29 gennaio 2007

Finanziaria 2007: nuova beffa per i padri separati

Da: www.studiofiorin.it

Abbiamo già segnalato in un precedente intervento che la controriforma dell’imposta sul reddito, operata dal governo Prodi con la Finanziaria 2007, configura una vera e propria aggressione al padre di famiglia.

Ma ora che, dal 1° gennaio scorso, è entrata in vigore la versione definitiva della legge, sembra che a subire anche le beffe, oltre al danno, saranno le sterminate legioni dei padri separati dalla moglie o dalla ex-compagna, e non affidatari dei propri figli.

Come è noto, fino alla recente entrata in vigore della legge n. 54 del 2006, questi ultimi rappresentavano la stragrande maggioranza dei padri separati, visto che sotto il previgente regime i figli minori venivano affidati di diritto alla sola madre in circa l’84% dei casi.

Anche rispetto a tale categoria di padri, bisogna innanzitutto ricordare che il primo modulo della riforma Tremonti – voluta dal governo Berlusconi – aveva sostituito le tradizionali detrazioni Irpef per gli oneri di famiglia con un sistema di deduzioni.

Vale a dire che lo sgravio fiscale per i figli a carico non veniva più applicato a somma fissa sull’imposta già calcolata, bensì in percentuale sul reddito imponibile. Nell’unico anno nel quale è stata in vigore, questa modifica ha apportato un sensibile effetto perequativo a favore dei redditi medi e medio-alti, che poi sono quelli tipici delle famiglie monoreddito, che in genere vivono del lavoro del solo padre specie quando si tratta di famiglie numerose.

Anche nel caso dei genitori separati entrambi percettori di reddito, la riforma Tremonti aveva previsto che, in assenza di diversi accordi tra di loro, la deduzione per gli oneri di famiglia dovesse essere operata al 50% su ciascuno. Questo indipendentemente dal regime di affidamento dei figli disposto dal Tribunale. Qualora invece l’unico a percepire reddito fosse il padre separato, la deduzione sarebbe stata applicata interamente a lui, così come nel caso che la moglie – come spesso accade nella pratica – percepisse un reddito al di sotto della soglia imponibile.

In questo modo si era pure attenuata l’ingiustizia sostanziale derivante dal fatto che, in linea di principio, gli assegni di mantenimento per i figli non fossero – come non sono tuttora – detraibili dal reddito, a differenza di quelli per la coniuge separata.

Ma ora, con le nuove disposizioni della Finanziaria 2007 (al comma 6 dell’ormai mitico “articolo unico” della legge n. 296), si è stabilito che le nuove – già piuttosto micragnose – detrazioni spetteranno tutte “in mancanza di accordo, al genitore affidatario”.

Vale a dire che tali sgravi in misura fissa, oltre a risultare per se stessi estremamente penalizzanti rispetto alle deduzioni della riforma Tremonti, e tendenti ad annullarsi già in presenza di redditi medi, non saranno nemmeno più suddivisibili tra i redditi dei due genitori separati. A meno di intese spontanee tra di essi, che però, vista la frequente conflittualità dei rapporti, si può prevedere che assai difficilmente verranno raggiunte nella pratica.

Dunque, se il nuovo sistema già penalizzava ampiamente i padri monoreddito, ora questa “svista” del legislatore aggiungerà ulteriori motivi di malcontento, per chi oltre ad essere padre ha anche subito la separazione dalla famiglia. Se difatti l’ex-compagna che vive coi figli percepisce un reddito, la seppur modesta detrazione per gli oneri di mantenimento di questi ultimi non potrà infatti essere fruita dal padre nemmeno al 50%, come invece sarebbe avvenuto per le deduzioni volute dal governo Berlusconi.

Invece, le detrazioni di Prodi e Visco saranno tutte godute dal genitore affidatario – diciamo pure la moglie – che potrà usufruire dell’intera detrazione, nonostante il relativo reddito sia stato prodotto anche (e in molti casi, quasi soltanto) dal marito separato, e a lei trasferito ope legis mediante gli assegni disposti dal Tribunale.

La scelta potrebbe anche avere una sua perversa logica, visto che si tratta di un reddito tassato in capo al genitore affidatario, se non fosse che il senso della detrazione dovrebbe essere proprio quello di riconoscere un minimo di favore al genitore che quel reddito lo produce per destinarlo alla famiglia, nonostante la separazione, e non a quello che lo percepisce soltanto.

Peraltro, non sembra trattarsi di una svista, visto che la nuova Finanziaria si è preoccupata di precisare che – nel caso che uno dei genitori separati non possa usufruire in tutto o in parte della detrazione – questa potrà essere riversata all’altro, quantomeno per la differenza. Ma è una precisazione che suona come un’ulteriore beffa per il padre separato, specie per quello che già di suo guadagna meno della propria ex.

Infatti, possiamo già prevedere che assai difficilmente, nella pratica, i padri separati potranno contare sulla benevola solidarietà dell’ormai non più dolce metà, per ottenere da essa la comunicazione dei suoi (maggiori) redditi, in modo da poter riversare sui propri la detrazione eventualmente da lei non goduta. Tra l’altro, solo per questo motivo, la nuova disciplina tributaria potrebbe anche diventare fonte di ulteriori frustranti contenziosi tra i coniugi separati.

Al contrario, in caso di affidamento condiviso o congiunto, anche secondo la nuova disciplina la detrazione si applicherà al 50% sui redditi dei due coniugi. E varrà comunque il meccanismo del “recupero” sul reddito dell’altro della detrazione non fruibile da uno dei due.

Questa possibilità dovrebbe risultare più equa, ma secondo noi non farà che rendere più atroce e ingiustificabile la beffa a danno dei padri non-affidatari dei figli, considerato che – nella pratica – si può già osservare che il nuovo sistema dell’affidamento condiviso non sta modificando più di tanto il sistema della allocazione dei redditi dell’ex-nucleo familiare.

Infatti, buona parte delle prime decisioni adottate dai Tribunali di merito stanno continuando a prevedere che uno dei genitori separati debba comunque rimanere “collocatario” della prole, e quindi beneficiario di un assegno versato dall’altro in misura fissa.

Le formule innovative rese praticabili dalla legge n. 54/2006, come quella dell’affidamento “alternato” (nel quale i figli possono andare a vivere a periodi ripartiti presso l’abitazione dell’uno e dell’altro genitore) non stanno avendo molto successo, anche per evidenti problemi pratici.

Insomma, quello che sta cambiando nel menage delle separazioni pare essere solo una possibilità di maggiore controllo (ma spesso solo in linea di principio) sulla effettiva destinazione dell’assegno di mantenimento a favore delle esigenze dei figli. Decisamente un po’ poco per giustificare il diverso trattamento fiscale, imposto dalla nuova Finanziaria a danno delle legioni di padri separati non affidatari.

Non dimentichiamoci infatti che il principio cardine della materia rimane che ciò il marito passa alla moglie per ordine del Tribunale viene tassato solo come reddito di quest’ultima, mentre le spese per i figli sono sempre e comunque indeducibili. Questo è il meccanismo decisamente anti-familiare che sta anche alla base del crescente fenomeno delle separazioni “fiscali”, operate in accordo tra i coniugi per lucrare sulla minore aliquota gravante sul coniuge destinatario dell’assegno (in genere, cioè, la moglie casalinga o percipiente reddito molto basso, e talvolta in nero). Laddove non consacrato dal provvedimento del Tribunale, il costo del mantenimento della moglie stessa sconterebbe difatti la maggiore aliquota prevista per il reddito maritale.

Peraltro, come già scritto in altro articolo, le separazioni “fiscali” sono in aumento anche per poter lucrare sul vasto sistema di esenzioni, agevolazioni e sconti previsto – soprattutto a livello locale – per i servizi pubblici a favore dei figli (asili, mense scolastiche, ecc.) o dello stesso nucleo familiare (assegnazione di alloggi popolari, sovvenzioni, aliquote Ici).

E’ noto infatti che i criteri adottati dai vari Comuni, così gli “indicatori di situazione economica” sui quali si basano le graduatorie per la concessione dei predetti servizi, tendono a favorire moltissimo i nuclei cosiddetti “monoparentali” – cioè quelli dove solo un genitore risiede col figlio – e quelli dove solo un coniuge lavora, ovvero non è titolare dell’alloggio in cui vive. Cioè, nella pratica, le madri separate. Ma questo è già un altro discorso.

Casini e Montezemolo, i finti liberalizzatori

Due storielle brevi e semplici, giusto per ribadire ancora una volta che i leader (o presunti tali) vanno giudicati per ciò che fanno e non per ciò che dicono. Nei giorni scorsi, intervenendo sul tema delle liberalizzazioni Pierferdinando Casini ha provato a fare il politico di peso proponendosi come colui che dall’interno dell’opposizione sarebbe stato in grado di stimolare Berlusconi e portarlo eventualmente sul terreno dell’appoggio a Prodi. Come dire: io sì che me ne intendo nel centrodestra, fatemi lavorare per convincere quell’eretico del Silvio.

Bene. Bisogna ricordare che quando la Casa delle Libertà esisteva e governava, fu proprio Rocco Buttiglione, allora ministro delle Politiche comunitarie, esponente di spicco dell’Udc e soprattutto mai smentito dal suo capo di allora e di oggi, a voler introdurre nella Finanziaria 2004, all’articolo 14, il cosiddetto appalto in house. Nulla di particolarmente complicato, anzi quasi banale. Con esso, l’amministrazione locale affida l’erogazione di servizi (acqua e gas, giusto per citarne due) direttamente alle aziende pubbliche quotate in borsa e controllate dall’ente locale stesso, in deroga alle disposizioni di matrice comunitaria. Sia chiaro: Forza Italia e il resto della coalizione non sono stati in grado di impedire il fattaccio. Sbagliando.

Dal momento che due più due fa sempre quattro, accade che queste società di servizi si siano trasformate in uno straordinario strumento di potere in mano alle maggioranze politiche sul territorio, che anche tre anni fa tendevano in larga maggioranza verso il rosso. A Bologna, per esempio, ai tempi del sindaco Guazzaloca, fu proprio il suo assessore al Bilancio Gian Luca Galletti (oggi stimato deputato casiniano e uomo forte di Pier sotto le Due Torri) a voler creare un colosso economico-finanziario come Hera Holding spa, che guarda caso si regge in piedi grazie all’appalto in house. Il presidente di Hera è Luigi Castagna, esponente di spicco dei Ds emiliani e sindaco storico di Casalecchio, paesone alle porte di Bologna. Fine della prima storiella.

La seconda riguarda un vero e proprio eroe per tutte le stagioni, Luca Cordero di Montezemolo. Anche lui ha recitato la parte del critico super partes del governo a proposito di liberalizzazioni. “Vedete? – sembrava dire il presidente di Confindustria solo qualche giorno fa – Lo scorso anno attaccammo Berlusconi, e oggi facciamo la stessa cosa con Prodi”. Poi, che ti combina il ferrarista quando torna nella terra natìa per passare dalle parole ai fatti? Lui è numero uno (anche) di Bologna Fiere, società-colosso che si occupa di gestire gli eventi fieristici del capoluogo emiliano romagnolo. Da qualche tempo la Regione spinge per entrare nel consiglio di amministrazione, un ruolo che dal punto di vista della dottrina del libero mercato non c’entra un fico secco. L’ente pubblico deve fare l’ente pubblico, non l’imprenditore.

Questo perfino Montezemolo lo sa. Ma lui si è dichiarato “strafavorevole” all’ingresso. Ad una condizione: che i soci pubblici (ce ne sono anche altri, infatti) restino in minoranza rispetto ai soci privati. La conseguenza è che il Cordero vuol fare l’imprenditore con i soldi dei cittadini. Vizietto che puzza lontano mille miglia di consociativismo, esattamente come l’olezzo che proviene dagli appalti in house. Un modo di fare impresa e politica che forse qualche anima bella può pensare relegato in un polveroso passato. Balle. E’ più che mai attuale.

22 gennaio 2007

Poca fede, pochi figli

Dalle panche vuote delle chiese alle culle vuote. Ora la conferma viene anche da uno studio accademico pubblicato nel settembre 2005 da tre economisti statunitensi: Eli Berman, Giuseppe Ragusa (entrambi dell’University of California di San Diego) e Laurence R. Iannaccone (della George Mason University). La ricerca, intitolata appunto “From Empty Pews To Empty Cradles. Fertility Decline Among European Catholics” (Dalle panche vuote alle culle vuote. Il declino della fertilità tra i cattolici europei) ha l’obiettivo di stabilire, sulla base dei dati empirici, le cause del rapido declino della fertilità avvenuto nei paesi cattolici a partire dalla seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso.

Fino a quell’epoca, infatti, i paesi cattolici avevano generalmente goduto di una fertilità superiore a quella dei paesi protestanti, ma poi il calo è stato così rapido che le parti si sono invertite. Oggi sono i Paesi scandinavi, l’Inghilterra o gli Stati Uniti ad avere una natalità sensibilmente più alta rispetto all’Italia, alla Spagna o al Portogallo: e questo malgrado il fatto che le percentuali delle donne che lavorano siano attualmente più basse proprio nei paesi cattolici dell’Europa. I dati presentati dai tre studiosi sembrano dimostrare che il declino della fertilità sia fortemente correlato con il declino sociale della religione.

Da un lato ha certamente influito il minor rispetto per il tradizionale insegnamento cattolico contrario all’aborto e al controllo artificiale delle nascite, e favorevole delle famiglie numerose. Gli autori però, più che gli aspetti teologici, mettono in evidenza le ricadute sociali della scomparsa di gran parte dei servizi sociali per l’infanzia e la maternità prestati un tempo dalle istituzioni cattoliche, perlopiù grazie all’opera di suore. I tre ricercatori rilevano che prima del Concilio Vaticano II il cattolicesimo si trovava all’apice di un lungo periodo di sviluppo.

In particolare nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, la crescita del cattolicesimo nel mondo era stata esplosiva, nell’aumento del numero dei battesimi, delle conversioni, delle presenze alla messa domenicale, dei preti, delle suore, delle scuole e degli ospedali cattolici. In Italia fino al 1966 più del 70 per cento degli asili-nido e delle scuole materne erano gestiti da suore.

Negli Stati Uniti, quasi il 50 per cento dei bambini cattolici frequentavano scuole cattoliche, mentre gli ospedali cattolici fornivano un quinto di tutti i letti ospedalieri della nazione. Immediatamente dopo il Concilio Vaticano II tutti gli indicatori volsero però rapidamente al peggio. Si discute ancora oggi se il Concilio Vaticano II sia stato o meno la causa scatenante del fenomeno, ma l’esistenza della crisi postconciliare viene universalmente riconosciuta.

Le statistiche ufficiali della Chiesa cattolica forniscono infatti una conferma dettagliata dell’improvviso calo delle forze a disposizione della Chiesa, con conseguente rapida diminuzione dei servizi scolastici, educativi ed assistenziali.

Negli Stati Uniti, ad esempio, il numero delle suore era cresciuto da 140.000 nel 1948 a 180.000 nel 1966, ma da allora è sempre sceso fino a 81.000 di oggi. Tra il 1962 e il 1992 gli ordini religiosi femminili si sono ridotti del 42 per cento, e di conseguenza sono calati i servizi da loro prestati: gli ospedali del 23 per cento, le scuole superiori del 15 per cento, le scuole elementari del 42 per cento. Simili tendenze si sono verificate in quasi ogni altro paese.

In definitiva, i risultati della ricerca sembrano dimostrare che il declino della religiosità, combinato con un calo dei servizi sociali per l’infanzia fornito dalle istituzioni cattoliche tradizionali, sia all’origine del pronunciato calo di natalità tra i cattolici occidentali. Il ruolo che il personale religioso ha svolto nell’incoraggiare la natalità è stato dunque tanto importante quanto sottovalutato. Paradossalmente, i voti delle suore di non avere figli propri sono più che compensati dai loro effetti sulla fertilità degli altri!

(http://www.svipop.org/sezioniTematicheArticolo.php?idArt=151)

20 gennaio 2007

Cofferati ha un problema: si chiama (ancora) Marco Biagi

Mentre si avvicina il quinto anniversario dell’assassinio di Marco Biagi, la Bologna politica e istituzionale sta vivendo comportamenti contraddittori. Tutto nasce dall’iniziativa del quotidiano “Il Resto del Carlino” di dedicare un premio, riservato alle associazioni no-profit con finalità sociali, proprio alla memoria dello studioso di diritto del lavoro. Fin dal giorno dopo l’istituzione del riconoscimento, la città ha reagito non facendo mancare il calore e l’adesione convinta di un numero crescente di personalità oltre che di un numero elevatissimo di comuni cittadini. Un consenso realmente trasversale, giunto da esponenti di quasi tutti i partiti. Commenti positivi sono stati rilasciati dall’intero centrodestra e dalla presidente diellina della Provincia. La Regione, su iniziativa di Forza Italia, ha addirittura sottoscritto quasi all’unanimità un ordine del giorno.

E da Palazzo d’Accursio, sede del Comune, quali notizie arrivano? Quali notizie arrivano dall’ufficio del sindaco? Nessuna, silenzio assoluto. Un silenzio freddo, indispettito, lontano. Inutile bussare: la porta è chiusa a doppia mandata. E se anche qualcuno di là c’è, potete star certi che sta pensando alla nuova addizionale Irpef. L’intera città si è ormai appropriata di una idea che non fa altro che ricordare uno dei suoi figli migliori. Il signor sindaco invece fa finta di nulla, parla d’altro. Non trova trenta secondi trenta, fra un duello e l’altro con i sindacati, di dire due parole. E dire che di solito non gli mancano gli argomenti per attirare l’attenzione dei media.

Questa volta no. Evidentemente Cofferati non ritiene la memoria di Biagi meritevole di un briciolo di attenzione. Ne prendiamo atto, come si dice in questi casi. Un comportamento che lo trasforma automaticamente nell’ultimo dei cittadini, anzi nell’ultimissimo.

Chi volesse aderire o destinare un contributo, l’indirizzo è: premiobiagi.carlino.bo@ilcarlino.net.

14 gennaio 2007

Fili d'Erba

Quante parole per il delitto di Erba. E quanti aspetti diversi, tutti significativi e mai banali, che per uno scherzo del destino si sono intrecciati attorno al medesimo fatto di cronaca.
Una serie di coincidenze, consonanze e parallelismi, che stanno rubando la scena al dolore e alla pietà, ma che appassionano – e come al solito dividono in partiti contrapposti – tutti i chiacchieroni del Belpaese da ormai fin troppi giorni.

Più che nel fatto in sé, queste coincidenze le abbiamo lette tra le righe della babele di opinioni e di opinionisti. A partire dai discorsi da bar fino ai corsivi giornalistici, e agli speciali televisivi affollati di esperti, che si sono scatenati tutti insieme per dire la propria sull’orrido delitto della provincia comasca.
E secondo noi c’è poco da scandalizzarsi di tutte queste parole: un delitto così feroce e singolare ha evocato troppe situazioni irrisolte, e troppi malesseri diffusi tra la nostra gente, per poter passare sotto silenzio.

Anche noi vogliamo partecipare al gioco. Dunque, c’è stata un’atroce mattanza, con tanto di sgozzamento di un bambino, maturata in un ambiente condominiale.
Un ambiente non degradato, simile a quello di tante altre difficili condominialità, dove i vicini di casa difendono con le unghie e i con i denti le proprie ragioni. Mostrando sempre il lato peggiore di sé, quello che fuori dall’assemblea di condominio si vergognerebbero solo a lasciarlo sospettare ai parenti e agli amici più cari.

In Italia circa l’80% delle famiglie vive in abitazioni di proprietà, e assai spesso in condominio. Da noi, molto più che in altri paesi, il vicinato può diventare ancor più della famiglia rappresentazione concreta del detto esistenzialista di Jean Paul Sartre, per il quale l’inferno sono gli altri.
Solo per questo non sono molti quelli che possono evitare di immedesimarsi nelle vittime, o talvolta - anche se nessuno lo ammetterebbe mai - negli assassini.

E poi, nel delitto di Erba, c’è stata una coppia senza figli che deciso di uccidere in perfetta armonia, e ha eseguito il delitto con una freddezza sorprendente. Con la donna che si è avventata sulla gola di un bambino di pochi anni, per sgozzarlo con un coltello da cucina. Tutto questo mentre il Governo ha appena presentato un nuovo disegno di legge della ministra Pollastrini, contro la violenza “di genere”. Quella cioè che sarebbe perpetrata dagli uomini contro le donne.

Oh, sia chiaro: non esiste un legame preciso tra il fatto di cronaca e la notizia politica. Sono appunto solo coincidenze, scherzi della società della comunicazione, che però in pochi hanno rilevato.
Anche oggi, domenica, mentre guardavo distrattamente il Tg5 meridiano, ho visto comparire Paola Perego che lanciava il suo interminabile programma del pomeriggio: “oggi discuteremo con i nostri ospiti sul tema: è la donna a comandare? E subito dopo parleremo ancora del delitto di Erba, per chiederci come sia stata possibile tanta brutalità …”.
Insomma, questo per dire che il blob mediatico gioca degli strani scherzi: strane e insignificanti consonanze che non vogliono dire nulla. Però risuonano nella mente, a volte si intrecciano e a volte ondeggiano tutte dalla stessa parte, come appunto farebbero fili d’erba mossi dal vento.

Infatti ci sono state anche le inquietanti coincidenze relative alla storia personale di Azouz Marzouk. L’uomo duro e pallido, l’immigrato musulmano con un passato torbido e un presente incerto, al quale una coppia di italiani incensurati ha ucciso moglie e figlio, con una lucida crudeltà che ricordava proprio i precetti coranici sulle vendette familiari.
Ma stavolta ad uccidere non è stato né il musulmano né il pregiudicato. Tanto che quest’ultimo si è ricordato di lamentarsi con “i politici di destra” che avrebbero dovuto scusarsi per averlo sospettato ingiustamente. Scuse politicamente corrette, che gli sono invece arrivate da alcuni bravi cittadini erbesi il giorno del funerale.

Almeno lui in galera non c’è stato neanche un giorno. Azouz non lo saprà, ma qui a Bologna in questi giorni sta tenendo banco sugli stessi giornali – assieme al delitto che lo riguarda – anche la vicenda di un giovane commercialista, padre di quattro figli e con trascorsi personali irreprensibili, arrestato e tuttora detenuto perché accusato di avere strangolato una vecchietta.
Tanti sono i dubbi su questa parallela vicenda di cronaca: gli unici indizi a carico di questo professionista sono presunti ammanchi patrimoniali, a danno dell’anziana signora uccisa, che pare che gli avesse affidato i risparmi. Il Resto del Carlino sta montando il caso con la dovuta attenzione, ma con grande scarsità di prove concrete delle quali riferire.

Certo, è solo un’altra coincidenza. Ma chissà se un giorno qualche politico – o anche solo il magistrato che lo ha fatto arrestare – chiederanno scusa a quel professionista dalla reputazione distrutta, il giorno che dovesse essere scagionato.
E d’altra parte non si capisce nemmeno bene con chi ce l’avesse, il povero Azouz, quando ha preteso le scuse dei politici: forse con il solito Borghezio, che non è nemmeno chiaro se dopo il delitto avesse davvero rilasciato incaute dichiarazioni ai danni del pregiudicato extracomunitario.
Eppure – altro singolare parallelismo – non risulta che qualcuno si sia indignato quando, come ci ha raccontato il Giornale, nei giorni scorsi Radio Popolare ha aperto i microfoni agli ascoltatori che per qualche ora hanno telefonato indisturbati solo per dire che la crudeltà dei due coniugi di Erba sarebbe un’espressione dell’Italia di Berlusconi e di Bossi.

Insomma, in questa babele di commenti prima o poi non poteva di certo mancare il gioco delle asimmetrie tra la destra e la sinistra. E nemmeno lo scontro di civiltà.
Difatti, mentre il predetto Azouz invocava vendetta per la moglie e il figlio, suo suocero Carlo Castagna ha dichiarato pubblicamente di perdonare gli assassini della figlia e del nipote.

Subito è divampato il dibattito: i semplici cattolici, in genere, hanno ammirato l’esempio di quest’uomo mite, che con le sue parole di perdono ha voluto mettere un punto fermo che servisse a fermare la spirale di odio e di accuse mediatiche.
Ma non sono mancati i cattolici “adulti”, come quel tale Gino Rigoldi, prete televisivo che non ha perso l’occasione di gettare dubbi e critiche su un perdono così “automatico”, troppo poco sofferto, troppo poco elaborato. E forse troppo stridente – per una sensibilità ecumenica e progressista – rispetto alle diverse parole del genero musulmano, che coerentemente con il Corano aveva invece dichiarato di non poter perdonare, perché “chi ammazza deve essere ammazzato”.
Ecco un’altra coincidenza, che però genera imbarazzo, e difatti si cerca di parlare d’altro.

Su questo tema del perdono non è mancato nemmeno il commento della sinistra non cattolica, quella più dura e pura. Ci ha riferito Antonio Socci che Lidia Ravera, l’ex “porcella con le ali”, una femminista storica che impersona al meglio la cattiva coscienza della sinistra più falsa e cattiva, ha commentato sull’Unità che per la figura del tunisino, con la sua comprensibile voglia di vendetta, non poteva mancare “una quota di simpatia”. Invece, secondo la Ravera il pollice doveva essere inesorabilmente verso nei confronti di “Carlo Castagna, mobiliere”, il suocero cristiano che avrebbe “recitato una cavatina sul perdono e contro l’odio”.

Stavolta non si è trattato solo di una coincidenza, perché una comunista come la Ravera non poteva di certo consentire a quel perdono di mettere così platealmente in dubbio l’odio di classe. E difatti, poiché Dio è nei dettagli ma Satana anche, gli antichi umori alla base del suo discorso infame si sono disvelati in una sola parola, buttata lì gelidamente, per definire il povero Castagna e segnare il contrasto con la simpatia per l’ex spacciatore maghrebino: “mobiliere”.

Ma per il resto sono solo consonanze, fili d’erba intrecciati. Il cristiano che perdona leggendo il Vangelo, e il musulmano che invoca vendetta leggendo il Corano. Il popolo cristiano che rimane attonito davanti allo scandalo di quel perdono, così come i pagani del primo secolo si scandalizzavano della croce di Cristo. Il coro mediatico che prima se la prende con i pregiudizi della destra, e poi si contorce nei suoi discorsi pur di dimostrarci che il male provenga sempre da tipi umani assai più vicini al fenotipo del conservatore che a quello del progressista.

E ancora, i giornali e le Tv che dispiegano la parata dei sociologi e degli psicologi per inondare di parole tutto quanto, dribblando accuratamente ogni accenno a questi strani intrecci di pensieri e di culture.
Con i bravi cristiani che si interrogano, che ammirano, che non capiscono e si turbano, mentre i preti di sinistra storcono il naso davanti a un perdono “troppo istintivo per essere autentico”. Con la sinistra storica che invece simpatizza – altrettanto “in automatico” – con l’ex spacciatore immigrato, storcendo il naso nei confronti del mobiliere lombardo.

E infine, come abbiamo scritto sopra, con la donna senza figli – maniaca dell’ordine e della pulizia – che sgozza il figlio altrui, con il marito che la spalleggia, occupandosi della mattanza degli adulti. Tutto questo mentre in parlamento si discute della violenza “di genere” degli uomini contro le donne.

D’accordo, si tratta di strane consonanze che – come ci spiegheranno da sinistra – non devono indurci a “generalizzare”. Ma il quadro che ne esce è pittoresco, e a noi poveri grezzi e pregiudiziosi cattolici di destra non sembra insensato.
Secondo noi queste coincidenze non sono del tutto casuali. Non ci sarà una morale da trarre, ma abbiamo la sensazione che la tragica vicenda di Erba anche su questi argomenti ci abbia voluto dire qualcosa che, nonostante il diluvio di commenti, sui giornali e in Tv non è stata ancora detta. Ma cosa?

02 gennaio 2007

Gli angioletti dell'indifferenza

Puntuali come gli spot pubblicitari dei panettoni, anche quest’anno non sono mancati gli episodi di cronaca delle scuole pubbliche dove non sanno più cosa inventarsi, pur di non menzionare con gli alunni né l’origine né il vero significato del Natale e dell’Epifania.

Di solito si tratta di storie di ordinaria ipocrisia laicista, dove l’odio per le radici cristiane si nasconde dietro un finto – e non richiesto – rispetto per gli alunni musulmani.
Ma stavolta eccovi una storia di nichilismo gaio, dove a farla da padrone più che l’odio è stata l’indifferenza.

Ne parlerò senza fare i nomi, perché si tratta della scuola dei miei figli, che per altri motivi merita comunque rispetto. Ad onore del vero, devo premettere che non appena le è stato segnalato l’accaduto la direttrice ha assicurato un suo intervento, per chiedere alle insegnanti maggiore attenzione, e scusarsi con tutte le famiglie che si sono sentite offese. Tanto che a quel punto sono stato io, che ero stato l’unico a protestare formalmente, a preoccuparmi affinché le maestre non venissero troppo mortificate.

Certo, da chi ha compiti educativi bisogna sempre pretendere molta attenzione e capacità di distinguere. Ma si era capito subito che non è stato per consapevole odio laicista, bensì per colpa di una mentalità indifferentista della quale le insegnanti a loro modo sono anch’esse vittime, che è accaduto quel che sto per raccontarvi.

Dunque, tre giorni prima di Natale, nella palestra dell’istituto si è tenuta la tradizionale recita dei bambini delle elementari.
Stiamo parlando di una scuola pubblica di recente istituzione, dove i crocifissi nelle aule non ci sono mai stati e probabilmente nessuno si è mai posto il problema. Benché in alcune classi – al posto del presepe – campeggino tuttora, fin dallo scorso novembre, le zucche svuotate e i macabri disegni celebrativi della festa di Halloween.

Per comprendere meglio l’ambiente (ed anche il motivo delle mie scarse aspettative) va tenuto presente che si tratta di una frazioncina residenziale alle porte di Bologna, a nemmeno un chilometro dall’inizio della cinta urbana. Una zona collinare alle pendici dell’appennino tosco-emiliano, dove le amministrazioni rosse godono quasi sempre di maggioranze abbondanti, e dove le celebrazioni delle gesta dei partigiani ancor oggi si ripetono imperterrite, senza apparenti segni di stanchezza.

La strada che attraversa l’abitato è più o meno la stessa che conduce al monastero dove si appartò, purtroppo senza ritirarsi del tutto dalla politica, don Giuseppe Dossetti. Ed è quella dove oggi, la domenica, si può vedere un imbolsito Romano Prodi transitare con la sua bici da corsa, in cerca di percorsi più salutari e meno impervi di quelli che lui stesso impone alla vita italiana durante il resto della settimana.

Insomma, in pratica siamo nei sobborghi di Sodoma e Gomorra. Ma a dispetto dell’ambiente assai poco propizio il senso del Natale era stato pienamente rispettato – almeno sulle prime – dagli organizzatori della recita.

Ed era stata una scelta a suo modo controcorrente, soprattutto se si considera che, nella scuola in questione, la presenza di bambini stranieri sta cominciando a farsi sentire: per avere un’idea di cosa ci riserva il domani, basta pensare che nella classe di mio figlio maggiore, su diciotto alunni, gli unici ad avere fratelli sono lui e i due immigrati musulmani, mentre tutti gli altri sono figli unici.

D’altra parte, nel collegio delle maestre c’è anche un’insegnante di religione che sa fare il suo lavoro senza timori reverenziali, e le sue colleghe non si sono mai mostrate ostili. Tanto che i bambini hanno iniziato ad esibirsi proprio con i canti della tradizione cristiana. Persino con il coraggioso tentativo di proporre un Adeste Fideles in versione originale, cioè in latino.

I bambini musulmani hanno partecipato anch’essi allo spettacolo, senza troppi problemi, con le loro mamme velate e qualche papà dalla pelle olivastra, seduti tra il pubblico insieme agli altri genitori. Insomma, una specie di recita modello, nonostante l’incombere del multiculturalismo.
Ma ecco, sul finire della manifestazione, il patatrac relativista.

Con il consueto entusiasmo un po’ forzato, le insegnanti hanno annunciato che i bimbi avrebbero concluso lo spettacolo cantando “Imagine” di John Lennon. Una maestra ha imbracciato la chitarra, e ha iniziato ad accompagnarli, assieme ad un giovanotto coi capelli lunghi da rockettaro (forse un fidanzato reclutato per l’occasione) comparso all’improvviso dietro ad un organo hammond.

Fin qui la scelta era solo discutibile, considerato l’anarchismo ateo che trasuda dal testo della canzone.
Ho appena scritto che, considerato l’ambiente circostante, si tratta comunque di una scuola pubblica ampiamente al di sopra delle aspettative. Complici la difficoltà dell’inglese e l’atmosfera rilassata e buonista, il tutto sarebbe senz’altro potuto passare come un suggestivo augurio di pace.
Se magari avessero avuto anche la compiacenza di usare un testo ridotto, non sarebbe stato nemmeno il caso di fare obiezioni. In fondo, nessuno ha tirato fuori bandiere arcobaleno o robe del genere.

Tuttavia, affinché nessuno avesse dubbi linguistici o di altro tipo, le insegnanti hanno ben pensato di dotare i bambini di una serie di cartelli in inglese, dove accanto a qualche bel riferimento anni ’70 (due cuoricini con scritto “peace” e “love”), si esplicavano i contenuti della canzone.

E allora ecco i nostri figli tutti schierati, con al collo scritte come “no war”, “no violence”, “no greed”, “no hunger”, alternate a “no possessions”, “no religion”, “no heaven”, “no hell”. E’ comparso perfino un “no envy”, nessuna invidia, che probabilmente era frutto di un intento pedagogico dell’insegnante, visto che mi risulta che nel testo nella canzone questo peccato capitale non sia stato contemplato, forse in quanto troppo di sinistra.

Posso assicurare che, anche per i genitori meno sensibili, nel complesso non è stato un bel vedere. Nel migliore dei casi, l’effetto è stato un po’ ridicolo, visto che i bambini erano anche vestiti da angioletti, con tanto di aureola sulla testa: vedere degli angeli di otto anni che propagandavano l’ateismo e l’anarchia faceva uno strano effetto, ma lasciava subito intendere che alla base di tutto non c’era voglia di propaganda, ma solo un’estrema, crassa, piatta e consolidata incapacità di distinguere tra i valori.

Tra il pubblico, ho chiesto il parere di qualche cattolico “adulto” di mia conoscenza - come è facile incontrarne da queste parti - che si è limitato a dirmi che mettere sullo stesso piano il rifiuto della guerra e quello della religione, era un bell’esempio di indifferentismo.
Oltretutto, il bambino al quale è capitato al collo il cartello “no religion” era il figlio di una signora che la domenica canta nel coro della parrocchia. La quale ovviamente non ha gradito, e lo ha anche detto, ma non ha voluto dare seguito al suo disappunto.

Poi ovviamente in sala c’ero io, che mi sono imbufalito ma – vista la situazione per altri aspetti tutt’altro che ostile, e quindi un po’ surreale – mi sono limitato a dire cortesemente a una maestra che avrei scritto alla direttrice, incassando le sue immediate scuse. Anche perché per comprendere le ragioni dell’accaduto bastava guardare la faccia di quella giovane insegnante nel momento in cui, ascoltandomi, ha improvvisamente realizzato quale potesse essere il problema.

Alla predetta maestra ho chiesto come fosse stato possibile, nel momento in cui avevano preparato i cartelli, che nessuno si fosse preoccupato di cosa sarebbe potuto succedere se quello con scritto “no religion” fosse finito al collo di uno dei bimbi musulmani, col padre presente in sala.
Ed è stato dalla sua espressione perplessa che ho capito che era sincera. Non è che l’avessero fatto apposta, è proprio che non ci avevano nemmeno pensato.

Non stiamo parlando di insegnanti ex sessantottini, ma di ragazze di nemmeno trent’anni, tutte laureate, e presumibilmente tutte elettrici della sinistra più buonista che si possa immaginare. E’ probabile che il pacifismo pop degli anni ’70 ormai per loro sia ormai un luogo comune, un dato acquisito, un messaggio di bontà e amore che va bene per tutte le stagioni, e in particolare a Natale.

Nonostante tutta l’attenzione politicamente corretta che anch’esse di solito ci mettono, non era nemmeno passato loro per la mente che quei cartelli potessero dispiacere a qualcuno.
Chi avrebbe mai dovuto formalizzarsi per un “no religion”, o anche un “no heaven” o un “no hell”, visto che a queste cose ormai non ci pensa più nessuno? Tantomeno erano state colte le implicazioni anarcoidi di quel “no possessions”, che nelle intenzioni delle maestre avrebbe dovuto passare, al massimo, come un invito alla generosità.

Beata ignoranza, verrebbe da dire. Certo, ripeto che per chi è investito di un compito pedagogico è stata una disattenzione imperdonabile. Per quanto sempre meno grave di una volontà deliberata di propagandare il laicismo sotto le mentite spoglie del politicamente corretto.
Da bravo avvocato, non ho potuto fare a meno di chiedere garanzie sul fatto che ai bambini non venga inculcata una mentalità irrispettosa sia del sentimento religioso che del valore sociale della proprietà. Ma a giudicare dalla rapidità con cui la direttrice si è scusata, il problema non si era nemmeno mai posto, almeno non in questi termini.

La morale della favola, è che non c’è niente da fare: per non cascare dalla padella del laicismo nella brace dell’indifferenza, l’unico rimedio è l’attenzione dei genitori. Senza che questi possano illudersi di essere il lievito della pasta (e dico questo, parafrasando l’ultimo appello di Giuliano Ferrara, per quei cattolici “adulti” che subito dopo la recita non hanno voluto dare seguito al disappunto iniziale). Perché qui invece si tratta di essere il sale di una terra ormai desertificata.