il sentire comune del Paese che non si riconosce nella sinistra. Non è la prima volta, dal 1994 ad oggi, che ci sorprendiamo a doverlo idealmente rincorrere, subito dopo avere temuto che la sua epopea politica fosse quasi al capolinea.
Tuttavia, per pensare al centrodestra che verrà dopo Berlusconi, fino ad oggi siamo andati a cercare le idee perlopiù in modelli stranieri. Ci siamo rivolti laddove in politica il bipolarismo è più compiuto, ma soprattutto dove è più radicata, e quindi più avanzata, la capacità di interpretare e di condividere a livello popolare i valori delle libertà politiche ed economiche. Da cattolici, ci siamo poi riletti Tocqueville, Lord Acton, Carl Schmitt, il Compendio della dottrina sociale della Chiesa. In quanto liberisti, ci siamo arrovellati su Hayek, von Mises e Rothbard. E come conservatori, siamo tornati a cercar lumi da Edmund Burke e dagli altri classici, ma poi anche presso Goldwater e le più recenti ispirazioni del pensiero teo-con statunitense, soprattutto la “triade” di Novak, Weigel e Neuhaus.
I libri fanno sempre bene, a leggerli davvero, ma a ben vedere - grazie anche a quel che è stato fatto in questi tredici anni, bisogna riconoscerlo - ora non è più necessario guardare così lontano, come avveniva ai tempi eroici di Controcorrente Giovani: un movimento popolare di matrice cattolica e liberale, in Italia, può radicarsi anche solo sulla base di principi universali ed elementari. Forse è sufficiente una riflessione sul senso della libertà, che tenga conto dei segnali confortanti che sono venuti dai recenti esiti referendari e poi elettorali.
La tenuta politica della Casa delle Libertà, che ancora rappresenta la maggioranza del Paese soprattutto nelle aree più evolute e produttive, ma ancor prima il clamoroso naufragio del referendum sulla uccisione e la manipolazione genetica degli embrioni umani (cd. fecondazione assistita), hanno portato alla luce l’animus più profondo del popolo italiano. Siamo in presenza del sentire di un popolo che non condivide più – ammesso che mai lo abbia fatto – il relativismo delle sue oligarchie culturali, accademiche, dell’informazione. E tantomeno, ça va sans dire, si trova in sintonia con i poteri finanziari ed industriali. Ma al contrario continua ad ascoltare la voce della Chiesa Cattolica e del Papa, sui grandi temi della vita umana, ma anche sulle questioni connesse della libertà politica.
Proprio dalla dottrina cattolica può ripartire la nostra idea di libertà. Finora, abbiamo un po’ sofferto la contraddizione tra l’individualismo e il relativismo propri del pensiero liberale, rispetto alla tensione etica verso il vero e l’universale che pure ci appartiene in quanto cattolici. Ma oggi crediamo che questo nodo possa e debba venire sciolto, per non trasformarsi un impedimento drammatico. Il liberalismo “debole” dei relativisti così come quello “di nicchia” dei duri e puri, se così si possono chiamare, vanno in qualche modo superati perché sono i fatti della attualità politica – e non le discussioni tra intellettuali – che stanno mettendo in discussione i fondamenti stessi della nostra società. A partire dalle questioni della famiglia, del rapporto tra sessi, dell’educazione, per arrivare al terrorismo islamista, all’immigrazione, al crollo demografico, alla imminente rottura del patto generazionale su cui si sostiene il nostro welfare.
Per questo troviamo urgente recuperare il sentire cattolico, nella nostra idea di libertà politica: anni fa l’allora cardinale Ratzinger, riflettendo su questi grandi temi, osservò che il limite del pensiero occidentale che discende dall’illuminismo è quello di avere concepito le libertà politiche in modo molto meno razionale di quanto non si pensi. Da Rousseau in poi, non è stata tanto la ragione quanto la natura ad occupare il centro della riflessione: “l’uomo creato libero”, come scrisse von Schiller, ha iniziato ad essere concepito come portatore di desideri e di bisogni che non avevano più bisogno né di significato, né di una corretta relazione con il mondo e con Dio, per essere considerati buoni. Tali desideri avrebbero comunque potuto e dovuto trovare – per mezzo di un’idea del tutto astratta e disincarnata della razionalità umana – la più ampia soddisfazione possibile.
Ma questa concezione nei secoli a venire avrebbe oscurato progressivamente la verità sull’uomo, e quindi alla fine la sua stessa libertà. L’esito più radicale (ma anche più prevedibile da parte della secolare saggezza della Chiesa, come ha annotato lo stesso cardinale Ratzinger) è stata la disperazione esistenzialista di Jean Paul Sartre: l’uomo che non ricerca più la verità su stesso, bensì solo la libertà, diventa privo di senso. Perché della sua libertà non sa più che farsene, e in definitiva può usarla solo in modo distruttivo per sé e per gli altri.
L’errore marxista fu quello di considerare pienamente libera – o meglio liberata – solo la società in cui l’eguaglianza e la fine dello sfruttamento del lavoro avrebbero potuto salvaguardare le esigenze e i desideri di tutti. Addirittura si sarebbe dovuti arrivare a liberare l'uomo dal lavoro, che veniva visto come una schiavitù e una maledizione (e a parlarne ora sembrano cose d'altri tempi, ma l'attuale nostra terza carica dello Stato la pensa ancora così).
Una tale idea di società era contraria alla realtà e alla verità sull’uomo, e pertanto l’oppressione ideologica è giunta immediata. Ma anche nelle società democratiche il problema della libertà è rimasto ancor oggi almeno parzialmente irrisolto, e continua a generare abusi. Anche laddove il socialismo non si è mai inverato e hanno prevalso modelli liberali ovvero solidaristi, è rimasta forte la spinta politica a rifugiarsi in una falsa concezione dell’uomo, della società, dello Stato.
Le libertà politiche disgiunte dalla verità sull’uomo e dal suo bisogno di legami e di significato, tendono ad autodistruggersi e anche ad essere rifiutate. Tanto che le strutture politiche e giuridiche dello Stato oggigiorno faticano non poco a configurarsi, e ancor più a farsi pienamente accettare, come condizione della libertà di ognuno e della piena realizzazione di tutti. Esse continuano ad essere percepite da ampi strati della popolazione – non sempre a torto – come un potere oppressivo dal quale “liberarsi”, ovvero come Grande Madre dalla quale farsi proteggere ed assistere.
Forse è per questo che gli apparati ideologici occidentali sono ancora così legati al vecchio sogno comunista, e i liberali più radicaleggianti continuano a legarsi al carro delle sinistre: gli interessi degli altri continuano ad essere percepiti come un limite, un’aporia insuperabile, e alla fine solo l’invidia resta il motore dell’azione politica, come si è visto anche in Italia in questi ultimi anni di spaventoso odio ideologico per il cosiddetto berlusconismo.
Se anche l’individualismo liberale ha portato ad esiti incerti, è stato perché il modello che ancora oggi ci propone è quello di una società dove non può più pretendersi una morale. Ciò in quanto da che mondo è mondo i mores presuppongono una verità condivisa, e un significato comune per i comportamenti socialmente rilevanti.
Un'esigenza di fondo del tutto imprescindibile, che però per la prima volta nella storia dell'umanità (e solo nelle società occidentali) ora è considerata non più necessaria e anzi del tutto inammissibile, in quanto l’unico metro di giudizio sulla qualità di una società libera è divenuto quello della sua capacità di trasformare in diritti i desideri di ogni singolo, salvaguardandoli da ogni vincolo esterno, specie se di tipo statuale.
Il criterio ultimo della politica contemporanea, in effetti, sembra davvero essere la difesa ad oltranza dell’“io e le sue voglie”, per riprendere l’efficace espressione dello stesso Ratzinger, usata nella sua ultima omelia prima dell’elezione a Pontefice.
Ma questo modello così insufficiente rispetto al problema della verità, e quindi anche della libertà, ed oggi versa in una crisi profonda. Lo vediamo nell’altrimenti inspiegabile difficoltà dell’Occidente di rispettare se stesso, e di difendere “dall’interno” i propri valori. Oggi il pensiero corrente tende a diffidare del concetto stesso di verità e si trova spaventosamente disgregato e indifeso, sia di fronte all’aggressività islamista, dall’esterno, sia di fronte alle sfide indotte dalla propria stessa modernità, all’interno.
La risposta cattolica ci appare dunque come quella più efficace, ma anche come quella più autenticamente liberale: perché parte dalla questione della verità sull’uomo, e ricostruisce le libertà politiche non come semplice difesa dei desideri, degli interessi e delle esigenze dei singoli. Se ognuno è arbitro dei suoi desideri finisce per esserne schiavo, e alla lunga si verifica una situazione di crisi che poi è quella della società occidentale contemporanea, che non sa più darsi ragione dell’altro e non sa più costruire relazioni stabili (vedi la crisi della famiglia, l’aborto, la disgregazione sociale).
Invece, nel sentire cattolico, la libertà dei singoli e dei gruppi hanno sempre un significato e una direzione, in quanto ogni diritto fondamentale è un aspetto coessenziale ed ineludibile della verità sull’uomo e sulla sua dimensione sociale. Nasce su questi presupposti il pensiero giusnaturalista e la dottrina sociale della Chiesa, e la critica dello Stato che queste scuole hanno sempre attuato.
L’autentica realizzazione dei singoli e della collettività, nella prospettiva cattolica, tiene conto di una verità secondo la quale ogni uomo si definisce solo per mezzo di relazioni ed appartenenze. Ogni uomo è libero in quanto proviene “da”, vive “per” e si relaziona “con”. Questi ultimi non sono limiti esterni né intrinseci, bensì le condizioni e la possibilità stessa della libertà individuale e collettiva. Dunque, la dottrina sociale cattolica sulla libertà come “bene comune”, e cioè ricerca di una situazione in cui ad ogni singolo e gruppo sia dato di sviluppare nel massimo grado realisticamente possibile la verità su se stesso, ci sembra oggigiorno la ricetta meno in crisi tra tutte quelle liberali.
Nel nostro definirci “cattolici, liberali, conservatori” ognuno dei termini si relaziona strettamente con gli altri. Sappiamo che sono termini che per ragioni storiche in Italia sono sempre stati visti in contrapposizione reciproca.
Ma noi ci diciamo cattolici non tanto in senso confessionale, quanto nel senso della nostra aspirazione all’universalità, e ad un’azione politica che, tenendo conto della verità sull’uomo e del suo bisogno di significato, possa andare nel senso della autentica libertà. E quindi siamo liberali non nel modo illuministico e giacobino, né tantomeno in quello progressista.
Il nostro liberalismo si declina in senso conservatore, in quanto esiste una tradizione da difendere: la nostra identità occidentale ed italiana, che non è fatta tanto di principi e di bandiere, quanto di relazioni ed appartenenze. Non è solo la nostra fede e la nostra visione del mondo che intendiamo difendere. Sono le nostre famiglie, il nostro lavoro, le nostre case e le nostre scuole, le nostre strade, piazze ed opere d’arte, i nostri libri e spettacoli preferiti, le nostre amicizie e persino le nostre antipatie, quelle relazioni alle quali sentiamo di appartenere e alle quali guardiamo, perché oggi le vediamo messe in pericolo.
Nel quadro politico attuale, la Casa delle Libertà a nostro avviso deve convergere su questa prospettiva: per comprendere quanto possa essere vincente, basta guardare a come solo il liberalismo popolare di Forza Italia, e il pragmatismo berlusconiano che nonostante tante incertezze continua a regalarci tanti bei momenti di verità sulle condizioni del Paese, anche nelle elezioni in cui era dato per spacciato è riuscito a catalizzare quasi la metà dei voti di tutto il centrodestra.
Guardiamo poi a come il convinto sostegno di tante oligarchie economiche e culturali, per non parlare dei mezzi di informazione, non abbia saputo salvare la Rosa nel Pugno – esempio emblematico di istanza liberale, che ha finito per rinnegare se stessa nel momento in cui ha deciso di proporsi unicamente come movimento anticattolico – da un sonoro flop elettorale.
La strada per la costruzione dell’identità del centrodestra per gli anni a venire, a nostro parere passa dunque per quelle tre parole, ma soprattutto dal rapporto reciproco tra di esse: cattolici, liberali, conservatori.
10 giugno 2006
Teatrino confindustriale
E così anche quest’anno ci tocca il teatrino dei giovanotti di Confindustria. Facciamocene una ragione. Da poco hanno finito di parlare i big, quelli più “grandi” insomma, che per i ragazzi in sala dovrebbero rappresentare modelli cui ispirarsi. Cerchiamo di capire che cosa possono aver imparato dai discorsi dei loro leader e da quelli dei rappresentanti del governo. Il responsabile dello stabilimento, Luca Cordero di Montezemolo, ha firmato uno dei suoi interventi più alti.
“Abbiamo bisogno di coraggio, di decisioni chiare” ha dichiarato. Bravo, ben detto. Vorremmo però chiedere al ferrarista perché non è stato il primo a dimostrare coraggio difendendo, quando si doveva difenderla e cioè durante la campagna elettorale, la riforma del lavoro di Marco Biagi, voluta e approvata dal governo Berlusconi. La quale, ci risulta, è valutata piuttosto positivamente dagli industriali, vale a dire dai suoi soci. Insomma, per parlare in italiano, da quelli che lo hanno eletto. Invece il presidente di tutto, quando c’era da tirarli fuori, gli attributi se li è tenuti ben nascosti correndo dietro a quell’altro fulgido esempio di rettitudine morale di Della Valle.
Sul dialogo con i sindacati, poi, Montezemolo si è paurosamente sbilanciato sollecitando che venga ripreso “con spirito costruttivo”. Infine, bordata finale al governicchio di Prodi sul numero di ministri e vice: “Sorprendente”. Una frecciata scagliata con sprezzo del pericolo, petto in fuori e bandana a violentare la fluente e aristocratica chioma.
Il ministro degli Esteri, D’Alema, non si è lasciato sfuggire l’occasione per darsi una ripassata ai baffetti e mostrare i muscoli davanti all’asilo della Confindustria. “Il Paese è avvolto dai privilegi; c’è pochissima uguaglianza” ha sentenziato. Sistemandosi in questo modo la coscienza. Perché se l’Italia post-berlusconiana è anche post-democratica, come Prodi va sparlando in giro per l’Europa e come con quelle parole sostanzialmente conferma anche il capo della nostra diplomazia, allora il lavoro cui è chiamato il neo esecutivo è di quelli tostissimi.
Il giochetto è vecchio come il cucco: peggiorare di molto la situazione reale per mettere le mani avanti. Non si sa mai. Se non riusciremo a sistemare le cose, la colpa sarà del caimano; se ce la faremo, saremo stati dei Mandrake. E poi D’Alema di quali privilegi parla? Considera anche quelli che derivano dal più grande conflitto di interessi che la nostra storia repubblicana conosca?
Ci riferiamo, se non fosse chiaro, al connubio fra Pci-Pds-Ds e Lega delle cooperative, un connubio che ora si estende alla maggioranza del Parlamento. E quando si adonta per l’assenza di uguaglianza, che fa? Si lamenta perché l’ex capo di Unipol, Consorte, è sempre stato trattato in guanti bianchi dalla magistratura italiana, quando altri personaggi nella sua stessa (o migliore) posizione giudiziaria sono stati sbattuti in galera e lì restano?
Chiudiamo in bellezza con l’esamino del ministro del Lavoro, Damiano. Il quale è riuscito a garantire che il governo “non intende cancellare o abrogare la legge Biagi, ma solo introdurre correzioni”. Peccato che per l’intera campagna elettorale questo provvedimento sia stato preso di mira dalla coalizione di cui Damiano fa parte e sia stato ritenuto responsabile dei milioni di precari che si aggirano per l’Italia in cerca di un tozzo di pane raffermo.
Dunque, qual è stata la lezione che i giovani di Confindustria hanno tratto da queste mirabolanti prese di posizione? Noi un’idea ce l’abbiamo, anche se non siamo d’accordo: che nella vita è meglio comportarsi da paraculi e bugiardi.
“Abbiamo bisogno di coraggio, di decisioni chiare” ha dichiarato. Bravo, ben detto. Vorremmo però chiedere al ferrarista perché non è stato il primo a dimostrare coraggio difendendo, quando si doveva difenderla e cioè durante la campagna elettorale, la riforma del lavoro di Marco Biagi, voluta e approvata dal governo Berlusconi. La quale, ci risulta, è valutata piuttosto positivamente dagli industriali, vale a dire dai suoi soci. Insomma, per parlare in italiano, da quelli che lo hanno eletto. Invece il presidente di tutto, quando c’era da tirarli fuori, gli attributi se li è tenuti ben nascosti correndo dietro a quell’altro fulgido esempio di rettitudine morale di Della Valle.
Sul dialogo con i sindacati, poi, Montezemolo si è paurosamente sbilanciato sollecitando che venga ripreso “con spirito costruttivo”. Infine, bordata finale al governicchio di Prodi sul numero di ministri e vice: “Sorprendente”. Una frecciata scagliata con sprezzo del pericolo, petto in fuori e bandana a violentare la fluente e aristocratica chioma.
Il ministro degli Esteri, D’Alema, non si è lasciato sfuggire l’occasione per darsi una ripassata ai baffetti e mostrare i muscoli davanti all’asilo della Confindustria. “Il Paese è avvolto dai privilegi; c’è pochissima uguaglianza” ha sentenziato. Sistemandosi in questo modo la coscienza. Perché se l’Italia post-berlusconiana è anche post-democratica, come Prodi va sparlando in giro per l’Europa e come con quelle parole sostanzialmente conferma anche il capo della nostra diplomazia, allora il lavoro cui è chiamato il neo esecutivo è di quelli tostissimi.
Il giochetto è vecchio come il cucco: peggiorare di molto la situazione reale per mettere le mani avanti. Non si sa mai. Se non riusciremo a sistemare le cose, la colpa sarà del caimano; se ce la faremo, saremo stati dei Mandrake. E poi D’Alema di quali privilegi parla? Considera anche quelli che derivano dal più grande conflitto di interessi che la nostra storia repubblicana conosca?
Ci riferiamo, se non fosse chiaro, al connubio fra Pci-Pds-Ds e Lega delle cooperative, un connubio che ora si estende alla maggioranza del Parlamento. E quando si adonta per l’assenza di uguaglianza, che fa? Si lamenta perché l’ex capo di Unipol, Consorte, è sempre stato trattato in guanti bianchi dalla magistratura italiana, quando altri personaggi nella sua stessa (o migliore) posizione giudiziaria sono stati sbattuti in galera e lì restano?
Chiudiamo in bellezza con l’esamino del ministro del Lavoro, Damiano. Il quale è riuscito a garantire che il governo “non intende cancellare o abrogare la legge Biagi, ma solo introdurre correzioni”. Peccato che per l’intera campagna elettorale questo provvedimento sia stato preso di mira dalla coalizione di cui Damiano fa parte e sia stato ritenuto responsabile dei milioni di precari che si aggirano per l’Italia in cerca di un tozzo di pane raffermo.
Dunque, qual è stata la lezione che i giovani di Confindustria hanno tratto da queste mirabolanti prese di posizione? Noi un’idea ce l’abbiamo, anche se non siamo d’accordo: che nella vita è meglio comportarsi da paraculi e bugiardi.
09 giugno 2006
Prodi il buffone (e chi non glielo dice)
Allora, a questo punto è fin troppo semplice e non voglio perdere l’occasione.
Dovete sapere che io vivo a Bologna e lavoro in pieno centro. Quindi, mi è già capitato più volte di incontrare Romano Prodi per la strada. Infatti, come tutti sanno, lui a Roma non ci è mai voluto andare a vivere e non ci andrebbe manco morto. Quando era ancora Presidente della Commissione UE, ho incontrato il Mortadellone un paio di volte mentre si aggirava per via Altabella, verso sera. Ho il marcato sospetto che fosse solito parcheggiare la sua utilitaria con targa diplomatica nel cortile interno e riservato dell’Arcivescovado, che si affaccia sulla predetta via.
In una di quelle occasioni, visto che c’erano già stati gli attentati dell’11 settembre, ricordo di essermi detto tra me e me: certo che l’Unione Europea non conta proprio un cazzo sullo scenario internazionale, se fossi stato un terrorista islamico avrei potuto tagliargli la gola e scomparire nel nulla, che nessuno mi avrebbe potuto fermare. O forse quello che non ha mai contato nulla, in Europa e anche in Italia, è proprio lui. E dire che via Valdonica, dove è stato assassinato Marco Biagi, è a meno di duecento metri da dove l’avevo incontrato.
L’ultima volta che mi è successo di vedere Prodi per il centro di Bologna è stato poco più di un mese fa, subito dopo le elezioni. Stava facendo uno scatto improvviso per via Fossalta, sempre in direzione dell’Arcivescovado, abbandonando il piccolo gruppetto che stava con lui. La signora Flavia era rimasta sul posto, dieci metri più dietro, e gli stava gridando dietro qualcosa. Lui si è voltato per un secondo, senza rispondere, ed è stato solo per quel motivo che l’ho potuto riconoscere. Poi è ripartito di scatto, e in quel momento per la prima volta in vita mia gli ho guardato la nuca.
In effetti ha davvero la testa quadra. E sproporzionata: oltretutto mi pare anche dimagrito molto da quando l’avevo visto per l’ultima volta, cosicché le spalle strette gli fanno ancor più risaltare l’enorme crapa. Chissà se stava andando davvero dall’Arcivescovo, forse per una benedizione al volo (che ho i miei dubbi gli sarebbe stata concessa, che ormai, nella Chiesa bolognese, a Prodi gli sono rimasti solo i vecchi parroci).
Tuttavia devo osservare che quando incontro qualcuno della sua famiglia c’è sempre di mezzo qualche istituzione ecclesiastica. Dovete sapere anche che, dal momento che sono un buon cattolico, vado a messa tutti i giorni assieme alle solite cinque o sei pie donne. Nella chiesa di san Bartolomeo, alla messa di mezzogiorno. Proprio la settimana scorsa mi è capitato che una di queste signore che stava sulla panca davanti alla mia si voltasse per darmi il segno della pace. Era la signora Flavia. D’accordo, è la pace di Cristo, non mi sarei mai sognato di negargliela, ma non mi sono mai sentito favorevole alla messa di rito antico come in quel momento.
Non ho mai capito se per Prodi farsi vedere in giro a piedi per Bologna, senza scorta, rappresenti una specie di spot da falso umile, del tipo sono-uno-come-voi, da leader scandinavo. D’altra parte a Bologna può permetterselo, perché come ripeto per la strada non lo considera nessuno. Ho letto da qualche parte che un contadino svizzero per sbaglio ha ricoperto di letame uno che passeggiava in bicicletta accanto al suo podere, per poi scoprire solo dai giornali che era il Presidente della Repubblica. Per il centro di Bologna, purtroppo, del letame o di altri rifiuti organici si sente solo l’odore, come ha scritto Graziano nell’altro post, vista l’incapacità della giunta Cofferati di arginare l’invasione dei punkabbestia e di quelli che la fanno per strada. Però, se avessi un cane anch’io, confesso che la tentazione di fargli annusare qualche fetta di mortadella perchè riconosca la preda, e quindi di addestrarlo a fargli lasciare le sue tracce organiche sulla strada di quelle del nostro Presidente, sarebbe assai forte.
Insomma, tutto questo racconto è per dirvi che la prossima volta che mi capiterà gli urlerò che è un buffone. Gli chiederò come si sia permesso di insultare così me e anche mia moglie (visto che oltretutto io ho anche dato il segno della pace alla sua). Gli chiederò – urlando – chi cavolo si crede di essere per potermi dare del parcheggiatore in doppia fila, del furbetto che non sa vivere in società, del soggetto con la predisposizione all’illegalità.
E poi gli darò di nuovo del buffone, perché si è anche permesso di dire che quelli che non hanno votato per lui sono dei teledipendenti. Gente ignorante, senza laurea, casalinghe che guardano solo telenovelas.
Perché, mio caro Prodi, mia moglie – che in effetti è solo diplomata e guarda anche Beautiful – è una donna onesta esattamente come la moglie tua, emerito buffone che non sei altro. Ma a differenza di tua moglie, la mia passa il tempo a crescere i nostri tre figli, cioè tre futuri contribuenti che dovranno finanziare con il loro lavoro anche i buchi di bilancio lasciati da te e da quelli come te in trent’anni di sperperi parastatali, dall’Iri all’extradeficit fino all’ultima esplosione di prebende ministeriali organizzata dal tuo governo.
Si ricordi, il buffone dalla testa quadra, che in quanto casalinga e madre di famiglia mia moglie è indirettamente costretta a lavorare gratis per lo Stato, e quindi anche per i vari stipendi ed indennità suoi, dei suoi sodali, e anche dei suoi familiari.
Quindi, a maggior ragione non si azzardi mai più parlar male di mia moglie, oltre che del sottoscritto. A differenza della sua, mia moglie non si fa pagare da un'Università statale per una materia del piffero – Organizzazione dei Servizi Sociali – che non si sa a che serva al prossimo se non a organizzare il loro già pingue bilancio familiare.
Che non si permetta mai più. E non si permetta di querelarmi quando gli darò del buffone. Che tanto la Cassazione ha detto che non è un insulto, ma un’utile critica sociale. Quindi posso farlo e lo farò. E chiamerò testimoni. Buffone.
Dovete sapere che io vivo a Bologna e lavoro in pieno centro. Quindi, mi è già capitato più volte di incontrare Romano Prodi per la strada. Infatti, come tutti sanno, lui a Roma non ci è mai voluto andare a vivere e non ci andrebbe manco morto. Quando era ancora Presidente della Commissione UE, ho incontrato il Mortadellone un paio di volte mentre si aggirava per via Altabella, verso sera. Ho il marcato sospetto che fosse solito parcheggiare la sua utilitaria con targa diplomatica nel cortile interno e riservato dell’Arcivescovado, che si affaccia sulla predetta via.
In una di quelle occasioni, visto che c’erano già stati gli attentati dell’11 settembre, ricordo di essermi detto tra me e me: certo che l’Unione Europea non conta proprio un cazzo sullo scenario internazionale, se fossi stato un terrorista islamico avrei potuto tagliargli la gola e scomparire nel nulla, che nessuno mi avrebbe potuto fermare. O forse quello che non ha mai contato nulla, in Europa e anche in Italia, è proprio lui. E dire che via Valdonica, dove è stato assassinato Marco Biagi, è a meno di duecento metri da dove l’avevo incontrato.
L’ultima volta che mi è successo di vedere Prodi per il centro di Bologna è stato poco più di un mese fa, subito dopo le elezioni. Stava facendo uno scatto improvviso per via Fossalta, sempre in direzione dell’Arcivescovado, abbandonando il piccolo gruppetto che stava con lui. La signora Flavia era rimasta sul posto, dieci metri più dietro, e gli stava gridando dietro qualcosa. Lui si è voltato per un secondo, senza rispondere, ed è stato solo per quel motivo che l’ho potuto riconoscere. Poi è ripartito di scatto, e in quel momento per la prima volta in vita mia gli ho guardato la nuca.
In effetti ha davvero la testa quadra. E sproporzionata: oltretutto mi pare anche dimagrito molto da quando l’avevo visto per l’ultima volta, cosicché le spalle strette gli fanno ancor più risaltare l’enorme crapa. Chissà se stava andando davvero dall’Arcivescovo, forse per una benedizione al volo (che ho i miei dubbi gli sarebbe stata concessa, che ormai, nella Chiesa bolognese, a Prodi gli sono rimasti solo i vecchi parroci).
Tuttavia devo osservare che quando incontro qualcuno della sua famiglia c’è sempre di mezzo qualche istituzione ecclesiastica. Dovete sapere anche che, dal momento che sono un buon cattolico, vado a messa tutti i giorni assieme alle solite cinque o sei pie donne. Nella chiesa di san Bartolomeo, alla messa di mezzogiorno. Proprio la settimana scorsa mi è capitato che una di queste signore che stava sulla panca davanti alla mia si voltasse per darmi il segno della pace. Era la signora Flavia. D’accordo, è la pace di Cristo, non mi sarei mai sognato di negargliela, ma non mi sono mai sentito favorevole alla messa di rito antico come in quel momento.
Non ho mai capito se per Prodi farsi vedere in giro a piedi per Bologna, senza scorta, rappresenti una specie di spot da falso umile, del tipo sono-uno-come-voi, da leader scandinavo. D’altra parte a Bologna può permetterselo, perché come ripeto per la strada non lo considera nessuno. Ho letto da qualche parte che un contadino svizzero per sbaglio ha ricoperto di letame uno che passeggiava in bicicletta accanto al suo podere, per poi scoprire solo dai giornali che era il Presidente della Repubblica. Per il centro di Bologna, purtroppo, del letame o di altri rifiuti organici si sente solo l’odore, come ha scritto Graziano nell’altro post, vista l’incapacità della giunta Cofferati di arginare l’invasione dei punkabbestia e di quelli che la fanno per strada. Però, se avessi un cane anch’io, confesso che la tentazione di fargli annusare qualche fetta di mortadella perchè riconosca la preda, e quindi di addestrarlo a fargli lasciare le sue tracce organiche sulla strada di quelle del nostro Presidente, sarebbe assai forte.
Insomma, tutto questo racconto è per dirvi che la prossima volta che mi capiterà gli urlerò che è un buffone. Gli chiederò come si sia permesso di insultare così me e anche mia moglie (visto che oltretutto io ho anche dato il segno della pace alla sua). Gli chiederò – urlando – chi cavolo si crede di essere per potermi dare del parcheggiatore in doppia fila, del furbetto che non sa vivere in società, del soggetto con la predisposizione all’illegalità.
E poi gli darò di nuovo del buffone, perché si è anche permesso di dire che quelli che non hanno votato per lui sono dei teledipendenti. Gente ignorante, senza laurea, casalinghe che guardano solo telenovelas.
Perché, mio caro Prodi, mia moglie – che in effetti è solo diplomata e guarda anche Beautiful – è una donna onesta esattamente come la moglie tua, emerito buffone che non sei altro. Ma a differenza di tua moglie, la mia passa il tempo a crescere i nostri tre figli, cioè tre futuri contribuenti che dovranno finanziare con il loro lavoro anche i buchi di bilancio lasciati da te e da quelli come te in trent’anni di sperperi parastatali, dall’Iri all’extradeficit fino all’ultima esplosione di prebende ministeriali organizzata dal tuo governo.
Si ricordi, il buffone dalla testa quadra, che in quanto casalinga e madre di famiglia mia moglie è indirettamente costretta a lavorare gratis per lo Stato, e quindi anche per i vari stipendi ed indennità suoi, dei suoi sodali, e anche dei suoi familiari.
Quindi, a maggior ragione non si azzardi mai più parlar male di mia moglie, oltre che del sottoscritto. A differenza della sua, mia moglie non si fa pagare da un'Università statale per una materia del piffero – Organizzazione dei Servizi Sociali – che non si sa a che serva al prossimo se non a organizzare il loro già pingue bilancio familiare.
Che non si permetta mai più. E non si permetta di querelarmi quando gli darò del buffone. Che tanto la Cassazione ha detto che non è un insulto, ma un’utile critica sociale. Quindi posso farlo e lo farò. E chiamerò testimoni. Buffone.
08 giugno 2006
Referendum, libertà di coscienza ad personam
Troviamo ridicola e dannosa la libertà di coscienza che l’Udc si è inventata per consentire agli amici del giaguaro Bruno Tabacci e Marco Follini di votare no al referendum sulla riforma costituzionale. Ridicola perché è chiaro come il sole che si tratta del solito escamotage veterodemocristiano per consentire ai due di mantenere il disaccordo con il partito di cui fanno parte pur non togliendo il disturbo dal partito stesso e dalla Casa delle Libertà. Dannosa perché si traduce nella puntuale bastonata sugli attributi che il centrodestra si infligge con piacere masochistico. Per carità, non abbiamo alcuna illusione su come andrà a finire fra poco più di due settimane. Anche se ci batteremo come leoni perché il "Sì" prevalga. Del resto, il fatto che i big abbiano deciso di non giocarsi la faccia la dice lunga sulle aspettative dell’ennesima chiamata alle urne per italiani stufi di votare (tra l’altro, non hanno ancora capito per che cosa devono farlo) e desiderosi di mare. Insomma, si rischia la diserzione di massa. Ma non perché gli italiani abbiano una qualche posizione sul quesito referendario. Semplicemente perché una posizione non ce l’hanno.
Tornando a Cric e Croc, poi, per quale motivo scomodare la coscienza, e cioè la sfera dei principi e dei valori più profondi per un individuo, nel caso di cambiare o meno alcune norme della nostra Carta fondamentale? La quale è sì fondamentale, sia chiaro, ma non è mica il Vangelo. Non ci risulta sia piovuta dal cielo come dono dell’Altissimo. Se tiriamo in ballo la coscienza qui, non vediamo perché non la si debba tirare in ballo quando, per esempio, il governo Prodi porterà alle Camere la Finanziaria 2007. Così, magari, si offrirà il destro a Tab e Fol di dire quanto è bravo Padoa Schioppa con una Casa delle Libertà a gridare esattamente l’opposto. Insomma, usciamo dall’equivoco e dalle verità sussurrate a mezza bocca. Follini e Tabacci, durante il governo del centrodestra, sono stati utilissimi per logorare la leadership di Berlusconi. Ora a Casini potranno continuare a essere utili perché c’è da finire il lavoro: contribuire ad accelerare l’archiviazione di Berlusconi, del berlusconismo e di Forza Italia. Con tanti saluti al partito liberale e cattolico di massa.
Tornando a Cric e Croc, poi, per quale motivo scomodare la coscienza, e cioè la sfera dei principi e dei valori più profondi per un individuo, nel caso di cambiare o meno alcune norme della nostra Carta fondamentale? La quale è sì fondamentale, sia chiaro, ma non è mica il Vangelo. Non ci risulta sia piovuta dal cielo come dono dell’Altissimo. Se tiriamo in ballo la coscienza qui, non vediamo perché non la si debba tirare in ballo quando, per esempio, il governo Prodi porterà alle Camere la Finanziaria 2007. Così, magari, si offrirà il destro a Tab e Fol di dire quanto è bravo Padoa Schioppa con una Casa delle Libertà a gridare esattamente l’opposto. Insomma, usciamo dall’equivoco e dalle verità sussurrate a mezza bocca. Follini e Tabacci, durante il governo del centrodestra, sono stati utilissimi per logorare la leadership di Berlusconi. Ora a Casini potranno continuare a essere utili perché c’è da finire il lavoro: contribuire ad accelerare l’archiviazione di Berlusconi, del berlusconismo e di Forza Italia. Con tanti saluti al partito liberale e cattolico di massa.
07 giugno 2006
A Cofferati scappa la pipì. Ai bolognesi la pazienza
Bologna sta annegando in un mare di urina. Il centro storico, dedalo di splendidi vicoli medievali e scrigno di impareggiabili scorci d’altri tempi, è assediato dal degrado. E nulla induce a ritenere che l’amministrazione comunale sia consapevole della gravità dei problemi. Gli unici a esserlo sono i residenti, che vivono sulla loro pelle una situazione che all’ombra delle Due Torri non si era mai vista prima. Letteralmente, al sindaco Cofferati è scappata la pipì. Nel senso che non riesce più ad arginare una maleducazione che è diventata prassi. Ormai le decine e decine di giovanotti che bivaccano dalle parti di piazza Verdi sanno che quando sentono lo “stimolo” possono permettersi di abbassare la lampo dei pantaloni e farla lì dove si trovano. Magari prestando attenzione a non bagnarsi le scarpe. Sia chiaro, con nonchalance. Tanto vigili in giro non se ne vedono e le persone normali hanno paura a far notare loro che c’è qualcosa che non va. Ma l’aspetto ancora più preoccupante è che non è solo la zona universitaria a essere abbandonata a se stessa, lo è da decenni. Il confine del selvaggio west, infatti, si va estendendo a macchia d’olio e a velocità supersonica.
È di ieri la notizia che in un’altra parte del centro una commerciante, mentre camminava per strada, si è improvvisamente trovata di fronte una prostituta al lavoro appoggiata a un cassonetto dell’immondizia. Sì, faceva sesso alla luce del sole. Ribadiamo: non in una qualche periferia traboccante di disoccupati bensì a pochi metri da quel salotto che anni fa era via Indipendenza. E che ora somiglia sempre più a una puzzolente garçonniere. Eviteremmo volentieri di pensare che la responsabilità sia tutta del Cinese, anche perché rischieremmo di passare per demagoghi col dente avvelenato. Il punto è che proprio non ce la facciamo. Bologna si trova con un primo cittadino che ogni mattina deve inventarsi tattiche per mantenere nella maggioranza la parte più estrema della sua coalizione, il partito della rifondazione comunista, consentendole di non tradire la sua natura movimentista.
Quel Prc (e non solo, per la verità) che vive in simbiosi con l’universo di tribù no global dove trovano asilo politiche che fanno della deresponsabilizzazione verso se stessi e verso il prossimo la propria bandiera ideale unificante. Ecco, allora, la grande sfida che Bologna – dopo due anni di cura cofferatiana – ha davanti: fare piazza pulita di chi fa il tifo contro la persona. Il guaio è che ci siamo scelti un don Abbondio. E parlando di tonache che non hanno coraggio ci viene in mente quella cui è stato regalato Palazzo Chigi.
È di ieri la notizia che in un’altra parte del centro una commerciante, mentre camminava per strada, si è improvvisamente trovata di fronte una prostituta al lavoro appoggiata a un cassonetto dell’immondizia. Sì, faceva sesso alla luce del sole. Ribadiamo: non in una qualche periferia traboccante di disoccupati bensì a pochi metri da quel salotto che anni fa era via Indipendenza. E che ora somiglia sempre più a una puzzolente garçonniere. Eviteremmo volentieri di pensare che la responsabilità sia tutta del Cinese, anche perché rischieremmo di passare per demagoghi col dente avvelenato. Il punto è che proprio non ce la facciamo. Bologna si trova con un primo cittadino che ogni mattina deve inventarsi tattiche per mantenere nella maggioranza la parte più estrema della sua coalizione, il partito della rifondazione comunista, consentendole di non tradire la sua natura movimentista.
Quel Prc (e non solo, per la verità) che vive in simbiosi con l’universo di tribù no global dove trovano asilo politiche che fanno della deresponsabilizzazione verso se stessi e verso il prossimo la propria bandiera ideale unificante. Ecco, allora, la grande sfida che Bologna – dopo due anni di cura cofferatiana – ha davanti: fare piazza pulita di chi fa il tifo contro la persona. Il guaio è che ci siamo scelti un don Abbondio. E parlando di tonache che non hanno coraggio ci viene in mente quella cui è stato regalato Palazzo Chigi.
05 giugno 2006
Denatalità figlia della secolarizzazione
Sull’ultimo numero dell’AFA Journal, la rivista dell’American Family Association, un interessante articolo di Ed Vitagliano, intitolato “Europe’s Chastisment? How the Abandonment of Christianity May Be Leading to Disaster” (“Il castigo dell’Europa? Come l’abbandono del cristianesimo può portare al disastro”), mette in relazione la crisi demografica dell’Europa con il rifiuto delle proprie radici cristiane. Dove sono finiti gli etruschi, si chiede Vitagliano? Non esistono più, perché vennero assorbiti dalla civiltà romana e scomparvero come popolo distinto. La brutta notizia è che fra un centinaio d’anni potremo chiederci dove sono finiti gli italiani, gli spagnoli o i russi. Il noto giornalista canadese Mark Steyn lo ha scritto recentemente su “The New Criterion”: “Gran parte di quello che noi approssimativamente chiamiamo mondo occidentale non sopravviverà a questo secolo, e alcuni paesi dell’Europa scompariranno entro l’arco della nostra vita”.
Cosa potrebbe causare un cataclisma del genere? Un’altra guerra mondiale? Un conflitto nucleare? Un’epidemia? Niente di così drammatico, dicono gli esperti. L’Europa sta suicidandosi lentamente, perché non rimpiazza con nuovi nati le persone che muoiono ogni anno. Il sociologo Ben Wattenberg, autore del libro “Fewer: How the New Demography of Depopulation Will Shape Our Future” ha osservato che, dai tempi della peste nera, mai in Europa i tassi di fertilità sono caduti così in basso, così rapidamente, così a lungo e così ovunque. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite dal 2000 al 2050 l’Europa, dall’Islanda alla Russia, vedrà la sua popolazione crollare da 728 milioni a 600 milioni, o forse a 556 milioni. Se queste tendenze continueranno ulteriormente, alla fine del secolo la popolazione europea si ridurrà a 207 milioni.
Qual’è la causa di questa debacle? Gene Edward Veith del “World Magazine” ha preso in considerazione alcuni fattori economici e culturali: “Da cosa nasce il calo della popolazione? Letteralmente, dal collasso mondiale dei valori familiari. Grazie alle tecnologie contraccettive, il sesso è stato separato dalla procreazione, e per molti uomini e donne la gravidanza è diventata uno spiacevole effetto collaterale, da prevenire con gli anticoncezionali o eliminare facilmente con un aborto. Il piccolo sporco segreto dell’implosione della popolazione, raramente menzionato dai demografi, è che il mondo sta abortendo le future generazioni”. Negli Stati Uniti da un terzo a un quinto delle gravidanze si concludono con un aborto, ma in alcune nazioni europee la situazione è ancor peggiore: in Russia gli aborti sono più numerosi delle nascite, e ogni donna ha in media quattro aborti nel corso della sua vita.
Tutto questo è sintomatico della mentalità edonistica dominante nel mondo occidentale, che Allan Carlson, presidente dell’Howard Center for Family, Religion, and Society, ha definito come “una completa filosofia del piacere”: “Ovunque nell’Unione Europea e nel mondo anglo-americano le attenzioni della gente si concentrano sui consumi, sulla libertà sessuale e sul divertimento. I giovani in età fertile ricorrono a congegni meccanici e ad agenti chimici per contrastare i disegni della natura. In luoghi così culturalmente diversi come la Spagna, l’Italia, la Danimarca e la Germania la sperimentazione sessuale inizia presto, ma raramente si conclude con un figlio”. Malgrado gli sforzi fatti dai governi di alcune nazioni europee per aumentare con sconti fiscali o sussidi il desiderio di maternità e paternità, pochi pensano che serviranno a convincere le coppie a tornare ad avere tre o quattro figli. Quasi nessun demografo crede che i tassi di natalità torneranno a crescere in maniera significativa.
L’aspetto paradossale della storia, osserva Vitagliano, è che il perseguimento del piacere e della ricchezza personale potrebbe condurre alla rovina economica. Infatti, se la popolazione attiva si riduce, chi produrrà in futuro i beni e i servizi che necessitano di capitale umano? Veith indica alcune conseguenze economiche del declino della popolazione: “Gli individui non sono solo consumatori ma produttori. La riduzione della popolazione può distruggere l’economia perché crea una scarsità di lavoratori. Un paese che perde abitanti avrà una minor forza militare e un minor numero di contribuenti. Il declino della popolazione è sempre stato un segnale di decadenza culturale, perché riduce la creatività, l’energia e la vitalità ad ogni livello della società”.
L’opinionista e critico culturale Don Feder, pur essendo ebreo, vede nell’abbandono del cristianesimo la causa profonda dei problemi demografici europei: “Non è un caso che il carattere centrale della Nuova Europa sia il rifiuto di riconoscere le proprie origini spirituali. La Costituzione Europea, un documento di oltre settemila parole, non contiene un solo riferimento al cristianesimo. In questo modo più di un millennio di storia viene di fatto cancellato”. L’abbandono del cristianesimo nella maggior parte dei paesi europei è ben documentato. In cinque paesi chiave dell’Europa (Francia, Belgio, Olanda, Germania e Italia) la percentuale della popolazione che frequenta regolarmente una chiesa è scesa negli ultimi trent’anni dal 40 al 20 per cento circa della popolazione. Feder crede che vi sia un evidente collegamento tra la mancanza di fede religiosa e la perdita di quell’interesse per il futuro, che spinge le persone a concepire e ad allevare un figlio: “Avendo perso la loro fede e abbracciato un’etica di autonomia radicale, gli Europei hanno smesso di andare in chiesa, di prendere la Bibbia sul serio, di credere nel futuro e di avere figli”. Aborto, controllo delle nascite, accettazione del matrimonio gay e promiscuità sessuale sono le nuove tendenze guida.
La prognosi è ancor più infausta a causa della soluzione rischiosa che molte nazioni europee hanno scelto per colmare i vuoti di popolazione: l’immigrazione. Dal Nord Africa e dal Medio Oriente, milioni di immigrati musulmani si sono riversati nel vecchio continente nell’ultimo mezzo secolo. Solo cinquant’anni fa gli islamici residenti in Europa erano 250.000, oggi sono venti milioni. Inoltre i musulmani, diversamente dagli occidentali, hanno famiglie numerose. La loro alta natalità, combinata all’immigrazione, porterà la popolazione musulmana in Europa a raddoppiare nel 2025. La demografia potrebbe quindi realizzare quello che non riuscì ai Mori e all’impero ottomano con le armi: un’Europa musulmana. I multiculturalisti vedono questo esito come un arricchimento. Il problema, tuttavia, è che l’islamizzazione dell’Europa produrrà una completa metamorfosi del continente. Una società non può diventare più islamica nei suoi caratteri demografici senza diventare tale anche nei suoi caratteri politici e culturali. Già oggi più del 60 per cento dei musulmani britannici desiderano vivere sotto la legge coranica, ed entro il 2050, prevede Mark Steyn, molte nazioni europee saranno costrette ad introdurre la sharia nella propria legislazione.
Forse all’inizio i governi europei cercheranno di resistere a queste richieste, ma la reazione potrebbe essere un’escalation di attentati e rivolte. Fra meno di cento anni l’Europa di Shakespeare e Hugo, di Rembrandt e Bach, di Churchill e Wojtyla potrebbe esistere solo sui libri di storia e nei musei; oppure, peggio ancora, le vestigia dell’Europa cristiana potrebbero subire la stessa sorte delle statue dei grandi Budda dell’Afghanistan, demolite dai talebani.
In ogni caso, secondo Allan Carlson, l’attuale cultura materialista dell’Occidente non potrà durare a lungo. Esiste una legge ferrea della storia, secondo cui il futuro appartiene ai più fertili. Proprio come le tribù barbariche dei Germani incentrate sui clan familiari e ricche di figli spazzarono via il sensuale e sterile impero romano d’occidente, lo stesso faranno i “nuovi barbari” che premono alle porte. Gli europei secolarizzati che, per cercare una illimitata libertà individuale, hanno rigettato la propria eredità morale cristiana potrebbero ritrovarsi sotto il tallone repressivo del totalitarismo islamico: sarebbe l’ennesima eterogenesi dei fini a cui ci ha abituato la storia. Dopo le sciagure del XX secolo, si chiede in conclusione Ed Vitagliano, stiamo forse assistendo al castigo finale dell’Europa per la sua apostasia dal cristianesimo?
Cosa potrebbe causare un cataclisma del genere? Un’altra guerra mondiale? Un conflitto nucleare? Un’epidemia? Niente di così drammatico, dicono gli esperti. L’Europa sta suicidandosi lentamente, perché non rimpiazza con nuovi nati le persone che muoiono ogni anno. Il sociologo Ben Wattenberg, autore del libro “Fewer: How the New Demography of Depopulation Will Shape Our Future” ha osservato che, dai tempi della peste nera, mai in Europa i tassi di fertilità sono caduti così in basso, così rapidamente, così a lungo e così ovunque. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite dal 2000 al 2050 l’Europa, dall’Islanda alla Russia, vedrà la sua popolazione crollare da 728 milioni a 600 milioni, o forse a 556 milioni. Se queste tendenze continueranno ulteriormente, alla fine del secolo la popolazione europea si ridurrà a 207 milioni.
Qual’è la causa di questa debacle? Gene Edward Veith del “World Magazine” ha preso in considerazione alcuni fattori economici e culturali: “Da cosa nasce il calo della popolazione? Letteralmente, dal collasso mondiale dei valori familiari. Grazie alle tecnologie contraccettive, il sesso è stato separato dalla procreazione, e per molti uomini e donne la gravidanza è diventata uno spiacevole effetto collaterale, da prevenire con gli anticoncezionali o eliminare facilmente con un aborto. Il piccolo sporco segreto dell’implosione della popolazione, raramente menzionato dai demografi, è che il mondo sta abortendo le future generazioni”. Negli Stati Uniti da un terzo a un quinto delle gravidanze si concludono con un aborto, ma in alcune nazioni europee la situazione è ancor peggiore: in Russia gli aborti sono più numerosi delle nascite, e ogni donna ha in media quattro aborti nel corso della sua vita.
Tutto questo è sintomatico della mentalità edonistica dominante nel mondo occidentale, che Allan Carlson, presidente dell’Howard Center for Family, Religion, and Society, ha definito come “una completa filosofia del piacere”: “Ovunque nell’Unione Europea e nel mondo anglo-americano le attenzioni della gente si concentrano sui consumi, sulla libertà sessuale e sul divertimento. I giovani in età fertile ricorrono a congegni meccanici e ad agenti chimici per contrastare i disegni della natura. In luoghi così culturalmente diversi come la Spagna, l’Italia, la Danimarca e la Germania la sperimentazione sessuale inizia presto, ma raramente si conclude con un figlio”. Malgrado gli sforzi fatti dai governi di alcune nazioni europee per aumentare con sconti fiscali o sussidi il desiderio di maternità e paternità, pochi pensano che serviranno a convincere le coppie a tornare ad avere tre o quattro figli. Quasi nessun demografo crede che i tassi di natalità torneranno a crescere in maniera significativa.
L’aspetto paradossale della storia, osserva Vitagliano, è che il perseguimento del piacere e della ricchezza personale potrebbe condurre alla rovina economica. Infatti, se la popolazione attiva si riduce, chi produrrà in futuro i beni e i servizi che necessitano di capitale umano? Veith indica alcune conseguenze economiche del declino della popolazione: “Gli individui non sono solo consumatori ma produttori. La riduzione della popolazione può distruggere l’economia perché crea una scarsità di lavoratori. Un paese che perde abitanti avrà una minor forza militare e un minor numero di contribuenti. Il declino della popolazione è sempre stato un segnale di decadenza culturale, perché riduce la creatività, l’energia e la vitalità ad ogni livello della società”.
L’opinionista e critico culturale Don Feder, pur essendo ebreo, vede nell’abbandono del cristianesimo la causa profonda dei problemi demografici europei: “Non è un caso che il carattere centrale della Nuova Europa sia il rifiuto di riconoscere le proprie origini spirituali. La Costituzione Europea, un documento di oltre settemila parole, non contiene un solo riferimento al cristianesimo. In questo modo più di un millennio di storia viene di fatto cancellato”. L’abbandono del cristianesimo nella maggior parte dei paesi europei è ben documentato. In cinque paesi chiave dell’Europa (Francia, Belgio, Olanda, Germania e Italia) la percentuale della popolazione che frequenta regolarmente una chiesa è scesa negli ultimi trent’anni dal 40 al 20 per cento circa della popolazione. Feder crede che vi sia un evidente collegamento tra la mancanza di fede religiosa e la perdita di quell’interesse per il futuro, che spinge le persone a concepire e ad allevare un figlio: “Avendo perso la loro fede e abbracciato un’etica di autonomia radicale, gli Europei hanno smesso di andare in chiesa, di prendere la Bibbia sul serio, di credere nel futuro e di avere figli”. Aborto, controllo delle nascite, accettazione del matrimonio gay e promiscuità sessuale sono le nuove tendenze guida.
La prognosi è ancor più infausta a causa della soluzione rischiosa che molte nazioni europee hanno scelto per colmare i vuoti di popolazione: l’immigrazione. Dal Nord Africa e dal Medio Oriente, milioni di immigrati musulmani si sono riversati nel vecchio continente nell’ultimo mezzo secolo. Solo cinquant’anni fa gli islamici residenti in Europa erano 250.000, oggi sono venti milioni. Inoltre i musulmani, diversamente dagli occidentali, hanno famiglie numerose. La loro alta natalità, combinata all’immigrazione, porterà la popolazione musulmana in Europa a raddoppiare nel 2025. La demografia potrebbe quindi realizzare quello che non riuscì ai Mori e all’impero ottomano con le armi: un’Europa musulmana. I multiculturalisti vedono questo esito come un arricchimento. Il problema, tuttavia, è che l’islamizzazione dell’Europa produrrà una completa metamorfosi del continente. Una società non può diventare più islamica nei suoi caratteri demografici senza diventare tale anche nei suoi caratteri politici e culturali. Già oggi più del 60 per cento dei musulmani britannici desiderano vivere sotto la legge coranica, ed entro il 2050, prevede Mark Steyn, molte nazioni europee saranno costrette ad introdurre la sharia nella propria legislazione.
Forse all’inizio i governi europei cercheranno di resistere a queste richieste, ma la reazione potrebbe essere un’escalation di attentati e rivolte. Fra meno di cento anni l’Europa di Shakespeare e Hugo, di Rembrandt e Bach, di Churchill e Wojtyla potrebbe esistere solo sui libri di storia e nei musei; oppure, peggio ancora, le vestigia dell’Europa cristiana potrebbero subire la stessa sorte delle statue dei grandi Budda dell’Afghanistan, demolite dai talebani.
In ogni caso, secondo Allan Carlson, l’attuale cultura materialista dell’Occidente non potrà durare a lungo. Esiste una legge ferrea della storia, secondo cui il futuro appartiene ai più fertili. Proprio come le tribù barbariche dei Germani incentrate sui clan familiari e ricche di figli spazzarono via il sensuale e sterile impero romano d’occidente, lo stesso faranno i “nuovi barbari” che premono alle porte. Gli europei secolarizzati che, per cercare una illimitata libertà individuale, hanno rigettato la propria eredità morale cristiana potrebbero ritrovarsi sotto il tallone repressivo del totalitarismo islamico: sarebbe l’ennesima eterogenesi dei fini a cui ci ha abituato la storia. Dopo le sciagure del XX secolo, si chiede in conclusione Ed Vitagliano, stiamo forse assistendo al castigo finale dell’Europa per la sua apostasia dal cristianesimo?
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