Don Domenico Gianni venne ucciso il 24 aprile 1945 da alcuni partigiani a Calderara di Reno, alle porte di Bologna. Era stato prelevato nella sua canonica, nella frazione di San Vitale. Il suo corpo venne abbandonato a pochi passi dal cimitero. Le ragioni dell’assassinio? Le racconta Giampaolo Pansa nel suo best seller 'Il sangue dei vinti' (pagina 286): “…lo accusavano di un’azione nefanda, durante un rastrellamento sul finire del 1944: l’aver indicato ai tedeschi le persone da catturare. Ma era un tragico equivoco. Don Gianni era stato costretto a salire sulla camionetta di un ufficiale delle SS e a girare per le strade del paese. Qualcuno lo vide e cominciò a dire che il prete era una spia dei nazisti. L’arcivescovo di Bologna, il cardinale Nasalli Rocca, gli consigliò di lasciare San Vitale e di riparare a Bologna. Il parroco obbedì. Poi, il giorno dopo la liberazione (che avvenne il 21 aprile), ritenne di dover ritornare alla canonica. Non aveva fatto nulla di male. E voleva ristabilire la verità dei fatti. Ma appena arrivò, lo presero e lo uccisero”.
Chi scrive queste righe ha 41 anni, non ha vissuto quella stagione di sangue ma abita a un centinaio di metri da dove venne portata a termine l’esecuzione. Leggendo le righe di Pansa è stato come prendere un pugno nello stomaco, improvviso e fortissimo. Ho iniziato una mia piccola indagine parlando con parroci e persone del posto. Ma sono pochissimi, ormai, coloro che rammentano la vicenda di don Gianni. Una storia come tante per quei tempi, si potrà pensare. Non è vero. Questa, come tutte le altre ad essa simili, è una storia speciale. E lo sarà fintanto che le istituzioni (cioè noi tutti) non avranno fatto qualcosa per ridare dignità agli assassinati dal furore ideologico, ai martiri della nostra alba democratica.
Ciò che avete appena letto è il testo di una lettera che il quotidiano “Il Resto del Carlino” pubblicò a mia firma i primi giorni del 2004. Ma ciò che è ancora più interessante raccontare, e che forse descrive meglio di qualsiasi analisi storico-sociologica il clima di paura che ancora opprime la mente dei protagonisti di quei fatti, i pochi rimasti in vita, è ciò che successe qualche giorno dopo.
Una sera ricevetti una telefonata. “Lei è Girotti, quello che ha scritto di don Gianni sul Carlino?” mi fa una voce un po’ tremante e senza particolari accenti. “Sì, lei chi è?”. “Non ha importanza, per ora. Sono un testimone di quei fatti, li ho vissuti direttamente. Da troppo tempo mi porto un peso sulla coscienza, ora me ne voglio liberare. Ci possiamo incontrare?”. “Certo – rispondo -. Ma come faccio a riconoscerla?”. “Che ne dice se ci vediamo a Calderara lunedì, alle 8.30, sotto il monumento ai partigiani in piazza della Resistenza (una sorta di contrappasso, nda)? Io arriverò con un quotidiano sotto braccio e lei farà altrettanto. Sarà il modo per riconoscerci”. “Bene – faccio io -. A lunedì”.
A quell’incontro, stile guerra di spie a Berlino anni ’60, con la sola differenza che eravamo agli inizi degli anni Duemila, andai e vi trovai il mio misterioso interlocutore. Altri non era che il chierichetto di don Gianni, che all’epoca viveva con la famiglia proprio in alcuni locali della canonica presi in affitto. Qualche sera dopo venne a casa mia e in circa tre ore mi raccontò per filo e per segno come andarono le cose. La base della squadraccia di partigiani era a Lippo, altra frazione di Calderara, ed era capitanata da una donna, morta di pazzia non molti anni dopo, a Reggio Emilia. Gli altri componenti erano tutti uomini ben noti in paese. La donna riteneva don Gianni una spia dei tedeschi, lo accusava di aver fatto fucilare il suo fidanzato, anch’egli partigiano. “Non era vero nulla” mi disse il testimone. “La diceria nacque solo perché i nazisti avevano costretto più volte don Gianni a girare per il paese su un loro mezzo. Ma il parroco non riferì mai nulla”. Il 21 aprile, la banda irruppe nella canonica e sequestrò don Gianni. Lo tenne segregato in una porcilaia che era nei pressi per un paio di giorni, giusto il tempo di mettere in scena un processo farsa. Processo che si concluse con la sua condanna a morte, che venne eseguita il 24, con contorno di sevizie invereconde.
Graziano Girotti
(l’Opinione, 25 aprile 2007)
27 aprile 2007
19 aprile 2007
Ratzinger, gli Usa e i comunismi fai da te
Gratta gratta, la sinistra - radicale o meno - di casa nostra resta una fiera avversaria della società occidentale. Anzi, chiamiamo le cose col loro nome: ne resta una nemica senza se e senza ma. A suo modo coerente. E quindi irredimibile. Partito democratico, evoluzione in senso socialista come si diceva una volta o riformista come invece si dice oggi? Ma per favore. Sono tre – ripetiamo: tre - i partiti che si richiamano direttamente all’ideologia comunista: Rifondazione, Pdci e Pcl (partito comunista dei lavoratori, sì c’è anche questo). Se poi alla troika appena citata, aggiungiamo la casa madre – i Ds – che con la tradizione togliattiana e gramsciana un qualche collegamento non proprio trascurabile ce l’hanno e non l’hanno mai rinnegato, arriviamo a quattro.
E così l’Italia si porta a casa un altro campionato del mondo: quello di schierare il maggior numero di formazioni che si richiamano alla falce e martello. D’accordo? Sbagliato: sembra impossibile, ma ne manca ancora una. Forse la più potente di tutte, la più radicata, quella che ha più iscritti arrabbiati: la Cgil. Un sindacato che è soprattutto un partito, o un partito che è soprattutto un sindacato. Fate vobis. Infine, la ciliegina sulla torta. Una grande torta, sia chiaro: parliamo della Lega delle cooperative. Il polmone economico dello schieramento che abbiamo appena descritto. Una macchina da 45 miliardi di euro all’anno, di fronte ai quali i 3 miliardi dell’impero berlusconiano fanno apparire Silvio come un accattone con le pezze al sedere. A proposito di conflitto d’interessi. Ma questo è un altro discorso.
Un blocco sociale, politico, economico e culturale che ha rappresentato e continua a rappresentare una palla al piede dello sviluppo dell’Italia di dimensioni colossali. Un blocco arciconservatore quando si tratta di difendere rendite di posizione maturate nei decenni: le cosiddette liberalizzazioni, per esempio, altro non sono che provvedimenti in favore delle coop. E relativista a tutto spiano laddove la sfida venga portata sul piano della dignità umana e dei valori di fondo: pensiamo ai dico o alla inseminazione artificiale. In ogni caso sempre intellettualmente ipocrita, per cui ciò che va bene ora potrebbe non andare bene fra cinque minuti: la missione in Afghanistan era stata di guerra lo scorso anno fino alle votazioni di aprile, per poi trasformarsi come per magia in missione di pace non appena D’Alema è diventato ministro degli Esteri.
E’ più che naturale, allora, che siano due i bersagli preferiti da chi difende il portafoglio e rinuncia a tutto il resto: gli Stati Uniti e la Chiesa, in particolare il papato di Ratzinger. I primi sono l’icona dell’individuo che rischia da solo, di colui che conta sulle proprie forze, in pratica del cittadino che non appalta il cervello ad altri (siano partiti o sindacati). Il loro imperialismo, vero o presunto, viene preso a pretesto per attacchi che hanno altri obiettivi. Pertanto se gli Usa subiscono il più grave attentato terroristico della storia dell’umanità, lo slogan che viene coniato un minuto dopo e ripetuto in tutte le salse è: “Se la sono cercata”. L’America viene dipinta come l’oppressore principale dei deboli della terra quando la realtà è esattamente opposta: sono i deboli ad aver sempre visto in essa una opportunità di riscatto.
Papa Benedetto XVI è il supremo guardiano dei valori in cui è nato e si è formato il nostro mondo occidentale. Un guardiano che oltre a gridare cose che la Chiesa va gridando da secoli, si dimostra tanto laico da sostenere che non c’è fede senza ragione. Ecco allora che le sue uscite si trasformano in “indebite intromissioni nella vita dello Stato”. Ratzinger spaventa i materialisti dei giorni nostri perché si dimostra molto più moderno di loro, e quindi va delegittimato. E come lo si delegittima? Dicendo che il Vaticano non si fa gli affari suoi. E guarda caso quando in giro per l’Italia compaiono scritte infamanti e minacciose verso monsignor Bagnasco, capo dei vescovi, a sinistra la solidarietà non è affatto scontata. A Bologna, la maggioranza cofferatiana che amministra la città si è spaccata al momento di votare un documento di solidarietà al vertice della Cei. Come dicevamo, non è un problema solo di radicalismi più o meno spinti. Il segretario della federazione diessina del capoluogo emiliano, Andrea De Maria, faccia da ragazzo acqua e sapone, cresciuto fin dall’adolescenza a pane e politica, se ne è uscito fuori dicendo che la spaccatura “non è tanto grave”.
Si torna al discorso iniziale: un universo – quello sinistrorso – il quale, anche se in profondo conflitto al proprio interno per ragioni esclusivamente di potere, nei fatti si afferma come un moloch dedito alla difesa di se stesso e null’altro.
Graziano Girotti
Tratto dal quotidiano L’Opinione di mercoledì 18 aprile 2007
E così l’Italia si porta a casa un altro campionato del mondo: quello di schierare il maggior numero di formazioni che si richiamano alla falce e martello. D’accordo? Sbagliato: sembra impossibile, ma ne manca ancora una. Forse la più potente di tutte, la più radicata, quella che ha più iscritti arrabbiati: la Cgil. Un sindacato che è soprattutto un partito, o un partito che è soprattutto un sindacato. Fate vobis. Infine, la ciliegina sulla torta. Una grande torta, sia chiaro: parliamo della Lega delle cooperative. Il polmone economico dello schieramento che abbiamo appena descritto. Una macchina da 45 miliardi di euro all’anno, di fronte ai quali i 3 miliardi dell’impero berlusconiano fanno apparire Silvio come un accattone con le pezze al sedere. A proposito di conflitto d’interessi. Ma questo è un altro discorso.
Un blocco sociale, politico, economico e culturale che ha rappresentato e continua a rappresentare una palla al piede dello sviluppo dell’Italia di dimensioni colossali. Un blocco arciconservatore quando si tratta di difendere rendite di posizione maturate nei decenni: le cosiddette liberalizzazioni, per esempio, altro non sono che provvedimenti in favore delle coop. E relativista a tutto spiano laddove la sfida venga portata sul piano della dignità umana e dei valori di fondo: pensiamo ai dico o alla inseminazione artificiale. In ogni caso sempre intellettualmente ipocrita, per cui ciò che va bene ora potrebbe non andare bene fra cinque minuti: la missione in Afghanistan era stata di guerra lo scorso anno fino alle votazioni di aprile, per poi trasformarsi come per magia in missione di pace non appena D’Alema è diventato ministro degli Esteri.
E’ più che naturale, allora, che siano due i bersagli preferiti da chi difende il portafoglio e rinuncia a tutto il resto: gli Stati Uniti e la Chiesa, in particolare il papato di Ratzinger. I primi sono l’icona dell’individuo che rischia da solo, di colui che conta sulle proprie forze, in pratica del cittadino che non appalta il cervello ad altri (siano partiti o sindacati). Il loro imperialismo, vero o presunto, viene preso a pretesto per attacchi che hanno altri obiettivi. Pertanto se gli Usa subiscono il più grave attentato terroristico della storia dell’umanità, lo slogan che viene coniato un minuto dopo e ripetuto in tutte le salse è: “Se la sono cercata”. L’America viene dipinta come l’oppressore principale dei deboli della terra quando la realtà è esattamente opposta: sono i deboli ad aver sempre visto in essa una opportunità di riscatto.
Papa Benedetto XVI è il supremo guardiano dei valori in cui è nato e si è formato il nostro mondo occidentale. Un guardiano che oltre a gridare cose che la Chiesa va gridando da secoli, si dimostra tanto laico da sostenere che non c’è fede senza ragione. Ecco allora che le sue uscite si trasformano in “indebite intromissioni nella vita dello Stato”. Ratzinger spaventa i materialisti dei giorni nostri perché si dimostra molto più moderno di loro, e quindi va delegittimato. E come lo si delegittima? Dicendo che il Vaticano non si fa gli affari suoi. E guarda caso quando in giro per l’Italia compaiono scritte infamanti e minacciose verso monsignor Bagnasco, capo dei vescovi, a sinistra la solidarietà non è affatto scontata. A Bologna, la maggioranza cofferatiana che amministra la città si è spaccata al momento di votare un documento di solidarietà al vertice della Cei. Come dicevamo, non è un problema solo di radicalismi più o meno spinti. Il segretario della federazione diessina del capoluogo emiliano, Andrea De Maria, faccia da ragazzo acqua e sapone, cresciuto fin dall’adolescenza a pane e politica, se ne è uscito fuori dicendo che la spaccatura “non è tanto grave”.
Si torna al discorso iniziale: un universo – quello sinistrorso – il quale, anche se in profondo conflitto al proprio interno per ragioni esclusivamente di potere, nei fatti si afferma come un moloch dedito alla difesa di se stesso e null’altro.
Graziano Girotti
Tratto dal quotidiano L’Opinione di mercoledì 18 aprile 2007
13 aprile 2007
Imperialismo islamico
Gli studiosi che si interrogano sulle cause profonde dell’attuale sollevazione islamista globale hanno avanzato due interpretazioni opposte ma egualmente errate, scrive l’esperto di storia e politica mediorientale Efraim Karsh, docente al King’s College di Londra, nel suo recente libro Islamic Imperialism: A History (Yale University Press).
Secondo la teoria suggerita da Bernard Lewis, la violenza islamica nasce dal profondo senso di frustrazione patito da una civiltà consapevole della propria arretratezza e incapace di adattarsi al mondo moderno; secondo un’altra teoria, molto diffusa tra gli accademici, gli scrittori e i giornalisti, il terrorismo islamico costituisce una reazione alla politica estera occidentale di alcune frange estremiste, che non rappresentano l’Islam nel suo insieme e gli insegnamenti autentici della religione musulmana.
Entrambe le spiegazioni presentano quindi il rinascente jihad islamico come un fenomeno essenzialmente reattivo. Efraim Karsh, analizzando le guerre islamiche da Maometto ai giorni nostri, sostiene invece che la guerra santa non è una risposta a una crisi interna o a una minaccia esterna, ma rappresenta una spinta aggressiva che è sempre stata parte integrante della tradizione islamica: “Dal primo impero arabo-islamico della metà del settimo secolo all’impero ottomano, l’ultimo grande impero musulmano, quella dell’Islam è una storia di continue ascese e cadute di imperi universali e di non meno importanti sogni imperialistici”.
Gli intellettuali e gli esperti di politica internazionale sono abituati ad applicare le categorie di “impero” e di “imperialismo” esclusivamente alle potenze occidentali. Karsh dimostra però che l’idea di creare un impero islamico su scala mondiale ha ispirato fin dalle origini tutti i leader musulmani, come confermano le citazioni che pone all’inizio del suo libro: nel marzo 632 Maometto affermò, nel suo discorso d’addio: “Mi è stato ordinato di combattere tutti gli uomini fino a quando non diranno che non c’è altro Dio fuori di Allah”; nel 1189 il Saladino pronunciò parole molto simili: “Attraverserò questo mare per inseguirli nelle loro terre, fino a quando non rimarrà più nessuno sulla faccia della terra che non riconosca Allah”; quasi otto secoli dopo, nel 1979, l’ayatollah Khomeini si esprimerà nei medesimi termini: “Noi esporteremo la nostra rivoluzione in tutto il mondo, fino a che le grida ‘Allah è il solo Dio e Maometto è il suo Messaggero’ risuoneranno ovunque”; infine anche Osama bin Laden, nel novembre 2001, ha dichiarato: “Mi è stato ordinato di combattere gli uomini fino a quando non diranno che Allah è l’unico Dio e Maometto il suo Profeta”.
È vero che anche l’Occidente cristiano ha avuto le sue epoche di espansione imperiale, ma rispetto alla storia dell’Islam vi sono alcune differenze fondamentali. Nei primi secoli il Cristianesimo si è diffuso pacificamente, senza l’ausilio del potere politico e malgrado le persecuzioni. Gesù Cristo aveva concepito il Regno di Dio in senso spirituale e aveva tenuto distinta la sfera di Cesare da quella di Dio. La nascita dell’Islamismo invece è inestricabilmente legata alla creazione di un impero mondiale, perché Maometto intendeva edificare, in nome di Dio, un regno terreno. Nel diciottesimo secolo l’Occidente aveva già perso il suo messianismo religioso, e alla metà del ventesimo secolo ha abbandonato anche le sue velleità imperiali. L’Islam invece, osserva Karsh, ha conservato la sua ambizione imperiale fino ai giorni nostri.
Non è del tutto corretto, quindi, interpretare l’attentato alle Torri Gemelle di New York come una risposta alla politica estera statunitense. L’America costituisce l’obiettivo naturale dell’aggressione islamica, spiega Karsh, perché la sua posizione di preminenza mondiale rappresenta l’ostacolo principale alla restaurazione del califfato: “La guerra di Osama bin Laden e degli altri islamisti non è contro l’America in sé, ma è l’ultima manifestazione di un ricorrente sogno imperiale. Questa visione non è per nulla confinata ai gruppi fondamentalisti, come testimonia la vasta approvazione popolare che l’attentato dell’11 settembre ha riscosso nei paesi islamici. Nell’immaginazione storica di molti musulmani Osama Bin Laden non è altro che una nuova incarnazione del Saladino”.
Tra gli obiettivi dei fondamentalisti non c’è solo la riconquista della terre che un tempo furono sotto il dominio musulmano, come Israele, la Spagna o i Balcani. L’enorme aumento della popolazione islamica in Europa avvenuto nell’ultimo decennio, grazie alla massiccia immigrazione e all’elevata natalità, rappresenta per molti musulmani il segnale evidente che anche paesi come la Francia e la Gran Bretagna, che non sono mai stati soggetti al potere islamico, fanno ormai parte della “Casa dell’Islam” e sono quindi diventati legittimi obiettivi di conquista. In Francia, ricorda Karsh, una persona su dieci è musulmana, e pare che cinquantamila cristiani all’anno si convertano all’Islam; per diversi anni a Bruxelles il nome Muhammad è stato il più popolare tra i neonati; in Inghilterra le moschee sono più frequentate delle chiese anglicane. Le profezie sul trionfo finale dell’Islam in Europa sono ormai diventate un luogo comune tra gli islamici, e vengono espresse tranquillamente e alla luce del sole da imam che passano per moderati.
Il mondo conoscerà tempi meno turbolenti di quelli attuali, conclude Karsh, quando si sopiranno definitivamente le secolari ambizioni imperialistiche musulmane: “Solo quando le elite politiche del Medio Oriente e del mondo musulmano si riconcilieranno con la realtà del nazionalismo statuale, rinunceranno ai sogni imperiali pan-arabi o pan-islamici, e vedranno l’Islam come una fede personale e non come uno strumento delle proprie ambizioni politiche, gli abitanti di queste regioni potranno guardare ad un futuro migliore, libero da aspiranti Saladini”.
Guglielmo Piombini
(Il Foglio, 7 aprile 2007)
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