13 dicembre 2008

La fabbrica dei divorzi

Nel 2010 compirà 40 anni la legge Fortuna-Baslini che legalizzò il divorzio, quella “conquista civile” che, secondo la cultura dominante, ha proiettato il nostro paese nella modernità. Tra i pochi guastafeste che si permettono di mettere in dubbio la retorica celebrativa ufficiale ha fatto sentire la propria voce un avvocato bolognese, Massimiliano Fiorin, che, forte della sua esperienza professionale, descrive in un libro appena pubblicato, La fabbrica dei divorzi. Il diritto contro la famiglia (San Paolo, p. 303, € 18,00), la tragica e largamente sottaciuta realtà delle separazioni coniugali e dell’affidamento dei figli in Italia.

Originariamente, ricorda Fiorin, il divorzio era stato presentato come un rimedio per i casi più estremi di disaccordo coniugale, ma col passar del tempo si è andata formando una vera e propria “fabbrica dei divorzi”, manovrata da magistrati, avvocati, consulenti e assistenti sociali, che spinge alla rottura della famiglia alla minima difficoltà, e dalla quale è quasi sempre il padre a uscirne con le ossa rotte, sia finanziariamente che riguardo il rapporto con i figli. Questa micidiale macchina distruggi-famiglia messa in piedi dallo Stato divorzista ha fatto letteralmente esplodere il numero delle separazioni e dei divorzi, che ultimamente hanno toccato il record storico, con un incremento rispettivamente del 57,3% e del 74 % rispetto a dieci anni fa. Il sistema giuridico, infatti, sembra fatto apposta per favorire il coniuge che decide di rompere l’impegno matrimoniale, anche quando mancano del tutto delle serie ragioni.

Tra i principali alleati del divorzismo di massa Fiorin indica lo Stato assistenziale, la cui espansione abnorme a partire dagli anni Sessanta ha finito per determinare un vero e proprio esproprio statale delle funzioni svolte un tempo dalla famiglia. Nelle aspettative delle nuove generazioni, infatti, il mito dello Stato sociale “dalla culla alla bara” si è sostituito alla tradizionale funzione di garanzia e protezione della famiglia, e per tale motivo le giovani coppie non percepiscono più la stabilità della famiglia e i figli come un investimento sul futuro, particolarmente sulla vecchiaia. Ne è seguito il calo del numero dei matrimoni, il crollo delle nascite e, in prospettiva, il collasso economico dello Stato assistenziale, irrimediabilmente minato dalla riduzione della popolazione attiva e dall’invecchiamento della società.

Lo sfascio delle famiglie e il crollo delle nascite non sono stati però gli unici frutti amari dell’ideologia divorzista. La fabbrica dei divorzi, che prometteva libertà e felicità per tutti, ha prodotto, nelle parole di Fiorin, dei veri e propri “oceani di disperazione”: innanzitutto nei figli, dato che gli operatori della fabbrica dei divorzi proprio non riescono a comprendere che l’unico vero interesse dei figli sarebbe che i genitori rinunciassero a separarsi, almeno fino a che essi non saranno adulti.

Ma non meno atroci sono le sofferenze patite da moltissimi uomini separati, che da un giorno all’altro, dopo aver ricevuto l’atto giudiziario della moglie che chiedeva la separazione, hanno perso tutto: moglie, figli, casa, beni, salute, dignità, in situazioni di palesi ingiustizie avallate dai tribunali imbevuti di ideologia femminista, che malgrado l’approvazione della legge sull’affido condiviso nel 2006 continuano a privilegiare in ogni modo la madre.

Non c’è da meravigliarsi, allora, dell’alto tributo di sangue richiesto dalla fabbrica dei divorzi. Secondo la stime riportate da Fiorin, nell’ultimo decennio i morti per la violenza connessa alle esigenze della logica divorzista sono stati più di un migliaio. I suicidi legati a separazioni o divorzi, dal 2000 al 2005, sono stati più di 250, e nel 75 % dei casi hanno riguardato persone di sesso maschile. A queste tragedie bisogna aggiungere le frequenti e gravi sindromi psicopatologiche che colpiscono sia i coniugi in crisi, sia i loro figli, e in molti casi coinvolgono terze persone, soprattutto tra i parenti e i conoscenti dei diretti interessati.

In tutto l’Occidente risulta sempre più chiaro che il matrimonio risolvibile unilateralmente sia stato un esperimento fallito, perché ha portato la società a una situazione non sostenibile nel lungo periodo. Le persone comuni non possono affrontare un simile modello, e la società nel suo insieme nemmeno.

Le legislazioni e le pronunce giudiziarie divorziste emanate a partire dagli anni Sessanta nei paesi occidentali non assicurano infatti a chi si sposa che il coniuge rimarrà fedele al suo impegno. Davanti a tanto sfascio le giovani generazioni di paesi dove questo processo è andato più avanti hanno cominciato a rivendicare il diritto di potersi sposare con norme che garantiscano la vita alla famiglia, e non la sua distruzione. In alcuni stati americani (Louisiana, Arkansas, Arizona) è già possibile contrarre un matrimonio indissolubile molto simile a quello cattolico, detto covenant marriage.

Tra i suoi promotori più convinti vi sono non solo i cristiani, ma anche i libertarians, da sempre favorevoli alla possibilità di organizzare la propria sfera di intimità secondo i propri desideri e convinzioni.

La società occidentale, conclude Fiorin, non troverà mai una via d’uscita rispetto ai guasti e alle sofferenze prodotte dal divorzismo se prima non sarà riuscita a restituire centralità e onore alla figura paterna, che oggi è la parte più debole di tutto il sistema divorzista, quella verso la quale ci si può accanire senza troppi complimenti.

Sulla necessità di rivalutare la figura paterna nella nostra società Fiorin si ispira espressamente alle idee del noto psicoterapeuta Claudio Risè, che è l’autore della prefazione. Dove il padre è ancora presente, infatti, non arriva la disgregazione portata dal divorzio. Laddove invece le famiglie si sbriciolano è perché il padre si assentato, oppure, assai più spesso, perché è stato contestato, spodestato, svilito e messo in condizione di non potersi opporre.

(Guglielmo Piombini, Il Domenicale, 13 dicembre 2008)

05 dicembre 2008

Ma io alla riforma Gelmini do la sufficienza

Imprigionati fra chi, da un lato, santifica il ministro Mariastella Gelmini e chi (molti) dall’altro lo crocifigge a prescindere, abbiamo deciso di avvicinare un cosiddetto operatore del settore, la cui testimonianza - proprio perché non politica - è interessante per capirci qualcosa di più nella sequela di proteste e occupazioni varie. Peraltro non è un operatore qualunque dal momento che Paolo Marcheselli ricopre una carica delicata: quella di dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale dell'Emilia Romagna. Lo abbiamo sentito a margine di un convegno organizzato dalla fondazione Sant’Alberto Magno, a Bologna.

Allora, Marcheselli, quale voto si sente di dare alla riforma della scuola tanto contrastata negli ultimi mesi?
"Al momento sarei portato a dare la sufficienza. Anche se tengo a sottolineare che il decreto legge non offre un’idea di quella che sarà la scuola del futuro. Bisognerà attendere i regolamenti attuativi: sono questi, infatti, gli strumenti legislativi che avranno il compito di delineare il corpo e l’anima della legge. Oggi siamo in una fase di attesa".

Però le contestazioni vanno avanti a ritmo serrato. Sono giustificate?
"Abbiamo visto momenti molto vivaci di protesta, ma se si va a vedere con attenzione il vero motivo di preoccupazione rimane il maestro unico nella scuola primaria e il relativo rischio di cancellazione del tempo pieno. Ma tutti gli altri aspetti sono stati accettati: dal voto in condotta all’obbligo di recuperare il debito durante l’anno pena la non ammissione a quello successivo, alla stessa valutazione in decimi. Sull’inserimento degli stranieri nelle classi comuni vorrei sottolineare che fino all’approvazione dell’ordine del giorno del Governo erano frequentissime le preoccupazioni dei nostri insegnanti circa le modalità ancora in vigore".

Vale a dire?
"Oggi il bambino straniero, compreso quello che non parla una parola di italiano, viene immediatamente inserito nella classe comune. E ciò può accadere in ogni momento dell’anno scolastico: a novembre, febbraio o aprile, per esempio. Se ciò si ripete più volte durante lo stesso anno, i problemi organizzativi acquistano dimensioni enormi. Beninteso: non bisogna confondere questo ragionamento con il senso di accoglienza che è totale sia da parte dei docenti che da parte delle famiglie".

Torniamo al maestro unico: cosa si aspetta concretamente?
"Ripeto: saranno i regolamenti a spiegare come il ministro intenda riempire le 40 ore settimanali. Oggi la legge prevede che al momento dell’iscrizione si possa scegliere fra quattro modelli orari: 24, 27, 30 e 40 ore. Va da sé che il maestro unico lo possiamo trovare soltanto nel primo modello, ma da lì in poi non potrà esserci. Dunque c’è bisogno di nuovi docenti. Certo, ci sono le due ore di insegnamento della religione cattolica, l’ora (o due) di lingua inglese. Dunque siamo già alle 27/28 ore. Da lì in poi? Ricordo che il ministro continua a dire di non voler cancellare il tempo pieno, anzi lo implementerà. Oggi viene assicurato da due insegnanti, ciascuno dei quali ha un obbligo di servizio di 24 ore per complessive 48. Però il servizio che diamo al bambino in realtà è di 40 ore. Ciò significa che abbiamo otto ore da redistribuire".

Insomma, a suo avviso c’è stata o no troppa strumentalizzazione?
"Assolutamente sì. È venuto fuori il punto debole del nostro corpo docente che è quello di essere refrattario a qualsiasi cambiamento. Basta chiedere all’ex-ministro Luigi Berlinguer".

04 dicembre 2008

Ho occupato i binari e me ne vanto

E poi c’è chi dice che la sinistra antagonista è capace solo di fare opposizione, non sapendo neppure dove sta di casa la maturità necessaria per governare. A volte verrebbe da esclamare: verissimo. L’ennesima riprova l’abbiamo avuta in occasione del rinvio a giudizio di chi nel 2003 occupò i binari della stazione di Bologna per protestare contro la guerra in Iraq. Tra di loro c’era anche Tiziano Loreti, segretario provinciale di Rifondazione comunista, un tipo dunque che rappresenta il punto di riferimento politico di un partito - che pur scomparso dal Parlamento - resta vivo e vegeto. Dopo la decisione del magistrato, Loreti se ne è uscito con dichiarazioni riprese da alcuni giornali e che vale la pena leggere di nuovo.

“Quella del 20 marzo 2003 è stata un’azione doverosa che sono contento di aver fatto. La rivendico e vado a processo con animo leggero e orgoglioso. In stazione c’erano migliaia di persone e per uno come me che è sempre stato dentro i movimenti, quella è stata una delle azioni più giuste che abbia mai fatto. Quel giorno ha sbagliato chi non c’era, non chi ha occupato i binari perché si è trattato di un’azione utile e di un atto doveroso. Era necessario protestare contro una guerra che ha fatto migliaia e migliaia di morti”.

Ora, a parte il fatto che per Loreti avremmo una notizia che lo sorprenderà e cioè che ogni guerra causa migliaia e migliaia di morti, e dunque non si capisce perché se ne è andato a rompere le scatole ai viaggiatori in transito per Bologna soltanto per l’Iraq e invece non traslochi direttamente dalle parti di piazza Medaglie d’Oro. Infatti non ci risulta che nel mondo, dopo il 2003, sia scoppiata la pace perenne e tutti gli esseri umani vadano d’amore e d’accordo. Ma, si sa, per certi esponenti politici esistono i conflitti giusti e quelli ingiusti.

La differenza sta nella presenza o meno degli odiati americani. Se ci sono, la guerra è ingiusta e bisogna protestare. Se non ci sono, allora chissenefrega. A parte tutto questo, dicevamo, che comunque fa già girare le scatole, le parole di Loreti contengono in sé un tasso di pericolosità inaccettabile, che va al di là di ogni comprensione e giustificazione. Ci meravigliamo che nessun prestigioso maitre à penser sotto le Due Torri (e dire che non mancano) si sia preso la briga di stigmatizzarle. Quel giorno Loreti e i suoi compagni bloccarono la circolazione ferroviaria causando ritardi per 118 treni.

Quante centinaia di persone, se non addirittura migliaia, hanno dovuto mandare a ramengo la loro giornata a causa dei moti (a corrente alternata) di chi crede di poter decidere per gli altri che cos’è il bene e cos’è il male? Perché Loreti ritiene che la sua scala di valori morali sia più importante della scala di valori dei viaggiatori di quel giorno? Scusate: queste non sono violenze propriamente dette? A Bologna la casta degli studenti, sempre pronta a protestare contro tutto e tutti (a parte i suoi amici politici, s’intende, tra i quali Loreti e Rifondazione) rappresenta un bacino straordinario di carne da cannone per chi è specializzato nel fomentare il dissenso e il conflitto.

Con le sue dichiarazioni, Loreti ha dato un esempio negativo a tutti quei ragazzi che lo ascoltano e lo seguono. Ai quali viene insegnato che ciò che personalmente si ritiene giusto, diventa oggettivamente tale in modo automatico anche per gli altri: volenti o nolenti.