23 febbraio 2008

Aboliamo l'adolescenza

“Il branco”, “generazione degenerata”, “bulli”, “selvaggi con il telefonino”, sono solo alcune delle definizioni usate dai giornalisti per descrivere un ceto giovanile che sale sempre più spesso agli onori delle cronache per delitti efferati, comportamenti viziosi e incivili, atti di vandalismo, gesti di prepotenza verso i deboli, atteggiamenti autodistruttivi, esibizionistici, parassitari. Nelle inchieste giornalistiche gli adolescenti appaiono spesso cinici e annoiati della vita, gregari e conformisti, indifferenti alla religione, sprezzanti delle tradizioni e della cultura (l’interesse per i libri e per la lettura, ad esempio, subisce un vero e proprio crollo con il passaggio dall’infanzia all’adolescenza).

La mentalità dominante tende a idealizzare e ad assolvere i giovani che contestano le “imposizioni” tradizionali, famigliari e sociali. La ribellione adolescenziale, ci assicurano gli psicologi nei talk-show, è un passaggio “formativo” inevitabile e benefico per l’individuo e la società. La durata dell’adolescenza, per di più, viene estesa in continuazione: in origine gli adolescenti erano solamente i “teen-ager” dai dodici ai diciotto anni, ma oggi sono considerati adolescenti anche gli ultratrentenni! Nel 2002 l’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense ha ridefinito l’adolescenza come l’età che va dai dodici ai trent’anni, mentre secondo una ricerca della MacArthur Foundation la transizione all’età adulta non termina prima dei trentaquattro anni.

Due libri usciti di recente negli Stati Uniti hanno messo però in discussione questa visione lassista e indulgente dell’adolescenza: The Case Against Adolescence (Quill Driver Books, Sanger 2007) dello psicologo Robert Epstein, e The Death of the Grown-Up. How America’s Arrested Development Is Bringing Down Western Civilization (St. Martin Press, New York 2007) dell’ editorialista del «Washington Times» Diana West.

La tesi principale del libro di Robert Epstein è che l’adolescenza non è un dato biologico, ma una costruzione culturale che allunga artificialmente il periodo dell’infanzia. Il concetto di adolescenza non esisteva prima del ventesimo secolo, e molte culture non hanno neanche un termine per definirla. Nelle società tradizionali i giovani venivano integrati nella società degli adulti appena dimostravano di esserne capaci, e i fenomeni di ribellione o di disagio giovanile erano inesistenti. Non esisteva una “cultura giovanile” perché i giovani passavano quasi tutto il loro tempo insieme agli adulti, in una società modellata dai valori di questi ultimi.

Oggi invece negli Stati Uniti gli adolescenti vivono a contatto con i loro coetanei in media 65 ore alla settimana, contro le 4 ore alla settimana di un secolo fa.
Questa separazione dei giovani dagli adulti, secondo Epstein, ha avuto origine con la legislazione che ha progressivamente innalzato l’età minima per lavorare e l’età dell’obbligo scolastico, e si è poi approfondita con la mentalità permissiva del secondo dopoguerra. Invece di tutelare i giovani, l’esclusione degli adolescenti dal mondo degli adulti ha finito tuttavia per generare frustrazione: “Immagina come puoi sentirti se il tuo corpo e la tua mente ti dicono che sei un adulto, ma gli adulti attorno a te continuano a dirti che sei ancora un bambino. È questa infantilizzazione forzata  spiega Epstein  a rendere molti giovani arrabbiati o depressi. Più vengono trattati come bambini, più psicopatologie mostrano”.

Il paese dei balocchi

Oggi gli adolescenti vivono in una zona franca nella quale vige l’irresponsabilità quasi completa. Possono spendere molti soldi non propri, stare alzati tutta la notte, fare sesso liberamente, sfrecciare con dei bolidi a gran velocità, sballarsi con alcolici e droghe nei rave-party: tutti comportamenti balordi che non sarebbero tollerati in nessun altro gruppo d’età.

Secondo Epstein l’idea di confinare i giovani per tanto tempo in una sorta di paese dei balocchi non ha senso, perché gli adolescenti sono molto più competenti di quello che si crede. I test dimostrano che gli adolescenti sono pari agli adulti in molte aree di competenza. In alcuni campi, come l’intelligenza, le abilità percettive o la memoria, il picco viene addirittura raggiunto intorno ai 14-15 anni, e poi cala inesorabilmente. Provate a indovinare chi imparerà per primo una lingua straniera, a giocare a scacchi o a usare un apparecchio tecnologico: un quindicenne o un cinquantenne? Eppure, se interrogati, gli adulti sottostimano regolarmente i punteggi ottenuti dagli adolescenti in queste prove.

La ricetta di Epstein per superare la frustrazione e la ribellione dei giovani è quella tradizionale: torniamo a trattarli come adulti e diamogli tutte le responsabilità che desiderano, di lavorare, di possedere proprietà, di firmare contratti, di creare delle imprese, di prendere decisioni sulla propria salute, di vivere e di mantenersi da soli, di sposarsi e di fare figli, e in men che non si dica tutti i petulanti sintomi del “disagio giovanile” svaniranno come nebbia al sole.

La realtà, purtroppo, sembra andare nella direzione opposta, come documenta Diana West nel suo libro dedicato alla “morte dell’età adulta”. Non solo gli adolescenti maturano più tardi, ma gli adulti si mettono sempre più spesso a scimmiottare le mode adolescenziali nei vestiti, nella musica o nei passatempi. Tra gli adulti d’età compresa fra i 18 e i 49 anni sono più numerosi quelli che guardano Cartoon Network della CNN; questa stessa fascia d’età costituisce un terzo dei 56 milioni di americani che assistono al cartone animato SpongeBob, ideato per bambini dai sei agli undici anni; l’età media dei giocatori di videogiochi era di diciotto anni nel 1990, oggi è di trent’anni; molti adulti, anche a 25 anni, continuano a leggere soltanto narrativa giovanile rivolta ai teen-ager.

In cauda semper islam

Il discredito dell’età adulta sorto all’epoca della contestazione giovanile, osserva la West, ha provocato il declino delle virtù legate alla maturità, in favore della gratificazione istantanea, dell’impazienza per i limiti posti dalla realtà, e dell’ossessione per il proprio io tipica dei teen-ager. Un aspetto saliente della cultura occidentale, prima della rivoluzione culturale di quarant’anni fa, era riassunto nella formula “farsi una vita”. Moltissimi romanzi letterari ruotavano intorno all’idea che l’esistenza individuale fosse un’opera in via di progressiva realizzazione. La vita aveva un inizio, un intermezzo e una fine. Passando attraverso queste tappe consecutive l’uomo fortificava il proprio carattere e perfezionava, grazie all’accresciuta l’esperienza, la propria personalità. Al contrario, osserva la West, l’attuale visione della vita come eterna adolescenza si caratterizza proprio per la sua assenza di progetto: è processo senza culmine, viaggio senza destinazione, essere senza divenire.

Hollywood, i giornali e la televisione continuano però ad esaltare la cultura ribellistica giovanile degli anni Sessanta e a ridicolizzare l’età adulta, soprattutto la figura paterna, perché legata al concetto di autorità. Si assiste così al patetico spettacolo di vecchioni, come il sessantacinquenne Paul McCartney, il settantenne Jack Nicholson o l’ottantaduenne Paul Newman, che ancora si atteggiano a giovani ribelli in lotta contro l’establishment.

In queste condizioni, conclude la West, l’Occidente non ha alcuna possibilità di affrontare le sfide del futuro, in particolare la gravissima minaccia portata dall’islam: “L’illimitata espansione dell’influenza islamica in Occidente, attraverso mezzi violenti (il terrorismo) e pacifici (la demografia) potrebbe segnare l’epilogo della civiltà occidentale. Occorrono delle donne e degli uomini maturi che ne prendano atto, non dei bambini che si nascondono di fronte alla realtà, perché le civiltà che rinviano per sempre l’età adulta non giungeranno mai alla maturità”.

Guglielmo Piombini
(Il Domenicale, 23 febbraio 2008)

12 febbraio 2008

Silvio "vo fà lo statista"

Alla fine chi pensava di incarnare la figura autentica del Sarkozy italiano, vale a dire Gianfranco Fini, ha dovuto riconoscere che il phisique du role si attaglia perfettamente a chi negli ultimi mesi lui stesso aveva giudicato essere il suo peggior nemico, ossia Silvio Berlusconi. Il Popolo della Libertà ha ripristinato in modo netto le gerarchie all’interno del centro destra, dopo un periodo che definire burrascoso è da generosi incalliti.

Messe da parte incomprensioni politiche e ripicche personali, il PdL dimostra per l’ennesima volta che nel campo dei moderati e dei liberali, le idee innovative e gli strumenti per realizzarle restano in mano a chi dal 1994 in poi, ossia dalla fondazione di Forza Italia, ha “terremotato” la politica di casa nostra: Berlusconi Silvio da Arcore.

Il quale ha una voglia matta di compiere quel gradino in più che gli consentirebbe di entrare in modo definitivo nella galleria dei (pochi) statisti italiani della storia repubblicana. E sa bene che per riuscirvi deve porre le basi per un accordo col Pd subito dopo le elezioni. Un accordo volto a tirare fuori il Paese dalle secche prima di tutto istituzionali in cui si trova da anni.

A quel punto sarà lui, e soltanto lui, ad aver impresso la svolta necessaria affinché l’Italia torni nel salotto buono dell’Europa e del mondo, con in più un bagaglio di regole moderne. Il discorso che Berlusconi ha tenuto sabato scorso in un caldissimo Teatro Nuovo, a Milano, per esempio, offre alcuni spunti di riflessione che vanno proprio in questa direzione. Intanto vivremo una campagna elettorale poco usuale.

Non mancheranno, sia chiaro, gli accenti forti, le polemiche al calor bianco, le accuse fuori dai denti. Ma Berlusconi punterà, neppure tanto velatamente, a dare una mano a Veltroni a mettere in cantina la sinistra massimalista e chi l’ha portata al governo, Romano Prodi. Legittima il sindaco di Roma all’inizio del suo intervento, facendogli gli auguri per la sua decisione di andare da solo, e delegittima il Professore e l’area comunista accusandoli di essere i veri responsabili del disastro in cui si trova l’Italia. Critica peraltro fondata. Insomma, l’alleanza tra i due partiti maggiori non sarà soltanto all’ordine del giorno dal 15 aprile in poi. Ma lo è già qui e ora.

Anche Veltroni deve però lanciare messaggi per un reale cambiamento di clima nei rapporti col centro destra, se vuole conservare un margine di dialogo con la (futura?) maggioranza parlamentare. Ecco quindi che l’arma dell’antiberlusconismo viene riposta e lasciata in eredità a chi ha già fatto capire di puntare ancora molto proprio sull’antiberlusconismo, che poi si trasforma in accusa di inciucismo nei confronti dell’ex alleato Pd: Diliberto e compagni. Berlusconi, poi, deve ancora sciogliere alcuni nodi importanti.

Questi nodi si chiamano Casini e Mastella. Il primo è stato sonoramente fischiato dalla platea del Teatro Nuovo ogni volta che Berlusconi pronunciava il suo nome. E a chi dalla sala gli urlava di dire qualcosa sul leader dell’Udc, Silvio ha risposto che da quell’orecchio non ci sentiva. Ma la reazione più piccata l’ha avuta quando un altro militante è sbottato gridando che “Mastella non lo vogliamo”. L’espressione del viso di Berlusconi si è fatta severa. “Ricordo – ha detto con tono che non ammetteva repliche – che senza la decisione dell’Udeur di uscire dal governo, ora continueremmo ad avere Prodi. Noi conosciamo il valore della riconoscenza”. Certo, se Mastella avesse fatto cadere Prodi per ragioni ideali e non per sue beghe giudiziarie, tra la base del centro destra ci sarebbero meno mugugni.

Perché non perderemo lo scontro di civiltà

(Questo articolo è tratto dalla prefazione di Guglielmo Piombini al libro di Tony Blankley, "L'ultima chance dell'Occidente", da poco edito dall'editore Rubbettino)

Uno dei fatti culturali più rilevanti degli ultimi anni è lo sviluppo di un filone di studi di orientamento liberal-conservatore che guarda con forte preoccupazione alle tendenze culturali, economiche e demografiche in atto in Europa. Un numero crescente di osservatori vede nel declino della pratica religiosa, nel prolungato calo delle nascite e nella mancata integrazione della crescente immigrazione islamica i sintomi di una grave decadenza culturale, che potrebbe mettere a rischio l’identità cristiana e occidentale del vecchio continente. Le voci che con più autorevolezza hanno denunciato questa crisi spirituale dell’Europa (manifestatasi con il rifiuto delle proprie radici, l’apostasia da se stessa, la dittatura del relativismo e il suicidio demografico), sono state quelle di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

È sorprendente la rapidità con cui si è diffusa questa visione pessimistica: all’inizio del nuovo millennio l’idea che l’Europa fosse un continente decadente, nichilista e senza voglia di futuro sembrava una provocazione, ma oggi è diventata quasi un cliché. Il timore che l’Europa si trasformi in Eurabia, cioè in un continente a prevalenza musulmana, antisemita e ostile agli Stati Uniti, è stato sollevato, tra gli altri, da autori come Oriana Fallaci, Bernard Lewis, Niall Ferguson, Marcello Pera, Robert Spencer, George Weigel, Bruce Bawer, Claire Berlinski, Pat Buchanan, Serge Trifkovic, Daniel Pipes, Melanie Phillips, Paul Belien, Roberto de Mattei, Massimo Introvigne, Mark Steyn, Bat Ye’or, Alexandre Del Valle, Walter Laqueur, Bruce Thornton.

Il libro dell’editorialista del «Washington Times» Tony Blankley, L’ultima chance dell’Occidente (da poco edito dalll’editore Rubbettino) fa parte di questo genere di letteratura, e analizza gli scenari futuri dello scontro di civiltà tra Occidente e Islam.

Blankley ritiene che il vecchio continente sia in pericolo, perché fiaccato economicamente, moralmente e demograficamente dalle ideologie socialiste, relativiste e antinataliste. Lo sviluppo tecnologico e il benessere economico sono una facciata che nasconde una gravi crisi, che potrebbe segnare il tramonto della civiltà europea. L’Europa, infatti, vede profilarsi all’orizzonte un futuro di caratterizzato dal calo e dall’invecchiamento della popolazione, dalla riduzione delle persone in età lavorativa, dall’esplosione delle spese assistenziali e dalla presenza maggioritaria di popolazioni musulmane in molte aree del vecchio continente, per effetto della loro massiccia immigrazione e alta fertilità.

L’islamizzazione strisciante dell’Europa

La situazione dell’Europa, a differenza di altre aree del mondo in via d’invecchiamento come il Giappone, è ancor più infausta a causa della soluzione rischiosa che molte nazioni europee hanno scelto per colmare i vuoti di popolazione: l’immigrazione proveniente dai paesi musulmani. Dall’Africa e dall’Asia milioni di immigrati musulmani si sono riversati nel vecchio continente negli ultimi decenni. Solo cinquant’anni fa le persone di religione islamica residenti in Europa erano 250.000, oggi sono venti milioni. Inoltre i musulmani, diversamente dagli occidentali, hanno famiglie numerose. La loro alta natalità, combinata all’immigrazione, porterà la popolazione musulmana in Europa a raddoppiare nel 2025.

Il problema è che gli immigrati musulmani non sembrano aver alcuna intenzione di integrarsi nella cultura e nelle istituzioni europee. Al contrario, i sentimenti anti-occidentali sembrano aver fatto breccia soprattutto tra gli immigrati di seconda e terza generazione, e proprio nei paesi, come l’Olanda e la Gran Bretagna, che sono andati più avanti nell’applicazione del multiculturalismo. Non solo non si vedono segni d’europeizzazione dell’islam (il mitico euro-islam sognato da schiere di intellettuali e politici europei rimane ancora una chimera) ma, al contrario, alcuni segnali (come la radicalizzazione dell’antisemitismo e antiamericanismo, la cancellazione dei riferimenti alla tradizione giudaico-cristiana nell’arte e nella cultura, l’accettazione di norme della sharia nella giurisprudenza europea, la limitazione della libertà di espressione e di critica dell'islam) sembrano indicare una crescita dell’influenza culturale islamica nel vecchio continente.

L’Europa è popolata sempre più da alieni che fisicamente vivono qui, ma che spiritualmente appartengono alla umma musulmana. Non hanno intenzione di adattarsi all’ambiente che trovano. Offesi e intimiditi dall’ordine e dalla bellezza artistica e monumentale che trovano, desiderano istintivamente rimodellare il paesaggio ad immagine dell’Anatolia, del Punjab o del Maghreb. Il loro continuo influsso sta rendendo questa trasformazione irreversibile in molte aree urbane del vecchio continente.

In questa situazione gravida di pericoli, l’Europa del futuro si troverà davanti a tre scenari possibili. Daniel Pipes li ha riassunti in questo modo: 1) integrazione dei musulmani; 2) dominio musulmano; 3) rifiuto dei musulmani.

L’Occidente vincerà lo scontro di civiltà

Proviamo ad analizzare lo scenario peggiore possibile. Cosa potrebbe succedere nei prossimi decenni se i musulmani, quando gli equilibri demografici saranno per loro più favorevoli, scatenassero il jihad armato in Europa, dando luogo ad una escalation di violenze, atti terroristici, insurrezioni o addirittura ad una vera e propria guerra civile?

Secondo il commentatore americano Ralph Peters, se gli europei (che malgrado tutto rimangono in netto vantaggio per quanto riguarda l’economia, la tecnologia, la scienza, la forza militare) si sentiranno realmente minacciati nella propria incolumità, lasceranno perdere tutti i bla bla multiculturalisti, reagiranno nella maniera più decisa, e non esiteranno ad espellere in massa gli islamici dall’Europa.

A meno che gli islamici non siano in grado di prendere il controllo in pochissimo tempo di tutto il continente, prevenendo una reazione ostile della popolazione autoctona, al primo accenno di problemi si troverebbero circondati da una popolazione ostile e privati del supporto dello stato sociale che permette a molti estremisti di vivere alle spalle della popolazione pacifica e di dedicarsi a tempo pieno al terrorismo. Le eventuali enclavi musulmane non sarebbero economicamente autosufficienti, perché verrebbero tagliate fuori dal mondo esterno, senza materie prima e senza possibilità di commerciare. Se anche si formassero, potrebbero durare poco (come le Krajine serbe o i regni crociati in Terrasanta).

Per di più, data la stagnazione economica e scientifica del mondo musulmano, è probabile che nel prossimo futuro le tecnologie militari modificheranno ancor di più la situazione militare a vantaggio dell’Occidente. Se l’Europa fosse sotto un pericoloso attacco islamico, anche una popolazione invecchiata ed esigua, ma tecnologicamente progredita, potrebbe prevalere sul campo di battaglia. Si aggiunga che, per ragioni storiche e strategiche, gli Stati Uniti non permetterebbero mai che l’Europa cadesse sotto il dominio della Mezzaluna, e quasi sicuramente interverrebbero in soccorso dei resistenti europei come durante la seconda guerra mondiale.

Un’altra tecnologia chiave che potrebbe svilupparsi in maniera inaspettata è la capacità di aumentare la durata media dell’aspettativa di vita attiva degli individui. Già ora l’aspettativa di vita cresce circa un anno ogni quattro, e le capacità fisiche delle persone anziane migliorano. Queste tecnologie sono relativamente costose e potranno essere alla portata solo di economie sviluppate. Questo implica che l’invecchiata popolazione autoctona europea tra venti o trent’anni potrebbe essere molto meno invalida di quello che si pensa oggi. La popolazione islamica, d’altro canto, se non è in grado di produrre un’economia efficiente non sarà in grado di pagare per le stesse tecnologie (anzi, per averle dipenderà dall’Occidente, proprio come avviene oggi per molti farmaci moderni).

L’attuale potere dell’Islam deriva quasi unicamente dal petrolio, i cui proventi gli permettono di finanziare il proselitismo e il terrorismo in tutto il mondo. Il mondo islamico però è sottosviluppato, e non produce nient’altro di significativo. Anche per lo sfruttamento del petrolio è dipendente dalle conoscenze tecniche occidentali, e i giacimenti più proficui e più facili da sfruttare si stanno esaurendo. Quando avrà consumato tutto il suo tesoro, il mondo islamico si ritroverà ancor più povero di prima. Difficilmente avrà le risorse per conquistare l’Europa o per mantenere il controllo sul suo territorio.

Queste considerazioni spingono i fondamentalisti ad agire con estrema urgenza, ma la loro impazienza potrebbe costargli la vittoria. Può darsi infatti che i jidahisti abbiano scatenato troppo presto la guerra santa, suscitando anzitempo una possibile reazione dell’Occidente. L’abbandono della strategia araba della taqiyya, cioè della dissimulazione delle proprie intenzioni, potrebbe rappresentare lo stesso tipo di errore che commisero i giapponesi quando attaccarono gli americani a Pearl Harbor.

Attualmente il vecchio continente si trova nel punto più basso di una fase depressiva, ma forse il confronto con l’islam è proprio ciò che serve agli europei per rivitalizzare la propria civiltà. Le crisi sono sempre rivelate da una sfida proveniente dall’esterno, e per questo oggi l’Europa si trova costretta ad interrogarsi sui fondamenti della propria cultura e a rivalutare gli aspetti positivi, a lungo trascurati, della propria eredità cristiana. Senza la sfida “provvidenziale” lanciata dall’islam, gli europei sarebbero probabilmente rimasti nel proprio torpore decadente, invece di riscoprire la propria identità, affrontare la realtà e prendere le adeguate contromisure.

La storia del XX secolo ha dimostrato che i sistemi ideologici totalitari, pur apparendo dall’esterno solidi e indistruttibili, sono in realtà così rigidi che, quando entrano in crisi, crollano rapidamente e completamente. Lo stesso potrebbe accadere con l’Islamismo radicale, che mancando della flessibilità necessaria per affrontare le sfide del mondo moderno, potrebbe uscirne disintegrato. Secondo Ali Sina, un intellettuale iraniano ex musulmano che sta organizzando un movimento mondiale di apostati dalla religione islamica attraverso il sito www.faithfreedom.org, “l’islam è un castello di carte che crollerà se sufficientemente spinto, e potremo assistere alla sua scomparsa entro qualche decennio”.

Noi europei siamo i fortunati eredi della civiltà che ha prodotto la quasi totalità delle più grandi creazioni intellettuali della storia umana. È necessario però che la religione che ha originato questa civiltà unica sia vivificata, perché la scienza, la filosofia, l’arte e la libertà che tanto apprezziamo, se private dei loro fondamenti culturali originari, sono destinate ad evaporare.

In questa prova cruciale il secolarismo è uno degli ostacoli maggiori, perché incoraggia la denatalità, la mancanza di fiducia, i dubbi e l’apatia. Nell’attuale crisi spirituale dell’Europa il relativismo rappresenta la stessa fatale debolezza del politeismo degli abitanti della Mecca del settimo secolo, che troppo a lungo tollerarono Maometto entro le mura della città, e ne furono poi conquistati. Il multiculturalismo e l’egualitarismo devono essere screditati se l’Europa vuole sopravvivere, perché fino a quando l’ideologia dominante imporrà l’idea che tutte le culture sono uguali, sarà impossibile organizzare una difesa della civiltà occidentale.

L’Europa non diventerà Eurabia, perché dispone ancora di un immenso patrimonio morale e culturale dal quale attingere. Sono queste le ragioni di speranza che Tony Blankley offre ai lettori del suo appassionante libro.