28 settembre 2006

Chi sta morendo, l'Islam o l'Europa?

Chi sta morendo, l’islam o l’Europa, si chiede il direttore del Brussels Journal Paul Belien, in un articolo pubblicato il 20 settembre (”Is Islam Dying? Europe Certainly is”). Il professor Koenrad Elst, uno dei maggiori orientalisti belgi, ha infatti affermato che l’islam è in declino, e che il suo impressionante slancio demografico e militare rappresenterebbe solo l’ultimo colpo di coda. Elst riconosce tuttavia che questo declino può richiedere tempo per concretizzarsi, e che prima di collassare l’islam potrebbe diventare la religione di maggioranza in Europa.

A sostegno della tesi del prof. Elst si può forse sostenere che il modo ipersensibile con cui gli islamici hanno reagito furiosamente alle inoffensive vignette danesi e alle misurate parole del Papa Benedetto XVI rappresenta un segnale di agonia dell’islam. Se una persona è incapace di tollerare le critiche, comprese quelle più blande, e soprattutto se vede critiche dappertutto, anche dove non ce ne sono, questo è spesso un segno di profonda insicurezza psicologica. Le aggressioni brutali e le manifestazioni di rabbia incontenibile non sono certo comportamenti normali di una persona fiduciosa di sé; piuttosto, sembrano le reazioni di chi è consapevole di essere sconfitto dai ragionamenti a meno che non riesca ad intimidire l’interlocutore riducendolo al silenzio.

Domenica 13 settembre i fedeli cattolici inglesi, all’uscita dalla Messa celebrata alla Cattedrale di Westminister, sono stati circondati da musulmani cristofobici che urlavano e agitavano cartelli con scritto “Il Papa va all’inferno”, “Benedetto guardati le spalle”, “Possa Allah maledire il papa”, “Gesù è il servo di Allah”, “L’islam conquisterà Roma” e altre minacce del genere. Cosa si deve pensare di questi manifestanti musulmani? Sembrano forse persone sicure di sé?

L’impressione è che i musulmani non riescano ad adattarsi ad una società aperta e a un mondo globalizzato. In Europa, infatti, la cronaca registra un forte aumento di aggressioni, minacce e intimidazioni da parte di musulmani a propri correligionari, soprattutto donne, accusati di vivere all’occidentale. Il problema è se dobbiamo interpretare questa loro aggressività come una dimostrazione di forza o piuttosto come un segno di intrinseca debolezza, come suggerisce il prof. Elst. Secondo Paul Belien, se è plausibile che l’aggressività sia un modo per nascondere la debolezza e l’insicurezza dell’islam, il rifiuto dell’Occidente di contrastare i violenti e di proteggere le loro vittime è una prova di una debolezza ancor maggiore.

Si potrebbe ipotizzare che l’intolleranza dei musulmani radicali, perfino quando è rivolta contro i “nemici” occidentali (come il Papa o gli autori delle vignette danesi), sia principalmente intesa a intimidire e terrorizzare le persone che crescono in società e famiglie musulmane, allo scopo di prevenire la loro apostasia. La violenza degli islamisti potrebbe cioè avere come scopo quello di mostrare ai musulmani d’Europa in odor di apostasia che in nessun modo possono contare sull’aiuto e sul sostegno delle autorità dei paesi in cui vivono.

Può darsi, come dice il prof. Elst, che nella sua fase di declino l’islam sia comunque in grado di conquistare l’Europa entro la fine del XXI secolo, e in questo senso i cartelli mostrati a Westminister con la scritta “L’islam conquisterà Roma” potrebbero essere profetici. Se veramente questo succederà il merito non sarà della forza degli islamisti, ma della estrema debolezza degli europei. Se gli islamici islamizzeranno il vecchio continente senza incontrare ostacoli, gli unici responsabili saranno gli europei stessi. Il problema, scrive Paul Belien, è che il cristianesimo nell’Europa occidentale ha virtualmente cessato di esistere. Lo spirito del relativismo secolare nato dall’illuminismo francese ha persuaso l’Europa, comprese le sue chiese, a commettere un suicidio culturale che si sta consumando da due secoli. I sintomi di questo suicidio culturale dell’Europa sono stati il comunismo, il nazionalsocialismo e oggi il relativismo morale.

L’uomo, osserva Belien, è un essere religioso che ha bisogno di credere in qualcosa di trascendente. Se oggi le chiese cristiane fossero in piena salute e avessero conservato la fede di un tempo si sarebbero impegnate in un’intensa attività di proselitismo, e avrebbe cercato di raggiungere con zelo missionario i milioni di musulmani emigrati in Europa negli ultimi decenni. Avrebbero interpretato l’arrivo delle masse musulmane in Europa come un segno della provvidenza, e avrebbero cercato di offrirgli il messaggio cristiano.

Oggi invece le chiese cristiane, dominate dal progressismo, sono diventate i bastioni del relativismo religioso. Gli edifici cristiani vengono lasciati ai musulmani, perché li usino come moschee, mentre alcuni esponenti delle gerarchie cattoliche sono addirittura arrivati a dissuadere i musulmani che vogliono convertirsi al cristianesimo perché sarebbe “troppo pericoloso”: in questo modo abbandonando la stessa ragion d’essere della Chiesa e calpestando la memoria di tutti i martiri cristiani che nel corso dei secoli hanno sfidato enormi pericoli, e sono morti, per testimoniare la loro fede in Gesù Cristo. Per questo motivo, oggi l’Europa offre ai nuovi arrivati solo decadenza culturale, dalla quale gli immigrati vogliono proteggere i propri figli, e vuoto spirituale, che genera solo disprezzo.

Gli europei non hanno solo perso lo zelo missionario di convertire gli immigrati, ma anche lo zelo di trasmettere la propria eredità culturale ai propri discendenti. Ancora peggio, mancano della volontà stessa di avere discendenti. Rifiutandosi di procreare, gli europei - forse per punirsi da supposte colpe passate - stanno commettendo una sorta di autogenocidio che ha ben pochi paragoni nella storia. Poiché la demografia è la madre di tutte le politiche, osserva Belien, è praticamente certo che l’islam, salvo un miracolo, diventerà la religione dominante in Europa.

L’Europa deve ritrovare al più presto la volontà di sopravvivere, perché prima o poi la furia islamista si abbatterà sull’Europa e, come spesso ha fatto in passato, cercherà di cancellare ogni vestigia della cultura pre-islamica. Le cattedrali dell’Europa potrebbero seguire lo stesso destino dei grandi Buddha di Bamiyan, demolite dai talebani afghani. Le opere artistiche cristiane potrebbero essere distrutte, perché una fede che vieta la raffigurazione di figure umane considererà sicuramente oltraggiosa l’arte medievale europea, così come i nudi del Rinascimento. Forse, suggerisce Belien, è venuto il momento di pensare seriamente al modo di salvare il maggior numero di tesori culturali europei, spedendoli altrove prima che sia troppo tardi.

21 settembre 2006

Decreto Bersani: una foto da un Tribunale

Sta per terminare, nella protratta indifferenza dei media, un’altra settimana di astensione dalle udienze civili e penali degli avvocati italiani. L’iniziativa è stata proclamata dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura, nell’ambito della protesta dei liberi professionisti contro il decreto Bersani.

A differenza di quanto accaduto per la categoria dei tassisti, il suddetto ministro e con lui l’intero governo continuano a mostrarsi indifferenti e sordi rispetto alle ragioni dei professionisti.
Decisi ad insistere sul metodo del blitz, inaugurato con il predetto Decreto Legge, al Ministero dell’Economia non accettano nemmeno di aprire il solito tavolo di confronto, che di solito non si nega mai ad alcuna categoria. Alla faccia della concertazione.

Pare che le associazioni sindacali vicine al Governo – CGIL in testa – abbiano perentoriamente intimato ai loro avvocati di riferimento di non aderire all’astensione, in quanto la considerano un gesto di ostilità politica verso il Governo.
Per i sindacati confederali, evidentemente, non tutti gli scioperi sono sacrosanti. E nemmeno per i loro avvocati, che pare abbiano obbedito al diktat, senza guardare al fatto che la loro specifica missione sarebbe precisamente quella di difendere in giudizio i diritti sindacali dei lavoratori.

La rappresentante dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura – che martedì scorso era stata invitata a Ballarò per un confronto con il ministro Bersani – ha potuto parlare per meno di un minuto, ed è stata totalmente ignorata da quest’ultimo.
Dalla trasmissione di Floris, di solito così attenta alle ragioni delle varie categorie della società civile, c’era da aspettarselo.

Ma quello che un po’ ci sorprende è che – nonostante si sia ormai a due mesi dall’inizio dell’agitazione – nemmeno ci risulta che un qualsiasi telegiornale, sia Rai che Mediaset, abbia finora pensato di mandare una troupe in qualche ufficio giudiziario, per fare vedere da che cosa gli avvocati si stiano astenendo.

Forse nel periodo estivo, nonostante la tradizionale carenza di notizie, i direttori dei Tg trovano più interessante fare replicare i soliti servizi di costume sulle spiagge affollate.
E dire che l’amministrazione della giustizia è un servizio pubblico, che coinvolge gli interessi di milioni di cittadini.

Pertanto, nel nostro piccolo vorremmo cercare di rimediare a questa carenza, pubblicando qui sul Filo a Piombo una sola immagine, che proprio questa mattina è stata scattata dal sottoscritto, con il telefonino, in un Tribunale italiano.
Per spiegare le ragioni degli avvocati e anche – nel contempo – offrire un surrogato di informazione al pubblico su come oggi è amministrata la giustizia civile in Italia.

Il cartello che vedete a questo link è appeso da tempo sulla porta della stanza 211 del Tribunale Civile di Bologna, dove i giudici onorari tengono le udienze istruttorie.
Dette udienze sarebbero ovviamente di competenza dei magistrati di ruolo, che però già da qualche anno sostengono di essere troppo oberati di lavoro per svolgerle.

Quindi, ormai è di regola che esse vengano affidate ai predetti “onorari”, che nonostante il nome così pomposo vengono perlopiù reclutati tra giovanissimi neolaureati in giurisprudenza.
Per essi è un modo di esercitarsi per la futura carriera, guadagnando anche qualche soldino (nonostante il “blocco” operato dallo stesso decreto Bersani).
Così essi si trovano a fare, davanti ad avvocati veri ed in luogo dei veri magistrati, un lavoro che nonostante la routine può anche essere assai delicato, perché di fatto essi decidono su cause che possono valere centinaia di migliaia di euro. Il tutto senza avere – a volte nonostante vari tentativi falliti – né superato il concorso da magistrato, né ottenuta l’abilitazione da avvocato.

Dove si trovino fisicamente i magistrati di ruolo, per esercitare le loro funzioni più delicate ed importanti, mentre in Tribunale i loro surrogati onorari spesso occupano la loro stanza per smaltire le udienze, a volte è un mistero.

Comunque è bene che il popolo italiano sappia che, secondo il codice di procedura civile (art. 130 – art. 84 disp. att.), la verbalizzazione delle udienze civili – comprese le deposizioni dei testimoni – dovrebbe essere svolta dal cancelliere sotto la direzione del giudice.
Tuttavia, ormai da decenni le carenze di organico rendono impossibile la presenza di un cancelliere, o anche solo di un assistente giudiziario, durante le udienze.
Quindi tale pubblico servizio viene svolto ordinariamente – e gratuitamente – dagli avvocati.

Tant’è che questa mattina, quando è stata scattata la fotografia, la maggior parte delle verbalizzazioni relative alle udienze che si stavano tenendo dentro alla stanza 211 – sia pure solo per dare atto della protesta in corso – sono state effettuate da giovani avvocati, che sono in carriera da non più di tre o quattro anni.
Come la maggior parte, ormai, degli avvocati che ogni mattina si recano in Tribunale per le udienze: questa precisazione ha una sua importanza, in quanto il ministro Bersani ha dichiarato a Ballarò di aver ricevuto numerose lettere di ringraziamento proprio da parte dei giovani avvocati, che lo ringraziano per le nuove opportunità che avrebbe offerto loro.

Per finire – per comprendere ancora meglio l’immagine – ricordiamo che il decreto Bersani, nella sua parte fiscale, ha ulteriormente tagliato le spese per l’amministrazione della giustizia civile e penale. Però ha aumentato i fondi per lo spettacolo.

Crediamo che non ci sia bisogno di altri commenti.

18 settembre 2006

Ratzinger è solo. Noi siamo con la sua solitudine. C’è qualcun altro?

Quello di ieri, domenica 17 settembre 2006, è stato uno dei pomeriggi peggiori da molto tempo a questa parte per cattolici liberali e occidentali come noi. Mentre i telegiornali mandavano le poche immagini del funerale di Oriana Fallaci, morta solitaria nella sua città ostile – Firenze - e le disgustose bugie di Prodi a proposito della vicenda Telecom tenevano banco sulla stampa, a Mogadiscio moriva una suora italiana, suor Leonella. Nel momento in cui scriviamo si sa ancora poco di questo assassinio. Difficile, però, non collegarlo alle violenze anticristiane che nel mondo arabo sono rinfocolate dopo il discorso del Papa a Ratisbona dei giorni scorsi. Ratzinger, nel corso dell’Angelus della mattina, si era detto rammaricato per le reazioni rabbiose di molti esponenti islamici e per le conseguenze che quelle reazioni stavano provocando.

Poi le agenzie hanno cominciato a battere il commento della Fratellanza musulmana e quello del primo ministro palestinese Islaim Haniyeh, e tutto è precipitato. La prima si dichiarava soddisfatta per le “scuse” del Pontefice (quali, poi?), e tra quelle righe correva, non scritto e silenzioso come un serpente che si insinua nell’erba, l’ordine di “cessate il fuoco” ai propri soldati sparsi per tutto il Medio Oriente. Dopo pochi minuti giungeva la deplorazione dell’Autorità palestinese per gli attacchi alle chiese cristiane. E il cattolico – fieramente non adulto - che assisteva a questi eventi da qualche migliaio di chilometri di distanza non ha potuto far altro che trarre un sospiro di sollievo. Un sollievo però disperato, tragico, colmo di buio perché giungeva dai deserti culturali dell’Italia e dell’Europa. Da un Occidente che ancora una volta si era piegato al ricatto fondamentalista e terrorista, lasciando che fosse il solo Papa a vedersela con gli adoratori della morte.

Da ieri le istituzioni politiche dell’Europa e del resto del mondo libero non solo hanno offerto ancora più legittimità a organizzazioni contigue, se non addirittura complici, con chi punta al nostro sterminio. Ma per la prima volta hanno legittimato la guerra santa, un ossimoro così platealmente contro quello in cui abbiamo sempre creduto – o abbiamo pensato di aver creduto – da essercene addirittura scordati. Per viltà, ignavia, indifferenza e chissà cos’altro. Lasciando il dotto Ratzinger in balìa di lestofanti assetati di sangue, ignoranti e ingannatori delle coscienze altrui.

Noi siamo con Ratzinger, noi siamo con la sua solitudine che ci offre molto più riparo e ristoro dei silenzi vigliacchi di tanti cattolici adulti che ricoprono ruoli di ir-responsabilità. Un Papa, allora, che mentre interveniva in Germania rivolgendosi all’Occidente malato, che peraltro non ha ancora scoperto di esserlo, e pensava di parlare ad amici, veniva circondato da nemici mortali. Poi, quando si è guardato alle spalle, ha scoperto che quegli amici se l’erano data a gambe.

Insomma, 11 settembre 2001 e 17 settembre 2006: due date a loro modo coerenti. Tragicamente coerenti. Ma interessa a qualcuno?

17 settembre 2006

Aggressione al Papa: l'insostenibile silenzio dell'amministrazione Bush

Il Papa a Ratsibona ha parlato in difesa del logos. Ha difeso le ragioni della ragione.
Se il diapason della cultura occidentale ancora riuscisse a vibrare assieme al logos, che pure è il suono della sua migliore tradizione, allora i fatti accaduti in questi ultimi giorni sarebbero stati chiari ed univoci per tutti.

Eppure, appena è scoppiato il caso, sui nostri mass media così come nelle tribune privilegiate dei nostri intellettuali, e soprattutto nelle cancellerie dei governi di tutto il mondo, più che il logos l’hanno fatta subito da padrone l’opportunismo, la propaganda, il misconoscimento della realtà, e persino l’ignavia.

Benedetto XVI ha pronunciato un discorso di altissimo spessore, più rivolto all’Occidente che non al mondo maomettano. Le sue parole non erano intese a chiudere la porta in faccia all’Islam, se non altro perché non è mai stato possibile aprirgliela. Piuttosto, esse confutavano alcuni orientamenti teologici filoprotestanti ed irrazionalisti, che dal Vaticano II in poi hanno avuto notevole diffusione nel mondo cattolico.

Con il suo discorso il Papa ci ha ribadito che il cristianesimo è erede e continuatore della cultura ellenistica. Ci ha ricordato, assieme al Prologo di Giovanni, che Dio è il logos che si è fatto carne. Dio pensa razionalmente: pertanto la pretesa di imporre la Sua volontà con la violenza è contro Dio stesso, e quindi contro l’uomo, proprio in quanto è una scelta irrazionale.

Le agenzie di stampa occidentali hanno dato notizia della lezione di Ratisbona con la consueta superficialità, e si sono subito lasciate sedurre dall’ormai nota citazione di un imperatore bizantino del XIV secolo. In effetti – per il solo fatto di aver criticato Maometto senza aver distinto tra l’Islam estremista e quello moderato – la domanda di Manuele Paleologo, se isolata dal contesto, possedeva tutto l’irresistibile glamour della provocazione politicamente scorretta.

Il mondo islamico ha reagito nell’unico modo che sembra conoscere: prima ancora che un solo figlio di Allah avesse la possibilità (a prescindere dalla voglia e della capacità) di leggere il discorso del Papa, i fomentatori d’odio si sono buttati a pesce sulla ghiotta occasione di prendersela col bersaglio grosso. Le masse islamiche, che nella loro stragrande maggioranza non posseggono alcun strumento di interpretazione della realtà che non sia la tv satellitare e le prediche degli ulema, hanno cominciato a scaldarsi.

Oggi è giunta la notizia del probabile primo assassinio, che ha colpito una suora cattolica missionaria in Somalia, falciata alla schiena da una raffica di mitragliatore assieme alla sua guardia del corpo, pure deceduta (ma c’è nessuno che voglia entrare nel merito per chiedersi se ancor oggi, dopo più di seicento anni, sia poi davvero così sorpassato il Paleologo?).

Anche i capi di Stato di paesi islamici che credevamo moderati, e persino integrabili con l’Europa, hanno subito preso cappello chiedendo al Papa – con inaccettabile arroganza – smentite e scuse ufficiali. Quelle scuse che nessuno di loro ha mai presentato per le innumerevoli manifestazioni d’odio contro l’Occidente che ogni giorno avvengono nei loro paesi, anche perché nessuno si è mai azzardato a chiedergliele.

Gli esiti della vicenda, in definitiva, ci hanno confermato quel che già sapevamo, ma che nel mainstream dei ceti acculturati occidentali si continua a nascondere persino a se stessi.
Il presunto Islam moderato, impersonato da rarefatti e perseguitati circoli intellettuali che lo stesso mondo cattolico talvolta sembra incapace di riconoscere e selezionare, ha mostrato ancora una volta tutta la sua inconsistenza.

Nel contempo i nostri media laicisti, per non parlare di quelli filocomunisti, come al solito non si sono esentati dallo sputare voluttuosamente nel piatto delle libertà in cui mangiano.
Nel giorno della morte di Oriana Fallaci – quanto già ci manca! – essi hanno fatto a gara nell’inverare le sue denunce, dimostrando sempre di più di essere la quinta colonna culturale dell’aggressività islamica verso la nostra civiltà.
Come era prevedibile, “Repubblica” e gli altri giornali del conformismo laicista non hanno perso l’occasione di prendere le parti degli imam e delle folle islamiche, mettendo “i loro sentimenti offesi” al di sopra di tutto.

Certi giornalisti nostrani hanno colto al volo il pretesto per trattare il Papa come un Berlusconi qualsiasi: come un avversario da sbertucciare, con la solita tattica di travisarlo ad arte per costringerlo a rettificare, in modo da farlo passare per uno che non è all’altezza del ruolo, e non sapendo mai cosa sia il caso di dire, deve continuamente scusarsi delle sue gaffes.
Insomma, è stato il solito trionfo delle illusioni dialettiche, del sensazionalismo e dell’irrazionalità. La solita rivolta del pensiero debole contro le ragioni del logos, che come un gigante disarmato del nostro tempo il Papa ha cercato di riaffermare nel discorso di Regensburg.

Grazie anche all’ignobile sponda d’oltreoceano, offerta dai liberal del New York Times, ancora una volta l’irrazionalità e la frustrazione di masse fanatizzate ed ignoranti sono state messe al di sopra delle nostre ragioni. Anzi, al di sopra della ragione. I sentimenti dell’Islam ancora una volta hanno vinto la partita contro le ragioni dell’Occidente, nonostante giocassero in trasferta (ma fino a che punto?).

Tuttavia, nella vicenda abbiamo assistito a un particolare imprevisto, che ci addolora più di ogni altro: tutto lo scenario è stato sovrastato da un silenzio assordante, che secondo noi pesa più di ogni altro fattore.
Possibile che l’amministrazione degli Stati Uniti non abbia avuto nulla da dire? Possibile che colui che si propone come la guida del mondo libero contro l’oscurantismo dei terroristi, non abbia trovato ancora nulla da dichiarare in difesa del maggiore capo spirituale dell’Occidente?

Eppure, Benedetto XVI è stato aggredito dagli stessi nemici degli Stati Uniti, per aver difeso – assieme a quelle del logos – proprio le ragioni di libertà e di democrazia su cui dovrebbe fondarsi tutto lo spirito civico americano, e in particolare la dottrina di George W. Bush.

I soliti machiavellici hanno azzardato che forse non si è voluto dare l’idea dell’esistenza di un asse antiislamico tra Usa, Gran Bretagna e la Chiesa di Roma, come al solito mostrando una certa sudditanza verso i sentimenti delle folle maomettane, come se queste ultime avessero una qualche indipendenza di giudizio.
C’è anche chi ha proposto spiegazioni tattiche, come l’esigenza di non pregiudicare la partita con l’Iran riguardo al nucleare, e non aprire un nuovo fronte proprio ora che si sta cercando di comporre (o meglio di scaricare sulle spalle di un’Europa ambigua e velleitaria) la crisi nel Libano.

Ma noi pensiamo che gli ideali, o almeno le idee di fondo, abbiano ancora un peso decisivo nel dirigere le scelte dei governanti. Per questo non ci accontentiamo del tutto di queste spiegazioni: d’altronde ci sarebbero stati molti modi di intervenire in difesa di Benedetto XVI, e con lui della nostra libertà di pensiero, senza dichiarare lo scontro frontale con l’Islam.

Pertanto, non possiamo esimerci da pensare che dietro il silenzio di Bush e di Blair vi sia l’ombra di antichi pregiudizi anglosassoni verso la cattolicità. Su un piano più immediato, non ci sentiamo di escludere una meschina, forse inconsapevole, voglia di rivincita per la freddezza mostrata da Giovanni Paolo II nei confronti della dottrina Bush e della guerra in Iraq. Quest’ultimo sarebbe il risvolto più grave, perché starebbe a significare anche l’incapacità di comprendere la novità rappresentata dal pontificato di Benedetto XVI.

Non si può parlare di un cambio di rotta rispetto all’ecumenismo del suo predecessore, come vorrebbero certuni, tuttavia le prime manifestazioni del magistero di Papa Ratzinger – con i suoi continui richiami al logos e al rapporto tra cristianesimo ed ellenismo – rappresentano una svolta sul piano teologico.

Non si può pensare che a Ratisbona abbia parlato solo l’emerito professore di teologia, ingenuo ed inconsapevole della portata politica delle sue affermazioni: papa Ratzinger è perfettamente consapevole di come le grandi sfide politiche della nostra era abbiano alla base, nello stesso tempo, anche ragioni teologiche e filosofiche.

Sono diverse visioni del mondo quelle che si stanno scontrando sulla scena internazionale, e le colleriche ed inaccettabili reazioni dei governi islamici ci hanno dimostrato che la loro sostanziale irriducibilità rispetto ai caposaldi della civiltà occidentale è ancora quasi intatta.
Per questo il richiamo del Papa alla ragionevolezza di Dio, quale principio generatore del logos sul quale devono fondarsi anche le scelte degli uomini, a nostro parere conteneva anche – seppure indirettamente – una scelta di campo politica.

Pensare il contrario vorrebbe dire rimanere ancorati a quella concezione irrazionalista della fede, che cerca di mantenere la sfera del divino in una posizione del tutto estranea alla costruzione della città degli uomini. Proprio quella contro la quale ha parlato Benedetto XVI a Regensburg, con un discorso che tutto sommato era rivolto all’Occidente più che all’Islam.

Secondo noi, il fatto che alla Casa Bianca questo non lo abbiano compreso, o lo abbiano sottovalutato, rappresenta una occasione perduta per tutti gli uomini che credono nella libertà, e nel ruolo centrale che insieme dovrebbero avere gli Stati Uniti e la Santa Sede – i primi sul piano geopolitico, la seconda sul piano morale – nel difenderne le ragioni.

14 settembre 2006

Un congresso per rilanciare la famiglia

La bomba della sovrappopolazione annunciata dai neomaltusiani alla Paul Ehrlich (e dai suoi emuli italiani, come Giovanni Sartori o Luigi De Marchi) si è dimostrata un falso problema. Nel mondo la fertilità si è dimezzata rispetto agli anni Settanta, e in ben 59 nazioni, che compongono il 44 per cento della popolazione mondiale, i tassi di natalità sono inferiori a quelli necessari per il ricambio generazionale.

L’Europa, che si trova da venticinque anni in questa situazione, vede profilarsi davanti a sé un futuro di spopolamento e invecchiamento: secondo le proiezioni demografiche il vecchio continente è destinato a perdere cento milioni di abitanti da qui alla metà del secolo; nello stesso periodo le persone sopra i sessantacinque anni, che oggi rappresentano un sesto del totale, diventeranno un quarto nel 2030 e addirittura un terzo nel 2050. In Russia la popolazione ha già iniziato a scendere di settecentomila persone l’anno, e di questo passo alla metà del secolo avrà perso un terzo dei suoi cittadini, riducendosi a 146 milioni di abitanti.

Per fronteggiare il problema il presidente Putin ha deciso una serie di misure a favore della natalità, che comprendono un sussidio di circa 110 dollari mensili per ogni secondo figlio e un pagamento diretto di 9000 dollari alle famiglie che hanno già due figli, mentre le madri che decidono di stare a casa avranno diritto al 40 per cento del loro precedente salario.

È improbabile, tuttavia, che queste misure sortiscano gli effetti desiderati, perché la denatalità sembra avere cause culturali più che economiche. Secondo l’analisi del prof. Allan Carlson, presidente dell’Howard Center for Family, Religion, and Society, il calo della popolazione è una conseguenza del collasso mondiale dei valori familiari. Negli ultimi decenni, prima in Occidente e poi in altre parti del mondo, ha preso il sopravvento un’etica che celebra la soddisfazione edonistica dei desideri individuali, il controllo delle nascite, la contraccezione, l’aborto e la promiscuità sessuale; e che degrada il valore del matrimonio, della procreazione e del ruolo del padre e della madre.

Anche la secolarizzazione ha contribuito a questo trend denatalista, dato che le statistiche dimostrano che le persone religiose (cattolici praticanti, cristiani evangelici, mormoni, ebrei ortodossi) tendono a formare famiglie più numerose: negli Stati Uniti, dove i tassi di natalità sono vicini a 2,1 figli per donna, il 30-40 per cento della popolazione frequenta la messa domenicale, contro il 5 per cento della sterile Europa occidentale. Lo stesso Papa Benedetto XVI, nel recente incontro con la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ha imputato il calo delle nascite alla diffusione delle visioni materialistiche dell’universo, della vita e dell’uomo.

Per rinvigorire la funzione della famiglia naturale i leader del Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families), di cui Allan Carlson è fondatore, sta preparando un grande incontro che si svolgerà a Varsavia dall’11 al 13 maggio del 2007. Il Congresso Mondiale delle Famiglie riunisce una rete internazionale di organizzazioni, attivisti, studiosi e parlamentari che si impegnano a restaurare la centralità della famiglia naturale, diffondendo un messaggio basato sull’importanza del matrimonio, sulla fecondità come espressione di amore e speranza nel futuro, sulle famiglie numerose come benedizione per la società. Affermando che “la famiglia naturale è la primavera delle nazioni”, gli organizzatori intendono offrire una speranza di disgelo dell’inverno demografico che attanaglia il vecchio continente.

Il Congresso Mondiale delle Famiglie ha fatto rapidi progressi. Nei tre incontri precedenti, a Praga nel 1997, a Ginevra nel 1999 e a Città del Messico nel 2004, la partecipazione è sempre raddoppiata rispetto a quello precedente: nell’ultima occasione erano presenti oltre 3.300 delegati provenienti da 70 paesi. La scelta della sede per il prossimo congresso è caduta sulla Polonia perché questo paese, che ha sperimentato l’oppressione di entrambi i totalitarismi (nazista e comunista), ha prodotto numerosi intellettuali difensori della famiglia, a partire da Giovanni Paolo II. La Polonia rappresenta ancora oggi un’oasi favorevole ai valori familiari in un deserto di euro-correttezza politica in cui si promuovono la contraccezione e le unioni alternative. Le autorità politiche e religiose polacche hanno dato infatti pieno sostegno all’iniziativa.

Il congresso si svolgerà nel più alto edificio di Varsavia, il Palazzo della Cultura e della Scienza fatto costruire da Stalin, che per quarant’anni è stato sede del Partito Comunista Polacco. L’anno prossimo, però, da quelle sale riecheggerà uno slogan molto diverso da quello di un tempo: “Famiglie di tutto il mondo unitevi! Non avete niente da perdere se non le imposizioni ideologiche degli utopisti sociali”.

(Guglielmo Piombini - Svipop)

13 settembre 2006

Nuovo statuto e congressi: Forza Italia entra nella pubertà

In alto i cuori. Sotto riportiamo la notizia, comparsa sul sito di Forza Italia, che militanti e dirigenti si aspettavano di sentire a Gubbio ma che a Gubbio non si era udita. Berlusconi riconosce l’esistenza di due nodi: il movimento non è radicato sul territorio e manca di una “struttura democratica e collegiale”. Dunque sono necessari statuto e regolamenti per lo svolgimento dei congressi comunali e provinciali. Insomma, anche se il segnale è un po’ tardivo, alla fine è arrivato. Berlusconi sembra essersi convinto che Forza Italia ha il diritto e il dovere di sopravvivere a se stesso. E per farlo deve uscire gradualmente dalla sua ombra. Gradualmente. Un Berlusconi che responsabilizza la sua creatura, la toglie dalla bambagia e la fa entrare nella pubertà, è un Berlusconi che cancella quella sensazione di smobilitazione che cominciava a insinuarsi nella base. Ora si vedrà su quali uomini e donne il movimento può contare a livello territoriale. Siamo soddisfatti. Per il momento.
Intanto, ecco il testo integrale del comunicato.



BERLUSCONI: ENTRO NOVEMBRE NUOVO STATUTO DI FORZA ITALIA

Il Presidente di Forza Italia, Onorevole Silvio Berlusconi, ha incaricato il
coordinatore nazionale, on. Sandro Bondi, di costituire un gruppo di lavoro
per la revisione dello Statuto di Forza Italia, con l’obiettivo di dotare
Forza Italia di una organizzazione ancora più radicata sul territorio e di
una struttura interna ancora più democratica e collegiale. La nuova bozza di
Statuto sarà sottoposta all’esame del Presidente Silvio Berlusconi e portata
entro il mese di Novembre alla discussione e all’approvazione del Consiglio
Nazionale, insieme al nuovo regolamento per lo svolgimento dei congressi
comunali e provinciali.

11 settembre 2006

Violenza contro le donne: il “caso Bologna” e gli imbarazzi dei Ds

A Bologna, negli ultimi mesi, sono aumentati con ritmo esponenziale i fatti di violenza contro le donne. Gran parte di questi hanno trovato come scenario l’intimità della famiglia, in particolare musulmana. Ma non sono mancate le aggressioni di stampo sessuale. Pochi giorni fa, poi, in rapida successione sono state ferocemente malmenate una coppia gay e una ragazza mentre di notte si stava dirigendo verso la propria auto. La reazione della giunta comunale, guidata dal sindaco Sergio Cofferati, è stata dapprima quella di accapigliarsi se si trattasse di un problema solo “culturale” o se fosse necessaria maggiore repressione. E in seguito quella di inoculare forti dosi di sedativo a una opinione pubblica ovviamente spaventata sostenendo che i numeri non farebbero pensare a una reale emergenza.

Nel frattempo, respinto Milano come esempio da seguire, si metterà a punto qualche contromisura. In settimana, forse, se ne saprà qualcosa di più. Addirittura l’assessore agli Affari Sociali del Comune, Milli Virgilio, è arrivata a dichiarare che “gli articoli di stampa non hanno giovato”, e la responsabile regionale ds delle donne, Gabriella Ercolini, interpellata da un quotidiano locale, non ha trovato di meglio da dire che lei “fa politica e le soluzioni spettano a chi amministra”. Peccato che la Ercolini abbia ricoperto per lunghi anni l’incarico di sindaco di un importante centro dell’hinterland bolognese. La sensazione, insomma, è che la sinistra si sia fatta trovare totalmente impreparata di fronte a un fenomeno che è esploso con virulenza.

Perché è successo? Quali sono le ragioni del sostanziale mutismo e immobilismo dell’oliato apparato di governo diessino? Gli elementi da considerare sono almeno tre. Il primo è il più noto di tutti. Quando si tratta di analizzare il nodo dell’integrazione di immigrati di religione musulmana, il polveroso ideologismo di sinistra per il quale il povero extracomunitario islamico è da considerare buono per definizione e la società occidentale che lo accoglie cattiva altrettanto per definizione, ha inquinato non poco la capacità degli amministratori locali di guardare al problema senza paraocchi politici. Imbarazzi che si moltiplicano se a farne le spese sono le donne, anche musulmane, i cui diritti rappresentano da sempre una delle bandiere dell’impegno “progressista”. La difesa a oltranza dell’immigrato musulmano, in pratica, non regge più.

Un secondo aspetto va ancora più in là. In Emilia-Romagna, la sinistra governa senza soluzione di continuità (Guazzaloca, a Bologna, è stato solo una parentesi) da più di mezzo secolo. Ma fino agli inizi degli anni Settanta esisteva nelle sue fila una conoscenza approfondita del territorio. Con esso l’amministratore comunista manteneva un rapporto fisico, vero, solidale. Legame che con gli anni è venuto meno in quanto a prevalere sono stati gli interessi economici di chi veniva cooptato nei salotti buoni. Si è cominciato a gestire il potere per il potere, supponendo che questo bastasse a mantenere il consenso. E in effetti è bastato. Un ingranaggio che funziona alla perfezione se resta all’interno di confini culturali tradizionali. Laddove, però, irrompe un fenomeno “extraterritoriale” come l’immigrazione da paesi lontani anni luce dalle nostre tradizioni e dal nostro modo di vivere, ecco emergere tutti i dilettantismi e i provincialismi di una classe politica da condominio.

Ed è questo l’ultimo aspetto che si staglia sull’orizzonte del’Emilia rossa: la qualità media dell’amministratore locale di sinistra bolognese, ed emiliano-romagnolo in generale, è diminuita in modo drastico. E’ un amministratore che tira a campare, che tiene lo sguardo basso perché non sarebbe in grado di alzarlo e ragionare in prospettiva. Un amministratore che, quasi sempre, conta molto poco nella raccolta del consenso, che invece passa sulla sua testa e lo benedice a prescindere dai suoi meriti. E’ sulla questione dell’immigrazione che a Bologna si comprende come l’ultradecennale permanenza al potere del medesimo partito su un determinato territorio appanni in modo grave – e forse letale – la capacità di una classe politica di trovare risposte decenti alle sfide di oggi. E la sfida che ci lancia l’Islam non è propriamente di quelle da affrontare in modo distratto.