29 maggio 2007
Luca e Pier, liberali all'emiliana
Pochi mesi fa, lo ricorderete, intervenendo sul tema delle liberalizzazioni del governo, Casini provò a fare il politico di peso proponendosi come colui che dall’interno dell’opposizione sarebbe stato in grado di stimolare Berlusconi e portarlo eventualmente sul terreno dell’appoggio a Prodi. Come dire: io sì che me ne intendo nel centrodestra, fatemi lavorare per convincere quell’eretico del Silvio. Bene. Bisogna ricordare che quando la Casa delle Libertà esisteva e governava, fu proprio Rocco Buttiglione, allora ministro delle Politiche comunitarie, esponente di spicco dell’Udc e soprattutto mai smentito dal suo capo di allora e di oggi, a voler introdurre nella Finanziaria 2004, all’articolo 14, il cosiddetto appalto in house. Nulla di particolarmente complicato, anzi quasi banale. Con esso, l’amministrazione locale affida l’erogazione di servizi (acqua e gas, giusto per citarne due) direttamente alle aziende pubbliche quotate in borsa e controllate dall’ente locale stesso, in deroga alle disposizioni di matrice comunitaria. Sia chiaro: Forza Italia e il resto della coalizione non sono stati in grado di impedire il fattaccio. Sbagliando.
Dal momento che due più due fa sempre quattro, accade che queste società di servizi si siano trasformate in uno straordinario strumento di potere in mano alle maggioranze politiche sul territorio, che anche tre anni fa tendevano in larga maggioranza verso il rosso. A Bologna, per esempio, ai tempi del sindaco Guazzaloca, fu proprio il suo assessore al Bilancio Gian Luca Galletti (oggi stimato deputato casiniano e uomo forte di Pier sotto le Due Torri) a voler creare un colosso economico-finanziario come Hera Holding spa, che guarda caso si regge in piedi grazie all’appalto in house. Il presidente di Hera Bologna è Luigi Castagna, esponente di spicco dei Ds emiliani e sindaco storico di Casalecchio, paesone alle porte di Bologna. Fine della prima storiella. La seconda riguarda un vero e proprio eroe per tutte le stagioni, Luca Cordero di Montezemolo. Anche lui recitò la parte del critico super partes del governo a proposito di liberalizzazioni. “Vedete? – sembrava dire il presidente di Confindustria – Lo scorso anno attaccammo Berlusconi, e oggi facciamo la stessa cosa contro Prodi”.
Poi, che ti combina il ferrarista quando torna nella terra natìa per passare dalle parole ai fatti? Lui è numero uno (anche) di Bologna Fiere, società-colosso che si occupa di gestire gli eventi fieristici del capoluogo emiliano romagnolo. Da qualche tempo la Regione spinge per entrare nel consiglio di amministrazione, un ruolo che dal punto di vista della dottrina del libero mercato non c’entra un fico secco. L’ente pubblico deve fare l’ente pubblico, non l’imprenditore. Questo perfino Montezemolo lo sa. Ma lui si è dichiarato “strafavorevole” all’ingresso. Ad una condizione: che i soci pubblici (ce ne sono anche altri, infatti) restino in minoranza rispetto ai soci privati. La conseguenza è che il Cordero vuol fare l’imprenditore con i soldi dei cittadini. Vizietto che puzza lontano mille miglia di consociativismo, esattamente come l’olezzo che proviene dagli appalti in house. Un modo di fare impresa e politica che forse qualche anima bella può pensare relegato in un polveroso passato. Balle. E’ più che mai attuale.
Graziano Girotti
(L'opinione, 29 maggio 2007)
24 maggio 2007
Servizi pubblici, in Emilia tariffe più alte del 30 per cento
Salomoni, come si è giunti a questa situazione?
“Negli ultimi quindici anni sono stati accorpati servizi come l’acqua, il gas e i rifiuti, giusto per citare i principali, e si è sbandierato che lo si faceva in nome dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità. Si sono create le agenzie d’ambito ottimale, le cosiddette Ato, cui ogni Comune doveva partecipare. Chi non lo ha fatto è stato commissariato. In queste agenzie, con competenza provinciale, le strategie vengono decise a maggioranza dei Comuni. Ma non sulla base del principio ‘una testa, un voto’. Bensì in considerazione del numero degli abitanti. In pratica, è il capoluogo insieme a qualche paese della cintura a decidere per tutti. Sono le stesse Ato a fissare le tariffe”.
Poi cosa è successo?
“Sono stati scelti i gestori dei servizi, a trattativa privata, che non sono altro che le ex municipalizzate, ora quotate in borsa. Per esempio, Hera. Anche in queste aziende i soci sono i Comuni. Essendo società per azioni, a pesare è il capitale conferito. In realtà non sono stati conferiti denari ma gli impianti e il valore della concessione della gestione. Ancora una volta a contare in modo determinante sono il capoluogo di provincia e pochissimi altri centri della cintura…”.
Mi lasci indovinare: nella sostanza, si tratta di un sistema dove chi deve controllare come viene svolto il servizio e con quali tariffe è lo stesso che quel servizio deve svolgere. E’ così?
“Esattamente. Utilizzando slogan come razionalizzazione dei servizi e delle risorse nonché efficienza di tutto il sistema in fatto di sicurezza ed economicità, si è creato di fatto un monopolio di compertura istituzionale in mano a una manciata di Comuni. E in Emilia-Romagna è diventato il monopolio dei Ds, funzionale alle loro clientele e a dare forza al sindacato come entità collaterale al partito. Una sete di potere che ha scatenato esigenze finanziarie anormali e dunque tariffe anormali. Infatti da noi sono più alte del 25-30% se si confrontano con quelle che ritroviamo nel resto d’Europa. Insomma un sistema costoso, burocratizzato e non sufficiente sul piano della qualità. Peraltro ripetuto nel trasporto su gomma con le solite agenzie d’ambito e quant’altro. Ma nel prossimo futuro ci potrebbe essere di peggio”.
Addirittura…
“L’obiettivo di medio-lungo termine è quello di creare un'unica agenzia per i servizi di carattere industriale per tutta la regione. In questo modo si farebbe massa critica – sostengono i promotori - che darebbe vantaggi in sede di acquisto delle materie prime, a prezzi più contenuti. A parte il fatto che i prezzi più bassi si possono strappare anche con l’alleanza (consorzio per acquisti) di diverse agenzie più piccole, a me questo gigantismo spaventa molto e non promette nulla di buono”.
Perché?
“Perché così si ammazza la concorrenza e si dà origine a un super-monopolio. Lascerei da parte l’agenzia unica per concentrarmi sui rispettivi territori provinciali, mettendo realmente in concorrenza aziende private e quelle partecipate dai Comuni. Si favorirebbe una crescita sana del business. I Comuni, dal loro canto, se non possono più pensare di gestire i servizi in economicità, come accadeva un tempo, possono però fare altre cose. Penso alla costituzione di s.p.a, da loro compartecipate con una reale possibilità di controllo ed intervento nella gestione a favore dei cittadini. Sarebbero più snelle perché riguarderebbero territori più limitati (quelli provinciali e non oltre), i cui utili tornerebbero nelle tasche dei Comuni per poi essere investiti a beneficio dei cittadini, oppure i Sindaci potrebbero decidere di contenere le tariffe dei servizi migliorando la vita dei propri cittadini”.
Graziano Girotti
(L’opinione, 24 maggio 2007)
23 maggio 2007
No alla schiavitù cinese
Lo si fa perché lo si deve fare e basta. Perché si è un Paese serio, non in senso prodiano ovviamente. Traduzione. Nei giorni scorsi il Parlamento tedesco ha approvato quasi all’unanimità una mozione con la quale chiede alla Cina di chiudere il suo migliaio di gulag, o meglio: laogai, ancora attivo.
I laogai sono campi di concentramento dove vengono rinchiusi non criminali comuni bensì dissidenti politici o chi comunque ha commesso reati di “idee”, comprese quelle religiose. Il sistema è quello dei lavori forzati, cui vengono costretti anche bambini e donne. Insomma, una sorta di moderna schiavitù con la falce e martello.
La genialata porta la firma di Mao Zedong che nel 1950 si inventò i laogai “organizzandoli e strutturandoli sul modello dei gulag sovietici. Almeno 50 milioni di cinesi ne hanno sofferto e ne continuano a soffrire”. A dirlo è Harry Wu, che nei laogai ci ha passato diciannove anni della sua vita e che dopo essere emigrato negli Stati Uniti nel 1985, ha dato origine alla Fondazione di Ricerca sui Laogai.
Sulla stampa italiana, quella fighetta e conformista, la notizia proveniente dalla Germania è passata sotto silenzio. Come volevasi dimostrare. Per carità, non sia mai detto che per una volta i giornaloni possano essere di qualche utilità. Se trent’anni fa c’erano le “sedicenti” brigate rosse, oggi ci sono i “sedicenti” gulag cinesi. Nessuno l’ha scritto, beninteso, ma qualcuno – ne siamo certi – in quei giornaloni sarebbe tentato di pensarlo.
E poi il nostro presidente del Consiglio, Romano Prodi, sponsorizzando uno strombazzato viaggio di propaganda a favore delle imprese italiane nell’Impero di Mezzo, aveva buttato là la proposta di togliere l’embargo europeo sulla vendita di armi a Pechino. Notare la differenza di stile e di palle: i tedeschi urlano in faccia al drago cinese di smetterla di perseguitare coloro che vogliono restare liberi, noi – con l’aria di quelli che la sanno lunga – gli regaliamo qualche caramella per tenercelo buono. E magari ci riteniamo pure furbi.
Non solo. C’è anche un problema di evoluzione della sinistra politica. La denuncia tedesca è forte perché può contare sul voto favorevole di Spd e Verdi, che mettono in mostra una maturità e un riformismo davvero autentici e rassicuranti. Forze politiche di sinistra che non esitano ad attaccare pubblicamente la più grande potenza comunista ancora esistente.
Da noi riuscite a immaginarveli Diliberto, Giordano, Pecoraro Scanio e mettiamoci pure lo stesso Mussi manifestare davanti all’ambasciata cinese chiedendo la chiusura dei laogai? Pura fantapolitica. Perfino Fassino faremmo fatica a vederlo. O forse sì, tanto ormai va dappertutto. Un dato è certo: una volta di più la sinistra nostrana mette in mostra un provincialismo culturale da fare spavento.
Graziano Girotti
(L'opinione, 23 maggio 2007)
17 maggio 2007
Ricordo di Luigi Calabresi
16 maggio 2007
Be an umarell
Invece, il libro fotografico che stiamo per presentare dovrebbe interessare non solo ai nostri concittadini. Infatti, esso è dedicato ad un tipo umano assai diffuso per tutta Italia, e anzi in tutta Europa.
Ognuno di noi prima o poi avrà dovuto farci caso, anche se si tratta di persone non molto appariscenti. Le quali tuttavia hanno molto da dirci.
Insomma, è appena uscito per i tipi della Pendragon, casa editrice bolognese, il libro fotografico Umarells, di Danilo “Maso” Masotti.
L’autore è un blogger di un certo livello, che in questa sua opera prima libraria ha raccolto le numerose istantanee che nel corso degli anni sono apparse sul suo “spettro della bolognesità”, e soprattutto nel blog collaterale che da il titolo al libro: Umarells.
Che significa, anzi chi sono gli umarells (con l'accento sulla e)?
Prima di spiegarlo è bene chiarire perché sono così importanti. Anche coloro che a Bologna non hanno mai messo piede, se non transitando in treno per la stazione, dovrebbero perlomeno intuirlo.
Dietro l’epopea degli umarells si nascondono infatti concetti, esperienze e problematiche universali. Come del resto si può capire anche dall’uso del plurale sassone, che da solo ci rivela come un vocabolo di chiara origine petroniana già da tempo si sia trasformato in una definizione globish.
I superficiali pensano che gli umarells siano gli anziani. Non è del tutto vero, perché la mezza età è già più che sufficiente per entrare nel novero. Altri invece dicono che gli umarells sarebbero i pensionati, a causa della loro caratteristica vocazione a trascorrere le giornate osservando quelli che lavorano. E questa definizione è già più accurata della precedente, vista anche la sensibile differenza che in Italia intercorre tra l’essere vecchi e l’essere pensionati.
Nemmeno il fatto di essere in pensione, tuttavia, riesce ad esaurire il concetto. Infatti, a ben vedere non tutti i pensionati sono umarells così come non tutti gli umarells sono pensionati (nel libro di Masotti c’è anche un’apposita sezione dedicata al rapporto tra umarells e mondo del lavoro).
In realtà, lo stesso autore ha più volte chiarito che l’umarell altro non è che l’uomo della strada. L’uomo comune, senza particolari qualità, e in posizione di mezzo rispetto ad ogni possibile parametro statistico. Medio per età, così come per livello di istruzione e tenore di vita. Un uomo normale, per quanto la sua vocazione da umarell lo faccia apparire oggettivamente modesto. Del resto, coloro che si posizionano a metà di qualsiasi classifica socioeconomica, nella realtà appaiono assai meno brillanti di quel che dice la statistica.
Per questo l’umarell è una figura tipicamente bolognese, ma nel contempo universale. Eugenio Riccomini, erudito piuttosto famoso in città ma – come si conviene ad un certo stile felsineo – pressoché sconosciuto fuori dalle mura cittadine, sostiene che la caratteristica più spiccata del bolognese sarebbe proprio quella della medietà.
La vocazione di chi vive nel capoluogo emiliano è quella di aspirare a traguardi di alto livello, per poi doversi adattare alla posizione di centroclassifica, a volte cercando di dissimulare, ma altre volte con un certo provinciale compiacimento.
Ai bolognesi di tutti i ceti piace apparire, e vivere il più possibile alla grande. Di solito, senza essere mai stati in grado di scalare le vette più alte, ma nel contempo senza nemmeno essere mai caduti nel provincialismo gretto o nel degrado. Questo è vero in tutti i campi della vita sociale, dall’imprenditoria al mondo dello sport.
Così l’umarell è diventato anche lui una figura universale. Anche perché il suo diffondersi è espressione di un conflitto generazionale che ci riguarda tutti. Annota il Maso nell’introduzione: “gli umarells hanno sempre qualche soldo da parte, ci aiutano a comprare la casa, quando tirano le quoia con la q ci lasciano in eredità denaro e/o immobili, educano i nipotini mentre andiamo a lavorare in cerca di improbabili realizzazioni mantenendo sia i nipotini, sia noi che andiamo a lavorare”.
Perchè proprio qui sta il punto.
L’umarell per diventare tale ha attraversato un’esistenza lavorativa, nella consueta posizione mediana, durante i lunghi decenni di vita italiana nei quali anche un operaio o un impiegato di fila potevano facilmente comperarsi la casa con il mutuo, e mettere pure dei soldi da parte.
Anche se di solito non è uno di quelli che hanno fatto il ’68 (sennò invece farebbe parte della classe dirigente), ormai l’umarell appartiene alla stessa loro generazione.
E difatti, grazie all’allungamento della vita media, la maggior parte degli umarells sono nello stesso tempo sia pensionati che di mezza età, semplicemente perché appartengono all’ultima generazione di italiani che ha potuto permetterselo. I giovani finanzieranno, in attesa di diventare umarells anche loro, prima ancora di accorgersene.
L’umarell peraltro non è necessariamente comunista o di sinistra, anche se quando è bolognese lo è nella gran parte dei casi. Proprio perché a Bologna essere comunisti fa parte della normalità statistica.
Sono state le odierne legioni di umarells, quando erano giovani, a ricostruire la ricchezza nazionale, a partire dagli anni nei quali i loro coetanei all’università si preparavano a dissiparla, sognando la rivoluzione. Ma nel contempo, sia i futuri umarells che i sessantottini sapevano in partenza che avrebbero avuto vita relativamente facile fino alla vecchiaia, potendo contare su uno Stato assistenziale sempre più sprecone e dissennato.
Uno Stato che al contrario tutti noi che andiamo dai venti ai quarantacinque anni, che siamo figli o a volte già nipoti degli umarells, stiamo pagando di tasca nostra. Senza poterci nemmeno sognare le pensioni che ora si godono gli umarells medesimi.
Per questo abbiamo bisogno di ereditare i loro immobili e di incamerare i loro aiuti economici, specie se vogliamo farcela ad avere bambini e a poter un giorno diventare umarells anche noi.
Comunque, il fatto stesso di essere umarell significa rappresentare una risorsa universale. Nel suo omonimo sito, e poi nel libro, “Maso” Masotti ci ha fatto riscoprire che gli umarells sono ormai tantissimi.
L’invecchiamento della popolazione, e il fenomeno della denatalità, hanno fatto sì che ormai le nostre città sono invase dagli umarells. Non sono particolarmente appariscenti, in quanto usualmente sono già in strada alle sette di mattina, prima per fare qualche fila (non importa quale) negli uffici e poi la spesa alla coop. E poi ci osservano e ci controllano.
Infatti il vero umarell è soprattutto un controllore. Non avendo mai un cazzo da fare (sempre a causa di quel discorso sul welfare di cui sopra) il vero umarell passa le sue giornate a osservare le nostre vite e controllare quel che ci succede.
Per questo Masotti ha voluto iniziare a osservare loro, nel già citato blog intitolato all'umarells uòtching (watching), dal quale il libro è stato tratto, e al quale ormai collaborano non pochi umarells uòtchers che girano per le città e le campagne con la macchina digitale sempre in tasca.
Come dicevamo, gli umarells non amano farsi notare, un po’ come gli hobbits di Tolkien. Però non sono necessariamente piccoli di statura, nonostante il nome (che nell’italiano di Bologna si traduce con “omarello”).
Infatti – non confondiamo – un uomo piccolo di statura a Bologna è un umarein, un omarino. E anche lui può diventare una figura universale. Specialmente nella versione dell’umarein pugnetta. Definizione che può sembrare poco lusinghiera, ma in realtà serve a definire un tipo umano decisamente positivo. Diverso, fin troppo diverso dal generico umarell, che invece è un passivo, un uomo che guarda.
L’umarein pugnetta è un uomo piccolo di statura, ma estremamente energico e scattante.
Un uomo che diffonde attorno a sé ottimismo e una certa elettricità. Un uomo che non cade quasi mai e comunque si rialza sempre. Frenetico e molto propositivo. Tecnicamente immortale. Non vi ricordano qualcuno queste definizioni? A noi sì, e solo per quello a parlarne ci si apre il cuore.
15 maggio 2007
Epifani cerca lavoro: accetti un consiglio...
Da tempo il sindacato approfitta di un ruolo politico che nel corso degli anni si è costruito basi sempre più solide grazie alle spregiudicatezze della cosiddetta Triplice (ma soprattutto della Cgil) e alla disattenzione golosamente complice di una parte rilevante dei partiti, desiderosi di passare alla cassa per raccogliere voti. Chiamiamolo pure conflitto di interessi, perché di questo alla fine si tratta, all’interno della sinistra. Non a caso Cofferati, ieri capopolo senza macchia, è finito a fare il sindaco - peraltro contestato e minacciato - di una città-simbolo come Bologna. Un conflitto che fa il paio con quello di natura economica, e di dimensioni enormi, che riguarda le cooperative rosse, i cui privilegi e la funzione di foraggiatori di denaro e di personale verso il partito di riferimento (Ds) rappresentano un fenomeno unico in Europa se non addirittura nel mondo.
A parte la digressione, resta il problema iniziale: Epifani non si vede più. O non quanto dovrebbe, mettiamola così. Il manovratore, quando è amico, non va disturbato. Se si esclude qualche timida intemerata sulle pensioni, più da Casa Vianello che da ruolo istituzionale, il successore del Cinese si sta distinguendo come un leader pallido e emaciato. Malato, insomma: di mutismo cronico. “Ne sono convinto – interviene Rodolfo Ridolfi, autore del pamphlet di successo ‘Le coop rosse. Il più grande conflitto di interessi nell’Italia del dopoguerra’ (edito da Libero e Free Foundation) -: Epifani ce lo ritroveremo tra qualche tempo a guidare il partito unico della sinistra, che metterà insieme i transfughi dei Ds e le formazioni più radicali”.
Nel frattempo, noi un suggerimento per toglierlo dall’apatia l’avremmo. Alcuni mesi fa venne smantellata una cellula brigatista con base in Veneto. Tra i suoi aderenti diversi erano molto vicini alla Cgil. Ne seguirono polemiche e promesse di pulizia. Cosa ha fatto l’organizzazione da allora? Fossimo in Epifani, con tutto il tempo libero che ci ritroviamo per non voler mettere in difficoltà l’alleato Romano, inizieremmo un lungo giro per l’Italia a ficcare il naso in ogni sezione territoriale. Vorremmo conoscere come viene gestita, chi sono gli attivisti, che cosa fanno. La sensazione, invece, è che quegli arresti siano stati vissuti come un incidente di percorso.
Nel nostro Paese, se non lo si è ancora capito, stiamo assistendo a una ripresa – disordinata, confusa, ma sempre di ripresa si tratta – della violenza politica, per ora più verbale che fisica. Ma la preoccupazione monta. Sempre a Bologna, nell’ultimo anno, le minacce ad esponenti politici e giornalisti sono aumentate in modo esponenziale. Il sindacato ha un ruolo determinante nel tentare di bonificare la società. A condizione che riconosca le proprie debolezze passate e presenti. Epifani, allora, dia un contributo vero alla democratizzazione della sinistra estrema e si impegni sul serio a togliere acqua ai pesci del brigatismo di ritorno. Può fare molto. Per il movimento sindacale, per la sinistra ancora innamorata della falce e martello, e per l’Italia.
Graziano Girotti
(l'Opinione, 15 maggio 2007)
14 maggio 2007
Quando i laicisti fanno autogol ...
C’eravamo in quanto bloggers cattolici e liberali, e proprio per questo autenticamente laici. Ci siamo andati assieme ad alcune componenti della “base” di Forza Italia. Ci siamo cioè andati con quei cittadini e con quei politici locali che non guardano alle convenienze del momento, e non potendo negoziare sui valori che sono alla base di ogni movimento popolare e conservatore europeo, non potevano astenersi in un’occasione come questa.
Ci siamo andati assieme a persone che, nella loro vita privata, a volte nemmeno tengono famiglia. Anzi, siamo andati assieme a loro proprio perché anch’essi siano messi in grado di crescere una famiglia. Siamo andati da cattolici, ma assieme a non credenti, a laici autentici che sanno che senza le famiglie non ci sarebbe futuro nemmeno per loro.
Non siamo caduti nell’equivoco delle “due piazze”. Eravamo arrivati al Family Day con qualche tentazione di cascarci, per
Ce lo hanno insegnato i bambini. I nostri figli, e le migliaia di bambini che si sono accalcati con noi in Piazza San Giovanni. Le frotte di ragazzini che, non appena si diradava uno spazio tra la folla, iniziavano a correre e a saltare, cercando uno spazio vuoto per poter giocare senza perdersi, e per prendere a calci le bottigliette d’acqua vuote. Ce lo hanno insegnato i neonati in carrozzina, e quelli nei marsupi. Quelli che ogni tanto venivano presi in braccio dalla mamma, con il papà che cercava di farli bere direttamente dalle bottigliette d’acqua distribuite dai volontari.
Ce lo hanno insegnato i ragazzi e le ragazze venuti da lontano con i genitori e spesso con i nonni, a proprie spese e quasi sempre con mezzi poco comodi, per affrontare una piazza affollata e battuta dall’alto da un sole già estivo. Quelli che ogni tanto non ce la facevano, e dovevano accucciarsi all’ombra di qualche striscione per riprendere fiato.
I nostri bambini, i nostri figli adolescenti, e persino i tanti neonati in carrozzina, hanno mostrato al Paese che il Family Day non è stata una manifestazione politica. E’ stato un grande evento di popolo. Un popolo laico che si è ritrovato unito. Il popolo dei movimenti del laicato cattolico, e quello dei movimenti laici per la libertà.
Un popolo che di solito si vede poco in piazza. Ma che in passato – e i media laicisti non l’avevano capito neanche allora – all’epoca del referendum sulla selezione genetica ed uccisione degli embrioni umani (cosiddetta “fecondazione assistita”) già aveva dimostrato di essere maggioranza.
Invece in Piazza Navona, nella non-piazza costruita mediaticamente, non c’erano bambini. Solo i soliti politici e i soliti militanti.
Ma non perché quella fosse una manifestazione politica, alla quale di solito (anche giustamente, se vogliamo) i bambini non si portano. Se avessero potuto portarli, lo avrebbero fatto. Tant’è che un paio di ragazzini in prima fila – ad uso dei fotografi e delle telecamere di regime che pietosamente riprendevano la piazza solo dal basso – li avevano rimediati.
Tuttavia la realtà è che, anche mettendosi tutti insieme, i loro figli piccoli e anche quelli adolescenti non sarebbero bastati nemmeno per riempire il bar-tabaccheria che c’è in Piazza Navona.
L’ostinata realtà delle cose ci dice che la non-piazza dei laicisti arrabbiati è composta da un popolo che sta per estinguersi. Non tanto politicamente, che se è per quello per ora hanno ancora in mano tanta parte del potere e dei mezzi di comunicazione. Sta per estinguersi demograficamente.
Quelli di Piazza Navona erano la retroguardia arrabbiata dell’Italia dell’1,2 figli per donna. Dell’Italia che, coerentemente, non investe nulla sulla famiglia, perché odia
Ma di fronte alla realtà della vita, quella che fa sì che le ragioni degli uomini liberi alla fine prevalgano sempre, loro hanno ormai già perso. Nessuno li ha battuti, ma semplicemente si sono estinti. Schiantati sotto il peso del loro nulla.
Come ormai è schiantato il progetto di legge sui Dico, che nell’agenda delle cose che sarebbero da fare o non fare per la famiglia, è già stato depennato.
Bastava osservare le migliaia e migliaia di bambini che, con i nostri figli, erano in Piazza San Giovanni, per capire quali sono i problemi più seri e urgenti che la gente comune pone alla politica.
Quoziente familiare, detassazione, revisione dei criteri di assistenza pubblica per le famiglie più deboli, libertà scolastica. Questa è l’agenda che
E che non venga loro in testa di potersela cavare con la solita elemosina, più mediatica che reale, prendendo i fondi da qualche scampolo del “tesoretto”, che forse avanzerà dalla grande abbuffata delle loro solite clientele sindacali e parastatali.
Non ci cascherebbe più nessuno. Piazza San Giovanni ha detto forte e chiaro che chiunque, dal mondo della politica, voglia partecipare alla costruzione del futuro del Paese, deve porre in primo piano la questione della famiglia. Quella famiglia che il popolo del Family Day costruisce e porta avanti, a fatica, ogni giorno, tra discriminazioni e vessazioni sempre più intollerabili da parte dello Stato.
L’unica famiglia che esiste, e che costruisce il futuro di tutti.
(nella foto: al Family Day, Leonardo ed Emanuele, i due figli maggiori di Max, mandano un saluto a Piazza Navona e ai bloggers laicisti di Tocqueville)
04 maggio 2007
Bologna mette alla prova il Pd
Un elenco che vede la presenza anche del meno noto Riccardo Malagoli, presidente del quartiere San Donato, rosso che più rosso non si può, contro il quale nei mesi scorsi è stata orchestrata una campagna di vera e propria intolleranza. Insomma, il capoluogo emiliano-romagnolo è da troppo tempo al centro di movimenti strani per ritenere questi ultimi frutto di curiose coincidenze. Sotto le Due Torri vive e prospera da tempo un movimento no-global frastagliato ed effervescente, che ha contato qualcosa se non addirittura molto nella elezione del Cinese a primo cittadino della città quasi tre anni fa.
La sensazione, allora, è che l’ala più estrema stia presentando il conto all’interno della sinistra. Cofferati, a partire dal giorno dopo il suo ingresso a Palazzo d’Accursio, ha tentato di accreditarsi come sindaco superficilmente di “destra”: sgomberi di insediamenti abusivi, battaglia contro i lavavetri, campagne per la legalità più annunciate che tradotte in pratica. Addirittura si è arrivati a chiamarlo “sceriffo”. Uno sceriffo più con le babbucce ai piedi che con la colt tra le mani, a dire la verità, se solo ti sporgevi a scrutare quello che concretamente stava facendo. Ma quello che contava era l’immagine, costruita grazie al contributo di una buona fetta di stampa amica. Un sindaco di sinistra, anzi: sindacalista, che non voleva essere riconosciuto come tale e che per di più bastonava chi lo aveva aiutato a vincere.
In sostanza, Cofferati (che non a caso viene contestato dovunque vada in Italia) viene preso di mira per impersonare l’avamposto di quella sinistra che vuole cambiarsi i connotati e pretende di ricondurre a “ragione” chi i connotati se li vuole mantenere intatti. Orgogliosamente. Peggio: viene vissuto come colui che non ha avuto remore a sfruttare appoggi e voti degli estremisti, ma ora si vergogna della compagnia.
Sono le contraddizioni, enormi e lampanti, che stanno esplodendo. Ed è questa la prima sfida per il partito democratico. Tanto per cambiare da Bologna si può vedere nella palla di cristallo della sinistra.
Graziano Girotti
(l’Opinione, 3 maggio 2007)
02 maggio 2007
Il futuro dell'Europa sarà la Mezzaluna?
Sullo stesso problema l’opinionista paleolibertarian americano Tom Bethell (autore di una brillante guida “politicamente scorretta” alla scienza, Le balle di Newton, in uscita per Rubbettino) ha pubblicato un allarmante articolo sul numero di ottobre 2006 della rivista American Spectator, intitolato “Christians Fall, Muslims Rise” (“Calano i cristiani, aumentano gli islamici”). Bethell ricorda la situazione del Libano, un paese pacifico e fiorente fino alla metà degli anni Settanta, ma che è precipitato nell’inferno della guerra civile quando il peso demografico dei musulmani ha raggiunto una massa critica. Un tempo i cristiani rappresentavano il 70 per cento della popolazione; oggi sono probabilmente scesi sotto il 50 per cento, ma da più di cinquant’anni non si fanno censimenti per evitare di sconvolgere gli equilibri politici del paese.
Il Libano, considerato un tempo “la Svizzera del Medio Oriente”, oggi è un territorio pericoloso, diviso in enclavi in conflitto tra loro, dove gli attentati e le violenze politiche sono all’ordine del giorno. Quello che dovrebbe preoccuparci è che l’evoluzione demografica del Libano si sta ripetendo, anche se più lentamente, nell’intera Europa occidentale. Il paese dei cedri rappresenta quindi un microcosmo del nostro futuro. Ci mostra come potrebbe essere l’Europa alla metà del secolo, quando le comunità islamiche costituiranno delle minoranze corpose in molte aree geografiche del vecchio continente.
L’espansione dell’Islam in Europa, secondo Bethell, è una diretta conseguenza dell’abbandono del Cristianesimo. Subito dopo l’attentato suicida nella metropolitana di Londra del 2005 lo storico inglese Niall Ferguson osservò che il “vuoto morale” lasciato dalla decristianizzazione sembra aver creato “un facile obiettivo d’attacco per l’altrui fanatismo religioso”. “È in questo vuoto che sono entrati l’Islam e i musulmani”, ha aggiunto Daniel Pipes sul New York Times: “il Cristianesimo è debole ed esitante, mentre l’Islam è robusto, ambizioso e assertivo”. Pipes prevede che prima o poi, come nel Medio Oriente, “le grandi cattedrali dell’Europa diventeranno vestigia di una civiltà scomparsa”, oppure verranno demolite o trasformate in moschee.
Il vantaggio decisivo dei musulmani è che non hanno perso il rispetto e la fede nella propria religione. In Europa, invece, il Cristianesimo è sotto attacco costante da più di due secoli, e questi assalti sono venuti spesso dal suo interno. Negli ultimi decenni, nota Bethell, gli imam e i mullah non hanno avuto bisogno di dire una sola parola contro il Cristianesimo, perché tutto il lavoro era già stato fatto per loro da schiere di critici, riformatori, apostati e transfughi. Molti gesuiti hanno aderito alla teologia della liberazione, mentre gran parte delle confessioni protestanti hanno abbracciato l’ambientalismo, il pacifismo, il terzomondismo, il femminismo o altre mode ideologiche progressiste.
La maggioranza degli intellettuali europei crede in una visione mitologica della storia, secondo cui l’Europa era irrimediabilmente arretrata e repressa prima che il Rinascimento e l’Illuminismo liberassero finalmente la società dalle catene del Cristianesimo, aprendo la strada a tutte le cose meravigliose che sono venute dopo. A parte qualche “trascurabile” incidente di percorso (il terrore giacobino, le guerre napoleoniche, due guerre mondiali, i genocidi, i totalitarismi) la cultura progressista è assolutamente certa che l’Europa contemporanea sia di gran lunga migliore dell’Europa del passato, e che sia stata la distruzione del Cristianesimo a far nascere questo meraviglioso mondo nuovo. La verità, naturalmente, è che il Cristianesimo ha generato la civiltà europea, rivitalizzando la decadente cultura greco-romana. Questa civiltà cristiana è stata l’artefice del “miracolo europeo”, arrivando nel diciottesimo secolo a surclassare in ogni campo tutte le altre civiltà della storia. Solo a quel punto gli illuministi hanno dichiarato che tutto quello che era avvenuto prima di loro era sbagliato e da buttare.
Il risultato di questa prolungata aggressione al Cristianesimo è l’Europa post-cristiana che abbiamo sotto gli occhi. Questa Europa “liberata” dalla sua religione tradizionale è moribonda, codarda e in bancarotta.
Moribonda: a partire dalla contestazione degli anni Settanta, il declino del Cristianesimo è andato di pari passo con il crollo delle nascite. Il rigetto del tradizionale insegnamento religioso favorevole alla procreazione e alle famiglie numerose ha aperto la strada alla diffusione di massa di pratiche contro la vita, come l’aborto, la contraccezione e il controllo artificiale delle nascite. In questa nuova visione “liberata” della vita, i figli sono diventati una spesa e un fardello insostenibile.
Codarda: gli europei secolarizzati preferiscono sottomettersi all’Islam che lottare per difendersi. Pochissimi hanno avuto il coraggio di difendere il Papa dalla brutale aggressione islamica subita dopo il discorso di Ratisbona. Non credendo nell’aldilà, gli europei attribuiscono valore solo alla vita presente, e per questo motivo hanno già deciso di arrendersi. Non possono rischiare la vita perché è l’unica cosa che hanno da perdere. Come ha scritto un autore omosessuale olandese emigrato dal suo paese: “Non ho mai lottato per la libertà. Sono capace solo di goderla”. Nessuno combatte sotto le bandiere dell’edonismo, nemmeno gli edonisti stessi. Il motto “meglio dhimmi che morti” ha già preso il posto del vecchio slogan della Guerra Fredda, “meglio rossi che morti”.
In bancarotta: la mentalità edonistica, con il suo breve orizzonte temporale, ha prodotto anche il declino dell’etica del lavoro. Gli europei lavorano molte ore in meno degli americani o degli asiatici, ma nello stesso tempo pretendono benefici assistenziali e pensionistici enormemente più elevati. La stagnazione dell’economia europea dovuta alla eccessiva tassazione, regolamentazione e burocratizzazione, associata alla crisi demografica, porterà inevitabilmente alla bancarotta tutti i sistemi welfaristici europei nei prossimi decenni.
I razionalisti post-cristiani che vogliono gettare a mare due millenni di eredità cristiana pensano che non ci sarebbe nulla di male se una forma di ateismo umanistico prendesse il posto della religione. Ma come avverte Bethell, “basta guardare agli aspetti sociali primari, come la demografia, per capire che l’opzione dell’umanesimo secolare non funziona”. L’Europa laicista di oggi fallisce completamente nel compito fondamentale di ogni società, che è quello di perpetuare se stessa nel tempo. Con gli attuali tassi di natalità i paesi europei conteranno cento milioni di abitanti in meno tra mezzo secolo, e i rimanenti saranno in larga misura anziani o musulmani. Di questo passo, l’Europa del futuro avrà l’aspetto di un immenso ospedale geriatrico a cielo aperto, circondato da aree violente e “libanizzate” a prevalenza islamica.
Questa tragica situazione in cui si troveranno gli europei è interamente auto-inflitta: è la conseguenza di decenni di politiche antinataliste, multiculturaliste e socialiste, che hanno fiaccato numericamente, moralmente ed economicamente la popolazione europea. Sarebbe però troppo traumatico per gli europei, soprattutto per le sue elite politico-intellettuali, ammettere di aver sbagliato tutto, e di aver preparato un futuro da incubo per i propri figli e nipoti.
In questi casi la psiche umana si difende con la rimozione (facendo finta di non vedere quello che si ha sotto il naso), e con la proiezione delle proprie colpe su un capro espiatorio: ecco spiegata l’enorme popolarità che godono in Europa le teorie complottiste più cervellotiche, con gli americani e gli ebrei immancabilmente al centro della cospirazione.
Non tutto l’Occidente, infatti, si rassegna a seguire gli europei sulla via della secolarizzazione e dell’estinzione demografica. Gli evangelici americani della Bible Belt e gli ebrei d’Israele sono ancora fortemente religiosi e attaccati alle proprie radici, fanno figli in abbondanza (con una media di quasi tre figli per donna), e non hanno alcuna intenzione di sottomettersi alle prepotenze dei musulmani. A differenza degli europei, gli americani che popolano gli “stati rossi” a maggioranza repubblicana e gli israeliani mostrano ancora ottimismo, coraggio, forza e fiducia in se stessi. Secondo la mentalità dominante in Europa, invece, chi non accoglie tutte le richieste islamiche è un piantagrane, un guastafeste che crea solo dei problemi. È questa l’origine del patologico antiamericanismo e antisemitismo, che in Europa è diventato ormai un’ideologia di massa.
Per fortuna anche nel vecchio continente esistono delle “riserve conservatrici” di fede e di energia: persone che amano la propria cultura e che la vogliono trasmettere ai propri discendenti. Il loro numero forse non è molto più alto di quello dei musulmani attualmente residenti in Europa. Quando tra qualche decennio l’Europa secolarizzata sarà uscita di scena, se non altro a causa della sua sterilità, saranno i cristiani tradizionali e i musulmani le forze dominanti che si contenderanno l’egemonia politica e culturale dell’Europa.
Guglielmo Piombini
PEPE, n. 20, marzo-aprile 2007
01 maggio 2007
A Bologna nasce la sinistra da reality
Questa volta, però, sembra proprio che Cofferati non c’entri. E questa è una notizia nella notizia. Insomma, è successo che una lettera anonima sia stata fatta circolare nelle alte sfere della dirigenza Ds - o come si chiamano oggi - e poi ripresa da un quotidiano locale. Nella missiva si attaccava la fidanzata del capo della federazione provinciale diessina, l’appena confermato Andrea De Maria, accusandola di aver fatto carriera più per ragioni di letto che per reali capacità. La ragazza ha reagito, ne ha dette quattro all’interno del partito e poi se n’è andata in “confessionale”, rilasciando allo stesso giornale una intervista che ha fatto esplodere definitivamente il caso.
Tutto normale? Cose che capitano all’interno dei partiti? Forse negli altri, ma non nei Ds, per di più bolognesi. E’ il segno di una profonda mutazione culturale che colpisce al cuore la formazione politica che aveva fatto del radicalismo chic, della puzza sotto il naso e della lezioncina morale sempre pronta per gli altri, il suo segno distintivo. La diversità era anche questa: impancarsi a unici, legittimi oppositori dell’avanzante becera Italia berlusconiana, quella dei gossip, di chi parcheggia in doppia fila, di chi non paga le tasse. E via cantando. Ora il castello crolla, il primo della classe si ritrova dietro la lavagna e scopre all’improvviso la metastasi avanzante.
Il grande fratello, insomma, è dentro di loro. E’ bastata una letterina stracolma di pettegolezzi da periodico con le tette di fuori per radere al suolo una tradizione di (presunta) primazia genetica. Non solo. C’è un’aggravante. I Ds sono stati e si ritengono il partito delle donne e del femminismo nonché di tutta la retorica sul solidarismo tra le appartenenti all’altra metà del cielo. Tiè. Sia chiaro: il solito De Maria ha dimostrato di trovarsi a suo agio nel nuovo brodo culturale. Dopo aver fatto dichiarare alla bionda girlfriend che stava pensando di dimettersi per salvare il partito, il giorno dopo ha rassicurato tutti: non ci pensa nemmeno. E così si va avanti: con il partitone che non è più il partitone di una volta. Ora poi che sta per sciogliersi nel partito democratico, ne vedremo e sentiremo delle belle.
Dall’opposizione si ha buon gioco a infilare la spada nella piaga. “Mentre si fanno le loro guerricciole interne – commenta il consigliere regionale di Forza Italia, Ubaldo Salomoni – Bologna e l’Emilia-Romagna sono sempre più preda della violenza, ormai diventata il problema numero uno”. A dirlo sono i numeri: secondo i dati Istat del 2006, la regione è la prima in Italia in fatto di abusi sulle donne. A proposito di battaglie femministe. Ma questa è una cosa seria, non è più reality show.
Graziano Girotti
(rubrica lettere – l’Opinione, 27 aprile 2007)