30 dicembre 2006
Claire Berlinski e l'Europa suicida
Mentre le librerie europee continuano ad essere sommerse di libri e pamphlet antiamericani, negli Stati Uniti la situazione è opposta. Di libri esplicitamente antieuropei se ne trovano pochi, ma abbonda una pubblicistica liberal, capeggiata da Paul Krugman e Jeremy Rifkin, che propone il modello sociale europeo come un esempio per l’America.
Negli ultimi tempi si sta però sviluppando un filone di studi, di orientamento conservatore, che guarda con preoccupazione alle tendenze culturali, economiche e demografiche in atto in Europa. Senza alcun compiacimento, un numero crescente di osservatori d’oltreoceano vede nel declino della pratica religiosa e nel prolungato calo delle nascite i sintomi di una grave crisi spirituale, che potrebbe mettere a rischio l’identità cristiana e occidentale del vecchio continente.
Il timore che l’Europa si trasformi, prima della fine del secolo, in un continente a prevalenza musulmana ostile agli Stati Uniti viene espresso in una serie di libri usciti recentemente nelle librerie americane, come The Cube and the Cathedral di George Weigel (tradotto in Italia dall’editore Rubbettino), The West’s Last Chance di Tony Blankley (prossimamente tradotto da Rubbettino), While Europe Slept di Bruce Bawer, America Alone di Mark Steyn, e Menace in Europe. Why the Continent’s Crisis is America’s, too di Claire Berlinski, pubblicato dalla casa editrice Crown Forum di New York.
Il libro della Berlinski, giornalista americana di origine ebraica che scrive sul New York Times e sul Washington Post, ma che vive fra Parigi e Istambul, offre un’interessante analisi della pericolosa spirale suicida che ha imboccato il vecchio continente.
L’economia europea, si legge in Menace in Europe, è paralizzata da un eccesso di socialismo, e ogni tentativo di riforma viene bloccato da scioperi e dimostrazioni di piazza. L’Europa vede inoltre diminuire e invecchiare rapidamente i suoi abitanti, ma a differenza degli Stati Uniti non riesce ad integrare i numerosi immigrati musulmani, che tendono facilmente a radicalizzare la propria identità religiosa.
Le cellule legate ad Al Qaeda si sono stabilmente insediate in molte città europee, mentre in Spagna è bastato un attentato terroristico compiuto al momento giusto per determinare la completa capitolazione alle richieste degli attentatori. In Olanda i politici e gli artisti che hanno avuto il coraggio di parlare apertamente del problema islamico sono stati assassinati, e altri sono costretti a vivere sotto protezione.
In Francia le periferie abitate dagli immigrati musulmani sono diventate delle polveriere pronte ad esplodere. L’antiamericanismo è diventato un fenomeno di massa, e anche l’antisemitismo è in aumento. Non è questa, scrive la Berlinski, l’Europa che noi americani conoscevamo. Cosa è successo allora?
Secondo l’autrice, che pure si considera un’ebrea laica, esiste una stretta relazione tra la demoralizzazione degli europei e la scomparsa quasi completa del cristianesimo. La vera anomalia, infatti, non è la religiosità degli americani, ma l’ateismo degli europei: in Olanda un terzo degli intervistati non conosce la ragione per cui si celebra il Natale; in molti paesi europei non più del cinque per cento della popolazione assiste alla messa domenicale; in Inghilterra i musulmani che frequentano le moschee sono più numerosi degli anglicani praticanti.
Negli ultimi due secoli gli europei hanno cercato un sostituto della fede cristiana nelle nuove ideologie scientiste, nazionaliste o socialiste. Gli avvenimenti catastrofici del Novecento hanno però screditato anche queste credenze secolari, aprendo così una voragine di vuoto esistenziale.
In un sondaggio svolto nel 2002, il 61 per cento degli americani si è dichiarato fiducioso nel futuro, contro il 42 per cento degli inglesi, il 29 per cento dei francesi e il 15 per cento dei tedeschi. In Europa il suicidio è oggi la seconda causa di morte tra i giovani e le persone di mezza età, subito dopo gli incidenti stradali, mentre negli USA i tassi di suicidio sono la metà di quelli francesi, e rappresentano solo l’ottava causa di morte. Nel mondo musulmano, malgrado il fenomeno dei kamikaze, il numero dei suicidi è ancora più basso. Queste statistiche segnalano, secondo la Berlinski, il dilagante nichilismo autodistruttivo che ha pervaso le società europee.
Dopo aver assistito alla caduta di un ideale dopo l’altro, di un dio fallito dopo l'altro - le ideologie - oggi gli europei non riescono a trovare più nulla, nella propria storia, che meriti di essere conservato e tramandato alle future generazioni.
Per questo non reagiscono neanche quando i fondamentalisti islamici calpestano apertamente e con disprezzo quei valori di libertà e tolleranza che, a parole, dichiarano ancora di professare.
Sembra quasi che, dopo gli sconvolgimenti del XX secolo, gli europei non ne vogliano più sapere di sacrificare il benessere materiale presente per qualcosa di incerto o di futuro, come la salvezza eterna di cui parlano le fedi o, più mondanamente, la sopravvivenza della propria identità culturale o la vita delle prossime generazioni. In Italia, ha notato l’autrice intervistando un buon numero di uomini e donne, nessuno sembra preoccuparsi della denatalità e della possibile estinzione degli italiani.
“Non profetizzo - dice la Berlinski - il crollo imminente delle istituzioni democratiche europee o una catastrofe imminente sul suolo europeo, ma non escludo neanche queste possibilità. I sistemi assistenziali europei collasseranno. La sua demografia cambierà. L’Unione Europea potrebbe disfarsi. I terroristi islamici potrebbero riuscire a distruggere una città europea. Non sappiamo quali saranno le conseguenze di questi eventi, ma è ragionevole immaginare anche uno scenario terribile. Ancora una volta, le uniche persone che si sorprenderanno sono quelle che non prestano attenzione a quanto accade intorno”.
Guglielmo Piombini
(Il Domenicale, 30 dicembre 2006)
27 dicembre 2006
Welby: i moralisti del perdono prepagato
Oltre alla evidente strumentalizzazione della tragedia personale di un uomo, ci ha disturbati un certo modo di pensare, diffuso anche fuori dai soliti ambienti dei militanti di sinistra, che la vicenda ha portato alla luce. Un atteggiamento moralistico fondato sulla sostanziale ignoranza di alcuni principi di civiltà, che a nostro parere presenta anche qualche aspetto di slealtà e vigliaccheria.
Per questo, non intendiamo associarci al coro politicamente corretto di coloro che – dopo un’eventuale presa di distanza dagli eccessi mediatici – finiscono per riconoscere che comunque il caso Welby avrebbe sollevato un problema reale che meriterebbe attenzione da parte del legislatore, in quanto potrebbero esserci dei diritti negati, e via discorrendo.
Perché proprio qui sta l’inganno, nel quale l’opinione pubblica è caduta già diverse volte. Una vera e propria trappola dialettica, che oggi potrebbe essere riproposta con successo non solo sull’eutanasia, ma anche su argomenti come la disciplina delle coppie di fatto e del cosiddetto “matrimonio gay”.
Tant’è che molti ci stanno cascando anche nelle file dell’opposizione, primo tra tutti (ma non inatteso) l’ineffabile Gianfranco Fini, che con l’intervista natalizia all’Espresso ha nuovamente prevenuto il suo partito nella smania di adeguarsi al mainstream del riformismo laicista.
Fin dagli anni sessanta, le battaglie dei seguaci di Pannella hanno sempre mirato a trasportare in politica gli aspetti più privati – e persino più intimi – della vita delle persone.
Al fine di ottenere leggi che avrebbero cambiato la vita di tutti, e nel giro di pochi anni sarebbero arrivate a scuotere le strutture fondamentali della società, i radicali hanno sempre puntato su casi umani che riguardavano solo alcuni. Il più delle volte esagerandone e travisandone la portata, e a volte persino contraffacendo le statistiche sulla loro diffusione.
Iniziarono con la battaglia per il divorzio, evocando le situazioni estreme di singole persone che – a causa del legame che le vincolava a matrimoni sciagurati – si trovavano nell’impossibilità di recuperare un minimo di sicurezza di vita, per se stesse e per i propri figli.
Senza troppi scrupoli, già allora utilizzarono a mani basse la compassione che suscitavano quelle singole esperienze, al fine di presentare il divorzio come una conquista di civiltà, che avrebbe dovuto fare uscire l’Italia dall’arretratezza culturale.
Proprio dall’insistenza su quei casi particolari è partito il cammino legislativo che ci ha portati alle separazioni coniugali di massa dei nostri giorni, che ormai nella maggioranza dei casi vengono pronunciate su semplice richiesta di uno o entrambi gli interessati, senza che sia più necessaria alcuna motivazione né giustificazione.
Con la conseguente diffusione di drammi altrettanto gravi (si pensi solo ai ricorrenti fatti di sangue collegati alle battaglie per l’affidamento dei figli, o alle odissee dei padri separati), e di oceani di infelicità che ormai riguardano milioni di persone, i cui casi personali vengono però assai meno evocati in politica.
Anche per ottenere l’aborto di Stato, negli anni settanta i radicali presero a denunciare in ogni occasione utile i drammi personali delle ragazze-madri disagiate, delle donne violentate, e di quelle in attesa di bambini malformati. Ed esagerarono oltre ogni limite di decenza – con la compiacenza dei grandi giornali e di tutti gli intellettuali di sinistra – le statistiche sulla diffusione degli aborti clandestini.
Tempo fa sul “Foglio” è apparso un articolo di Francesco Agnoli che, andando a riguardare certe ricerche ampiamente strombazzate dalla grande stampa, nei mesi che precedettero l’approvazione della legge 194, ha dimostrato – annuario Istat alla mano – che per rendere attendibili quei numeri sulla diffusione sull’aborto clandestino avrebbe dovuto avervi fatto ricorso, almeno una volta nella vita, la totalità della popolazione femminile in età fertile, a partire dalle ragazzine delle scuole medie fino alle attempate madri di famiglia.
Inoltre, chiunque abbia l’età non può avere dimenticato come il fronte abortista fosse assai assiduo nell’evocare i particolari truculenti – dai decotti di prezzemolo ai ferri da calza – che avrebbero fatto da contorno alla piaga dell’aborto clandestino.
Salvo poi accusare di terrorismo psicologico coloro che facevano conoscere al pubblico la verità sulle tecniche abortive utilizzate negli ospedali, e sul grado di sviluppo dei feti già nelle prime settimane di gravidanza.
Anche nel caso dell’aborto – come oggi si è fatto con l’eutanasia – si era dunque partiti così, con il racconto di singole storie drammatiche che a detta dei radicali solo una legge pietosa avrebbe potuto eliminare, intervenendo come una sorta di male minore.
Per poi arrivare alle decine di migliaia di interruzioni di gravidanza libere e gratuite, che ai nostri giorni si praticano ogni anno nelle strutture pubbliche. Il più delle volte, come sostengono le poche ricerche che (nel disinteresse della politica) sono state effettuate sul tema, senza che alle spalle delle donne interessate vi sia alcun autentico dramma di solitudine, malattia o miseria. E comunque senza alcun preventivo controllo sul reale pericolo per la loro salute psico-fisica, come invece sarebbe tuttora previsto dalla legge 194.
Una tattica del genere - ma rovesciata, in quanto stavolta si è partiti dai casi meno gravi per fare abrogare la disciplina legislativa di quelli più seri - è stata attuata anche nella polemica contro
La quale, puntualmente, è stata appena depotenziata da parte del ministro Livia Turco: per ottenere misure meno restrittive sul consumo di cannabis ed altre droghe leggere, i radicali avevano più volte denunciato che i nostri ragazzi avrebbero potuto essere arrestati e rovinati per la vita, anche solo se trovati in possesso di un paio di “canne”.
Ipotesi spudoratamente falsa, ma sufficiente per mettere in allarme sia i genitori più permissivi che quelli più timorosi di non sapere controllare le abitudini dei figli.
Negli ultimi anni, le battaglie radicali si sono fatte più peculiari, e quindi i casi umani da sfruttare sono divenuti statisticamente più rari.
L’obiettivo però è tuttora quello di fare avanzare sempre di più l’insindacabilità e la tutela pubblica dei desideri privati, per quanto gli stessi possano attentare da vicino ai fondamenti della civiltà.
Ma per fortuna, oggi è più difficile che questa ribellione dei desideri possa essere presentata già in partenza come una esigenza di massa.
Per quanto riguarda le scelte di vita, è ancora possibile esagerare le statistiche, come avviene per quelle sulla diffusione delle coppie di fatto ed omosessuali.
Anche se - per dirla tutta - il fronte laicista non ha motivo di preoccuparsi più di tanto delle prime verifiche statistiche sull’andamento dei Pacs in Francia e delle “nozze omosex” nella Spagna di Zapatero, che dimostrano quanto in realtà per la popolazione fossero poco urgenti simili innovazioni.
Infatti, non a caso, le poche inchieste al riguardo si possono leggere su Internet e sulle testate cattoliche, ma non le si ritrovano mai nelle corrispondenze della grande stampa e dei telegiornali.
Tuttavia, quando invece si tratta di scelte di morte, anche per i radicali è diventato arduo inventarsi esigenze diffuse in tale senso, e casistiche ampie alle quali appoggiarsi.
Cosicché da ultimo – poco più di due anni fa – per affermare i loro principi sempre più individualisti i radicali sono passati ad utilizzare la malattia di singoli militanti.
Per sostenere il referendum sulla manipolazione genetica e la soppressione degli embrioni umani (cd. fecondazione assistita), hanno costruito una battaglia attorno alla storia di Luca Coscioni. Un uomo che nessun plausibile programma di ricerca sulle staminali embrioniali avrebbe mai potuto aiutare a guarire dalla sua malattia, ma che è stato trasformato in un simbolo di speranze negate.
E ora, con la recente drammatica vicenda di Piergiorgio Welby, si è passati alla battaglia per l’eutanasia.
Lo schema però è lo stesso: si parte da casi singoli, assai peculiari e drammatici, per suscitare la compassione dell’opinione pubblica, alla quale viene fatto ritenere di essere in presenza di un problema che riguarderebbe molte migliaia di persone e che solo una legge potrebbe risolvere.
La stampa e la Tv rilanciano volentieri simili storie, che in effetti, visto che nessuno di noi è immune dal rischio di vivere, possono capitare a chiunque e quindi suscitano nel pubblico un naturale senso di compassione. Sottacendo però il fatto che i politici del fronte avverso – per quanto meno abili e spregiudicati – non avrebbero mai avuto alcun problema nell’individuare testimonianze contrarie di altre singole persone, affette dalle medesime patologie, ma di opinione diametralmente opposta a quella di militanti come Coscioni o Welby.
Tuttavia, fin qui si tratta pur sempre di tattiche propagandistiche, che per quanto assai scorrette meriterebbero solo risposte politiche, se non altro per essere smascherate.
Ma sul piano etico, come dicevamo all’inizio, quel che invece non si può tollerare è l’atteggiamento mostrato da tante persone comuni, in genere nemmeno militanti di sinistra, riguardo agli argomenti moralistici montati dai radicali attorno a vicende come quella di Welby.
In quest’ultimo caso, come già era avvenuto per le istanze di Luca Coscioni, troppi cittadini – caduti a capofitto nella trappola mediatica – hanno ritenuto che fosse naturale sventolare il dito contro la Chiesa Cattolica e contro chiunque avesse obiezioni da porre.
Con la questione dei funerali religiosi non concessi a Welby, da parte di una canea di persone si è giunti persino ad invocare vergogna sulla Chiesa.
Non tanto per la sua inflessibile difesa delle ragioni della vita fino al “tramonto naturale”, come ha appena ricordato Papa Ratzinger, ma soprattutto per un’asserita mancanza di pietà.
Ed è qui, secondo noi, che si rivela quanto su certi argomenti sia diffusa non solo l’ignoranza, ma anche la slealtà e la vigliaccheria.
Certo, si tratta anche e soprattutto di ignoranza. L’imponenza della quale può conferire qualcosa di sublime persino al ridicolo, come a suo tempo scrisse Montanelli evocando l’immagine del culo dell’elefante.
In occasione della lezione di Ratisbona che tanto ha fatto arrabbiare l’Islam, anche intellettuali laici come Angelo Panebianco non hanno potuto fare a meno di denunciare gli strafalcioni e la supponenza di certi commentatori politici, il più delle volte notoriamente atei o agnostici, che non hanno voluto perdersi l’occasione di spiegare al Papa cosa realmente ci sarebbe scritto sul Vangelo.
Ed ora, fa la stessa impressione vedere i radicali dissertare sulla carità cristiana, e sullo “spirito religioso” della manifestazione inscenata per l’ultimo saluto a Welby.
Che in effetti, stando a quanto si è letto sui pochi giornali usciti in edicola in questo periodo natalizio, è durata per tre giorni, proprio come in simili circostanze avveniva nel mondo antico. Del resto, proprio come nei funerali dell’antichità, i militanti pannelliani non hanno lesinato né gli invitati né le prefiche.
Ma, come dicevamo, non è solo una questione di ignoranza o di strumentalizzazione politica.
Secondo noi, prendersela con la Chiesa per la questione delle esequie negate a Welby, rivela anche la meschinità d’animo di coloro che, secondo antico costume, vorrebbero fare la rivoluzione solo col permesso dei superiori.
Come quei giovani che – dal sessantotto ad oggi – continuano a scendere in piazza per inveire contro la repressione, sapendo in anticipo che nessuno li arresterà mai, e nemmeno negherà loro, col tempo, l’accesso alle migliori cattedre e alle più succose prebende.
Insomma, c’è qualcosa che non ha fatto onore nemmeno alla battaglia di Welby, nella pretesa moralistica di tanti verso la Chiesa cattolica.
Di fatto, in nome di un’idea di carità ben più pelosa di quella del manzoniano Attilio, molti hanno chiesto che la Chiesa abdicasse ai suoi insegnamenti, per concedere una sorta di perdono prepagato anche a chi quei principi li ha combattuti apertamente per anni, oltretutto non senza un certo coraggio personale.
La differenza tra la moralità di pochi e il moralismo di tanti si è vista chiaramente in questa occasione. Così come si è visto quanto poco se ne sappia, al giorno d’oggi, del significato del perdono e della pietà cristiana.
I teologi improvvisati che anche stavolta hanno voluto insegnare al Vicariato di Roma cosa avrebbe detto Gesù al riguardo, hanno chiaramente dimostrato di pensare che un funerale sia una specie di riconoscimento alla carriera.
La maggior parte di coloro che si sono scandalizzati, infatti, hanno fatto capire che quel che non si doveva negare a Welby sarebbe stato meglio che venisse negato a Pinochet, o ad altri recenti defunti illustri, poco graditi dalle parti della sinistra ma non solo.
Ecco, una simile opinione non solo rivela che i corifei della morte hanno compreso ben poco di che cosa stiano parlando, ma anche che nel loro animo alberga uno spirito moralistico assai supponente. Essi non sembrano nemmeno avere un’idea di come la Chiesa – specie di fronte al mistero della morte – implori il perdono e pratichi la pietà nei confronti di tutti, non a seconda di quanto ne appaiano degni, bensì di quanto se ne riconoscano bisognosi.
Solo per questo, infatti, a un agnostico dichiarato come Piergiorgio Welby sono state negate le esequie pubbliche – che peraltro non è nemmeno detto che lui personalmente avrebbe voluto – pur continuandosi a pregare per la sua salvezza eterna.
La Chiesa ha agito da maestra, oltre che da madre, affinché nessuno potesse considerare indifferente di fronte agli uomini il consapevole rifiuto di Welby di accogliere la misericordia di Dio, e di riconoscerne la volontà anche di fronte alla sofferenza.
Senza che questo togliesse nulla né alla pietà, né al perdono umano, né a un giudizio di misericordia che spetta solo a Dio e per il quale la Chiesa, che è anche e sempre madre di ogni battezzato, prega unanime.
Welby ha senz’altro purificato la sua incapacità di cogliere il significato e il mistero della sua stessa sofferenza, e quindi difficilmente possiamo pensare che Dio gli negherà la sua pace.
Ma ci preoccupa come il delirio di onnipotenza del pensiero individualista dei radicali, che vorrebbe ciascuno padrone assoluto della sua vita e della sua morte, non riesca più nemmeno ad intuire questa dimensione dell’avventura umana.
Per certi aspetti ci ricordano davvero l’atteggiamento di un bambino viziato, o se preferite – visti i personaggi dei quali stiamo parlando – di un vecchio bizzoso. Ai quali mancano il senso del limite, ma anche il senso degli altri, e della responsabilità verso il prossimo.
Ed è questo ciò che davvero non si riesce a tollerare: su certi temi ormai è diventato impossibile dialogare coi radicali, ma sarebbe auspicabile da parte loro un minimo di pubblica decenza nel riconoscimento della dignità delle posizioni altrui.
Negli ultimi anni, a differenza di quanto avveniva ai tempi delle battaglie per divorzio ed aborto, questa decenza sembra essere venuta meno.
Che stia avvenendo per la tracotanza di chi si sente destinato a vincere, ovvero per la disperazione chi si sente sempre più isolato, è difficile dirlo. Comunque, sarebbe davvero il caso che la piantassero.
E portassero più rispetto per chi, di fronte al mistero della vita e della morte, quantomeno porta sulle spalle molta più esperienza di loro.
21 dicembre 2006
Prete si rifiuta di distribuire la comunione "per non offendere la sensibilità di qualcuno"
Dunque, sabato 7 dicembre il paese di Vidiciatico, una minuscola frazione di Lizzano in Belvedere, rinomata località dell’Appennino bolognese, è in fermento. Si sta per inaugurare la nuova seggiovia, struttura che per una località che vive di turismo riveste una importanza non trascurabile. Sono molti gli esponenti politici in attesa della cerimonia e dei discorsi ufficiali. Viene anche mobilitato il parroco locale, il sessantasettenne don Giacomo Stagni, per una Messa ospitata in un salone attiguo alla seggiovia.
Durante la celebrazione, al momento della distribuzione della eucarestia, don Giacomo se ne esce con una frase che non avevo mai udito prima. “Non verrò a distribuire la comunione – dice rivolgendosi ai fedeli – per non offendere la sensibilità di qualcuno di voi. Invito pertanto ad una preghiera personale”. Dopo di che si avvia frettolosamente alla conclusione.
Tra i presenti riconosco l’assessore regionale alle Attività Produttive, il diessino Duccio Campagnoli, e la presidente diellina (e cattolica) della provincia di Bologna, Beatrice Draghetti.
Tornandomene a casa, non faccio altro che pensare e ripensare alle parole pronunciate dal sacerdote. Trascorsa una settimana da quel sabato, decido di cercare don Giacomo. Riesco a scovare il numero di cellulare e lo chiamo. Gli chiedo ragione del suo comportamento. “Non ricordo le parole precise che ho pronunciato – mi risponde - ma eravamo in un contesto così festaiolo che non mi è sembrato opportuno fare la comunione. C’era poco tempo, i discorsi incombevano. Mi sono consultato con la Draghetti (sic!) e lei mi ha detto che qualsiasi decisione io prendessi a lei sarebbe andata bene”.
Altri uomini di chiesa, da me interpellati, mi hanno descritto don Stagni come un sacerdote che ha sempre fatto del bene alle comunità dove ha vissuto. Ma questo dettaglio non ha fatto altro che rendere più profondo il mio senso di smarrimento. Con l’approssimarsi del Natale 2006, del resto, si sono infittite le iniziative laiciste per minare alla base i simboli della religione cristiana. In molte scuole non si fanno più i presepi e gli stessi canti natalizi se la passano male. Ovviamente il pretesto è che “offendono la sensibilità di qualcuno”.
In mezzo a una delle Natività del Comune di Bologna sono riusciti a piazzare la statuina di Moana Pozzi nuda (un consigliere regionale dell’Italia dei Valori, Paolo Nanni, ha plaudito alla pensata arrivando a dichiarare che “il sesso è gioia”), mentre in quella della Camera dei Deputati sono comparse due coppie di omosessuali, poi ritirate. Insomma, ci stiamo “uccidendo” per non irritare i musulmani, i laici e i cattolici adulti, chiunque purché ciò significhi stracciare la nostra storia, la nostra cultura, la nostra anima.
E ora siamo ai preti che si autocensurano durante la Messa, dopo adeguata consultazione con il politico amico. Buon Natale.
15 dicembre 2006
La strategia del vitello
In altri termini, sarebbe interessante sapere se si è trattato di un altro degli assist che il buon Silvio insiste a lanciare al fedifrago Pierferdinando Casini, ogni volta che quest’ultimo insiste a cacciarsi nell’angolo, con la sua voglia di mettersi in proprio e di farsi notare.
Sulla estrema cavalleria del Cavaliere, crediamo che ci fossero pochi dubbi: ne avevamo avuto un saggio quando ha telefonato in diretta alla trasmissione di Floris solo per chiarirsi con il figliol prodigo, e quasi per scusarsi con lui, subito dopo che lo stesso si era prodotto in una mezza scenata per dire che lui non accettava ultimatum, e quindi non gli si doveva fare fretta per rientrare nella coalizione.
Considerato che, con il suo scatto d’orgoglio, il Pierferdi ci aveva fatto venire alla mente l’erezione di un bimbo che protesta durante il cambio di pannolino, il fatto che uno come Berlusconi si sia sentito in dovere di telefonare subito per scusarsi con lui, secondo noi doveva per forza rispondere ad un qualche secondo fine.
Ma a parte gli scherzi, naturalmente, non sappiamo che cosa di preciso stia passando per la testa dell’ex premier.
Vogliamo sperare che, anche questa volta, dietro l’uscita su coppie di fatto e libertà di coscienza ci sia dietro un disegno destinato a rivelarsi vincente.
Altrimenti non si capirebbe davvero per quale motivo, subito dopo aver pronosticato che il Governo Prodi presto cadrà proprio sul tema dei Pacs, che farà implodere le sue contraddizioni interne, il capo dell’opposizione si sia sentito in dovere di evidenziare le divisioni del proprio schieramento sullo stesso argomento. Oltretutto, offrendo al sopra citato Pierferdinando un’ottima ed insperata occasione di mostrare in che cosa il suo partito – voglie neocentriste a parte – possa veramente dirsi diverso dal resto della CdL.
Tant’è che anche Gianfranco Fini, con le dichiarazioni del giorno prima, aveva dato un suo contributo allo sgretolamento del fronte anti-Pacs.
Ma a dire il vero da lui ce lo aspettavamo, visto il suo precedente improvvido smarcamento in occasione dei referendum sulla manipolazione genetica ed uccisione di embrioni umani (cosiddetta “fecondazione assistita”). Da Silvio invece proprio no.
D’accordo, Forza Italia è un partito di massa, che trova la sua forza elettorale soprattutto nel pragmatismo e nella capacità di raccogliere consensi sia nell’elettorato cattolico che in quello più sensibile alle sirene laiciste. Lo sappiamo anche noi teo-con duri e puri, che se finora la sua fisionomia non fosse stata così, l’ex partito di plastica non avrebbe mai trovato la forza elettorale sufficiente per tenere insieme e rendere vincente il fronte alternativo alle sinistre. Tant’è che francamente avevamo apprezzato l’analogo atteggiamento di Berlusconi, in occasione dei referendum di cui sopra.
Tuttavia bisogna saper leggere i segni dei tempi, e in quella occasione la maturità dimostrata dal popolo italiano aveva sorpreso anche noi, per le proporzioni della debacle laicista. Quindi speravamo che la lezione fosse stata utile a tutti, come lo è stata per noi, nel nostro piccolo.
Ci siamo difatti convinti che davvero esista, tra i cittadini, un fondo di buonsenso e di ragione naturale che li porta a rimanere ben ancorati alla sostanza delle cose, quando sono in gioco i valori fondamentali.
Quando si è trattato di decidere sulla sacralità della vita, gli elettori si sono mostrati ben decisi a non dare retta alle parole d’ordine e ai capziosi ragionamenti degli intellettuali del mainstream e dei loro mezzi di comunicazione, tutti schierati in senso laicista.
Per questo ora siamo convinti che, anche sul tema delle coppie di fatto ed omosessuali, il popolo italiano non deciderebbe in modo troppo dissimile, se in ipotesi fosse chiamato a pronunciarsi con un referendum.
Così come ha saputo distinguere che cosa veramente fosse in gioco, quando è stato chiamato a pronunciarsi sulle fonti della vita umana, secondo noi l’elettorato saprebbe fare altrettanto, ora che si tratta di difendere le fonti della società. Cioè, la famiglia.
Il grande Chesterton diceva che soltanto ai cattolici, prima o poi, sarebbe toccato il compito di sguainare la spada per dimostrare che l’erba è verde d’estate, e le foglie cadono d’autunno. Ma quando si è trattato di difendere l’idea che i figli nascono da un uomo e una donna, anche i cittadini e i ceti sociali più secolarizzati del nostro Paese hanno mostrato di non avere troppi dubbi al riguardo.
Sui Pacs, secondo noi, succederebbe lo stesso, e quindi non si capisce per quale motivo Berlusconi abbia perso quest’occasione per confermare la sua proverbiale capacità di intuire i desideri, le opinioni e le esigenze della gente.
Cominciamo a sospettare che, dietro tutto questo pragmatismo, più che la strategia del vitello ci sia semplicemente la ben nota tendenza del grande comunicatore a non voler mai dire di no ad alcuno.
Ma almeno, per cortesia, ci avesse risparmiato il vecchio luogo comune della “libertà di coscienza”. La coscienza, non solo in politica, è un concetto troppo importante per essere usato per giochi tattici di questo tipo. E’ per difendere la sacralità della coscienza che san Tommaso Moro, patrono dei politici, ha affrontato la mannaia del boia. Tra l’altro, anche quella volta c’entravano – sia pure indirettamente – questioni matrimoniali.
Lasciare ai parlamentari libertà di coscienza solo su alcuni temi, è come dire che ai leaders politici di solito della coscienza dei propri deputati non gliene frega nulla. Ovvero, più verosimilmente, che non si è mai fatto troppo caso al fatto che ne abbiano una.
Ma soprattutto, da parte di Berlusconi ci si aspetterebbe un po’ più di attenzione nello sbandierare che Forza Italia non si schiererà sui Pacs in quanto “liberale”. Intanto, a ben vedere il liberalismo con le nozze omosessuali dovrebbe centrare poco o nulla, ed invocarlo a sproposito rischia solo di creare confusione tra chi ama ragionare sulle idee, e non solo sui calcoli elettorali.
Senza contare che invocare il liberalismo per non schierarsi sui Pacs rischia di creare – sul piano dei principi e dei valori – un’inopportuna e sgradevole consonanza con l’antico campo d’Agramante di coloro che considerano la famiglia come un limite per la libertà delle persone, anziché un suo fondamentale baluardo.
E poi, nessuno più del leader della CdL dovrebbe sapere che i partiti liberali “puri” di tutta Europa - pur con la loro rispettabile storia – non hanno mai avuto un peso elettorale decisivo per assicurare un governo ai loro paesi, come invece è nella missione e nelle potenzialità di Forza Italia.
Sappiamo bene che i successi di Berlusconi finora si sono basati sulla capacità di tenere assieme, nello stesso movimento politico, sensibilità e storie personali assai diverse tra di loro: senza la proverbiale capacità del leader di aggregare e di mediare – nelle idee e negli uomini – tra la parte più moderata della tradizione cattolica, liberale e socialista, tenendo ben ferma la barra del timone verso un obiettivo comune di libertà, Forza Italia non avrebbe mai potuto raggiungere le dimensioni di partito di massa, e quindi l’importanza politica decisiva che ha avuto in questi anni.
Tutto questo ha tuttora un prezzo, in termini di disomogeneità e di potenziali conflitti interni, a tutti i livelli della vita politica: ci dicono ad esempio che nel consiglio comunale di Padova – dove si è escogitata quella delibera che dovrebbe introdurre surrettiziamente le nozze gay e persino poligamie e promiscuità varie nel nostro ordinamento dello stato civile – l’unico consigliere dell’opposizione di centrodestra che non ha votato contro era appunto di Forza Italia.
Ma in un paese come il nostro, particolarmente in questo momento politico, un tema come quello della difesa della famiglia è troppo importante per sacrificarlo sull’altare dell’unità e della coesione interna. Non ci si venga a dire che nei grandi partiti conservatori anglosassoni, su questo ed altri argomenti si possono trovare posizioni anche ben più contrastanti.
La nostra storia, la nostra tradizione, e anche il nostro contingente momento politico sono troppo diversi per potercelo permettere. Non è questo il caso in cui ci si può permettere di ingrassare ad oltranza vitelli che poi rischiano concretamente di essere consumati da altri, con grande loro soddisfazione, ma lasciando a digiuno chi li ha allevati.
O almeno, se proprio si vuole continuare su questa linea, poi non ci si lamenti quando qualcuno arriva a dire che Forza Italia è un partito senz’anima.
04 dicembre 2006
Il Leone e il Delfino (e i loro due popoli)
Le due grandi manifestazioni del centrodestra degli anni novanta – quella della neonata Alleanza Nazionale e quella unitaria del Polo – noi del Filo a Piombo, chi più chi meno, ce le eravamo fatte tutte. E nel frattempo, ad arrivare ad oggi, tutti e tre avevamo trovato altre occasioni per esserci di persona.
Una dozzina di anni fa, nel tragitto da Piazza Esedra a Piazza San Giovanni, chi scrive questo post aveva al suo fianco la stessa compagna che ora è sua moglie. Ma allora non aveva ancora una professione ben avviata e tre figli da far crescere. Quindi (essendosi tra l’altro portato dietro anche i figli), questa volta chi vi scrive ha potuto manifestare in modo meno intenso, ma in compenso molto più consapevole, per esperienza diretta e quotidiana, di quel che il governo Prodi e la sinistra in generale stanno togliendo al futuro di tutti.
La prima impressione di noi del Filo a Piombo, dopo il corteo di sabato scorso, è quella per cui sia definitivamente venuto meno il partito di plastica. Detto da chi vive ed opera a Bologna, e quindi osserva più da vicino di tanti altri la perdurante disorganizzazione e lo scarso radicamento di Forza Italia sul territorio, può sembrare un commento troppo ottimista.
In fondo, pure le altre volte era stato evidente lo stridente contrasto tra l’inconsistenza del movimento berlusconiano, nella città dove ognuno vuol rimandare a casa Prodi, rispetto alle decine e decine di pullmann che già allora da Bologna scesero a Roma. E in questi anni la situazione non ci sembra cambiata più di tanto.
Ma se oggi diciamo che il partito di plastica è finito, è perché nelle altre manifestazioni non avevamo osservato lo stesso rapporto tra Berlusconi e la sua gente. Dopo tanti anni, abbiamo improvvisamente scoperto quanto ormai l’uomo di Arcore, l’imprenditore prestato alla politica, abbia raggiunto la statura di un autentico leader epocale, e cioè di uno dei più grandi statisti italiani di tutti i tempi.
Non solo per come il “leone della libertà” è riuscito a rivoluzionare la realtà politica ed istituzionale italiana, prima con la discesa in campo, la nascita del bipolarismo, e poi con gli ultimi cinque anni di governo. Ma anche e soprattutto per come, nel corso di questi anni vissuti pericolosamente, è riuscito a cambiare la mentalità del suo popolo.
Questa volta abbiamo avuto la netta sensazione che quella parte degli Italiani che non è di sinistra, e che per natura tende a rimanere un po’ lontana dalla politica, dopo dodici anni di cosiddetto berlusconismo sia divenuta molto più consapevole della propria missione sociale e della propria importanza.
Quel popolo tendenzialmente composto di lavoratori autonomi, di professionisti, di piccoli e medi imprenditori, di artigiani, di dirigenti del settore privato, di studenti ambiziosi, di casalinghe attente alla famiglia, ora è molto meno disposto a delegare ad altri il proprio presente e il proprio futuro.
Con Berlusconi, e con quel che rappresenta, questo popolo ha stretto un rapporto molto più profondo e significativo di quel che poteva sembrare. Sabato abbiamo scoperto, guardando negli occhi le persone del variopinto corteo, che tra il capo carismatico e l’elettorato del centrodestra si è consolidato davvero un legame forte, significativo, identitario. In altri termini, che di fronte al pericolo della sinistra al governo, il suo popolo ora sa di essere una cosa sola con lui.
Si poteva pensare, o meglio affermare con disprezzo – come avviene a sinistra, laddove ormai da anni “pensare” non è il verbo più appropriato – che votare per i partiti di centrodestra fosse solo un fatto di interessi, di egoismi, di rendite da difendere.
E non ci sarebbe nulla di male, anzi è l’ora di affermare chiaramente che difendere i propri interessi è un diritto civile fondamentale, che ha la stessa dignità morale a destra come a sinistra. Ma è anche il momento di dire che in questa fase della politica nazionale gli interessi dei moderati e dei conservatori sono i più importanti.
Perché mai come ora, in Italia, è divenuta evidente la differenza politica tra chi per decenni ha costruito il benessere di tutti con il proprio lavoro, la propria iniziativa e il proprio capitale, rispetto a chi invece ha sempre e solo preteso di togliere agli altri, per garantirsi la propria più o meno piccola greppia di privilegi assistenziali.
Quest’ultimo concetto è apparso molto chiaro nel discorso di Gianfranco Fini. Che forse è stato anche più brillante di quello di Silvio il Leone.
Ma nelle parole dell’ex Presidente del Consiglio c’erano alcuni aspetti che non abbiamo ritrovato nell’intervento di colui che – come è apparso a tutti – sabato in Piazza san Giovanni è stato incoronato come il Delfino, cioè il futuro leader della Casa della Libertà.
Intanto, e per l’appunto, noi del Filo a Piombo saremo stati un po’ impediti per colpa della folla (e, per chi scrive, anche dei bambini), ma non abbiamo mai sentito Fini pronunciare la parola “libertà”. Quella parola, cioè, che invece è stata il leit-motiv di tutto il resto della manifestazione.
E questo un po’ ci preoccupa, così come – sempre per ragioni identitarie – ci preoccupa che il nostro possibile futuro premier nei trascorsi anni di governo abbia sentito più volte il bisogno di farsi perdonare, oltre che il suo passato, anche le radici cattoliche del suo partito.
Non possiamo scordarci del differente atteggiamento tenuto rispetto a Berlusconi, che pure è un laico assai pragmatico, all’epoca dello scontro referendario sulla fecondazione assistita, che oltretutto si è concluso – nonostante gli improvvidi smarcamenti del futuro Delfino – con una netta vittoria dei valori cattolici che albergano nell’anima più profonda del nostro popolo. I quali, a nostro parere, sono anche gli unici valori in nome dei quali sarà possibile costruire un’autentica unità tra le basi elettorali dei due grandi partiti del centrodestra.
Ma non c’è solo questo. Il popolo di Alleanza Nazionale, storicamente, tende ad attendersi dallo Stato e in genere dalla mano pubblica molto di più di quanto avvenga per l’elettorato moderato di Forza Italia. Questo specialmente al centro-sud.
Tutti quanti, in una società moderna, tendiamo ad accorgerci del valore delle libertà individuali e collettive solo nel momento in cui le vediamo platealmente messe in pericolo, e con esse i nostri interessi e i nostri affetti più immediati, come sta avvenendo in questi primi mesi di governo Prodi.
E’ quindi assai facile sentirsi liberali, in questo periodo, anche quando si sia tendenzialmente uomini d’ordine, che in genere preferiscono sentirsi garantiti dalla collettività. Come scriveva Giuseppe Prezzolini, quando la libertà – che comporta rischio, responsabilità, fatica – è meno minacciata, tanta gente tende a preferire ad essa la sicurezza.
Per questo nutriamo qualche dubbio sul fatto che i due popoli, quello del Leone e quello del Delfino, siano davvero politicamente così omogenei, per aspettative, esigenze e sentimenti.
Ed è tutta qui la riserva che per il futuro potremo nutrire, se davvero prima o poi ci sarà il cambio di leadership che si è profilato sabato pomeriggio davanti a noi, e alla folla di Piazza San Giovanni.
Ma proprio per questo, specialmente ora, quel che conta è imparare ad essere uniti, per tornare a vincere. Non ci aspettavamo che i nuovi Circoli sarebbero stati nominati tante volte, nel discorso di Fini oltre che in quello di Berlusconi.
Questo forse è un segnale che tutti noi, nel nostro piccolo, dovremo cercare di raccogliere subito. In nome dell’unità, oltre che in quello della libertà.
Nel segno del Leone, così come in quello del Delfino.