06 settembre 2009

Lettera aperta a Avvenire

Egregio direttore dott. Tarquinio,

se non la buttavate così spudoramente in politica era meglio.

Avremmo solidarizzato con molto minore imbarazzo, verso un uomo che si è visto ingiustamente inchiodato a un proprio errore. Lo avremmo fatto senza riserve, da figli di quella Chiesa che sempre ci insegna a non giudicare, e a distinguere tra il peccato e il peccatore.

Tuttavia, non è rispettoso dei vostri lettori continuare a fingere che noi si sia tutti così faziosi e creduloni da non esserci tuttora accorti che quella sentenza esiste, e che non si sta parlando soltanto di una lettera anonima.
Nel momento in cui il dottor Boffo non ha nemmeno voluto rendere pubblici gli atti, e onorare fino in fondo la verità, è stato offensivo verso la nostra intelligenza puntare tutto sulla tesi della diffamazione e della calunnia.

Va bene, siamo cattolici che vivono nel mondo, e quindi siamo uomini di mondo, oltre che persone caritatevoli. Possiamo capire che nella vita possa capitare la sfortuna di lasciare il cellulare incustodito, e di vedersi così traditi da un amico scapestrato che lo usa per molestare una ragazza, che oltretutto ci conosce.

Può capitare che, per ulteriore sfortuna, questo amico finisca per morire prima di poter sistemare tutto prendendosi la colpa davanti al giudice… e può anche capitare anche di essere così incredibilmente sfortunati che poi vada a finire che la ragazza molestata rimette la querela ma poi non fa a tempo, o si scorda, o si rifiuta o chissà cosa… però alla fine non va a dire al giudice che conosce la tua voce e quindi sa che non eri tu il molestatore, e quindi devono assolverti.

E tanto per non farsi mancare nulla, può anche capitare che quando, per colpa di quella incredibile vicenda, dopo qualche anno ci si trova vilipesi davanti al mondo come molestatori e “noti omosessuali”, ecco, proprio allora - sul più brutto - può capitare che quella stessa ragazza si trinceri dietro il no comment, e ancora una volta non ritenga nemmeno il caso di dire che era il molestatore era un altro e che in quella brutta storia l’omosessualità non c’entrava nulla.

Insomma, può capitare di finire per essere pregiudicati a causa di una serie di coincidenze così sfortunate. Però forse a quel punto occorrerebbe un po’ di prudenza prima di cominciare a gridare alla calunnia e alla diffamazione, se capita che un collega poco caritatevole ti rinfacci la cosa davanti a tutti e non voglia nemmeno lui, come i giudici, credere a quanto sia stata sfortunata la tua vicenda.

Eppure lei, appena insediato come Direttore ad interim, invece di provare a voltare pagina e a farci dimenticare, ci ha subito chiesto di giudicare proprio su quella vicenda e sulla tesi della diffamazione. Con un’impermeabilità verso l’evidenza dei fatti – specie quando ha tirato in ballo le televisioni – che francamente da lei non ci saremmo aspettati, avendo letto i suoi articoli.

A quella parte di pubblico che ancora riesce a ragionare senza criteri di schieramento, si è data l’idea che anche tra gli uomini di comunicazione cattolici la logica familiare (nel senso peggiore della parola) prevalga su tutto. Anche su quell’amore per la verità nella carità, al quale siamo stati recentemente richiamati da Papa Benedetto.

In un Paese dove ormai, almeno in certi ambienti, anche i ragazzi che tornano a casa con una brutta pagella sono tentati di dare la colpa a Berlusconi, non si sentiva il bisogno di vedere anche il vostro giornale cedere così spudoratamente a questo facile richiamo.
Ne ha perso di credibilità tutto Avvenire, e francamente si è rimasti attoniti nel vedere che questo modo così scomposto di affrontare la spiacevole questione sia stato adottato, per primo, dal massimo rappresentante della vostra “casa editrice”.

Dal Cardinale Bagnasco era davvero il minimo aspettarsi maggior prudenza. Non è accettabile che non abbia tenuto presente che lui non rappresenta un gruppo di testate giornalistiche, bensì tutto l’episcopato italiano, mentre Vittorio Feltri, al contrario, rappresenta solo un giornale e non il capo del Governo.
In queste situazioni, polemizzare soltanto tra pari grado, e con i modi e i toni che si addicono alla realtà che si rappresenta, sarebbe stato molto più che opportuno.

Insomma, caro Direttore, lei ha esplicitamente chiesto ai lettori di giudicare: non sia così sicuro della loro opinione.

02 settembre 2009

Dino Boffo e la laicità perduta

Parliamo dello scandalo che riguarda il direttore di Avvenire. E intanto cominciamo a chiederci perché mai nessuno dei media secolarizzati lo abbia ancora chiamato così, nonostante si tratti di una di quelle vicende pruriginose che, di solito, attirano all’istante una sana gragnuola di prime pietre su tutto ciò che odora anche lontanamente di Chiesa. Secondo noi – e ci sembra l’aspetto peggiore di tutta la storia – quanto è accaduto rappresenta anche e soprattutto un’occasione perduta per il mondo cattolico.

Intendiamoci, non c’era da farsi troppe illusioni. Tuttavia, in linea di principio, questa spiacevole situazione avrebbe potuto trasformarsi prima ancora che deflagrasse, per i pastori e per tutti gli intellettuali veramente cattolici, in una splendida opportunità di riaffermare davanti a tutti, alta e forte, una vera e propria lezione di laicità. Di quelle che solo la cultura cattolica, che la laicità ha inventato, sarebbe in grado di impartire, se solo si mostrasse meno inconsapevole di se stessa.

In primo luogo, da parte dei vertici della Cei, si sarebbe potuto insistere di più sul concetto che la Chiesa condanna il peccato e mai il peccatore. Possibilmente, lo si sarebbe dovuto fare in camera caritatis prima che scoppiasse lo scandalo, facendone giungere notizia, con santa prudenza, all’orecchio dello stesso Dino Boffo. Infatti – come ha ricordato anche l’autorevole Vittorio Messori – la vicenda della condanna per molestie era da tempo perfettamente nota negli ambienti episcopali, e non solo. Forse in questo modo si sarebbe potuto ottenere da Avvenire una maggiore discrezione sulle questioni private del Presidente del Consiglio. Nel coro della stampa laicista non si sarebbe di certo sentita la mancanza della voce del quotidiano della Cei, e se la cosa fosse potuta sembrare una censura dell’editore sul direttore, bè, chissenefrega.

Peraltro, a sentire lo stesso Avvenire, la presa di posizione (tutto sommato moderata) sulle presunte vicende sessuali del premier non era stata spontanea, ma era stata sollecitata da parte di frotte di lettori delusi, che dal quotidiano dei Vescovi avrebbero preteso maggiore severità e rigore morale nei confronti dello scandaloso (quello sì) libertinaggio del Cavaliere. A quanto si è letto negli editoriali di Boffo, in ben più di una parrocchia del Bel Paese, laddove i solerti pastori ogni domenica mettono Avvenire sul banco della buona stampa, si stavano avanzando truci sospetti di codardia o, peggio, di compromissione con la Sodoma e Gomorra del potere berlusconiano.

Appunto per questo, dunque, da parte dei Vescovi si sarebbe potuto parlare forte e chiaro, in via preventiva, proprio al pubblico dei fedeli cattolici.
In primo luogo, si sarebbe potuto ricordare a loro, e a tutti quanti, che è stato proprio il cattolicesimo che ha inventato la possibilità stessa di un approccio “laico” al rapporto del popolo con i governanti.
Infatti, è stato il cattolicesimo – e nessun altro – ad avere portato nel mondo la distinzione tra l’autorità spirituale e quella temporale. Senza l’esperienza storica della Chiesa cattolica, il potere secolare in Europa non avrebbe mai lasciato a nessun altra autorità il diritto di definire, in ultima istanza, cosa è morale e cosa non lo è. Tant’è che tutte le forme di governo che si sono succedute nel nostro Continente, dall’Editto di Costantino in poi, in un modo o nell’altro questo potere hanno sempre cercato di riprenderselo.

La storia della civiltà occidentale ci insegna che il rapporto tra la Chiesa e il potere secolare non è mai stato così dialettico e tormentato su alcuna questione, quanto su quella del diritto di avere l’ultima parola sulla moralità di governanti e governati.
Le contese più aspre tra Papi e Imperatori, in ultima analisi, facevano sempre riferimento a questo cruciale principio. Non c’è bisogno di scomodare Il Principe di Niccolò Macchiavelli, per dimostrare la pretesa di assoluta autonomia morale del potere civile, che peraltro risale a molti secoli prima del Rinascimento. Almeno fin dai tempi della lotta per le investiture. Anzi, anche prima, diciamo pure dai tempi di papa Gelasio I (fine del V secolo), che formulò per primo della teoria della separazione dei poteri, contro il cesaropapismo della tradizione bizantina.

La storia di questo tormentato rapporto rappresenta niente di meno che la storia della laicità. E’ stato infatti il Cattolicesimo a portare nel mondo l’esigenza – che oggi viene rivendicata come “laica” – di una netta separazione del potere spirituale di interpretare la morale che Dio si attende dagli uomini, rispetto al potere temporale che attiene al governo della politica.
Prima dell’avvento della Chiesa cattolica, in tutte le società antiche questo potere religioso spettava al potere civile. E’ appena il caso di ricordare che l’Imperatore romano era anche pontifex maximus, cioè l’unico autorizzato interprete del rapporto tra gli uomini e la divinità, e quindi delle norme morali.

Ancora nel IV secolo, fu Costantino a convocare il Concilio di Nicea, nella convinzione – indiscussa ai suoi tempi – che l’Imperatore fosse il massimo responsabile delle questioni religiose. Dunque, solo per questo si deve riconoscere che è stata la Chiesa di Roma a “inventare” la laicità, togliendo al potere politico il compito sacrale di definire le norme della morale pubblica e privata. Un compito che, come vedremo, in Europa è ritornato nelle mani del potere “laico” solo con la riforma protestante. A seguito della quale, non a caso, le chiese sono tornate a essere “nazionali”, e a riconoscere il Re come loro capo supremo.

Non è quindi uno scherzo della storia, né tanto meno l’espressione di un maggiore senso civico, se ancora oggi sono i Paesi di tradizione protestante quelli che pongono maggiore attenzione alla moralità sessuale dei loro governanti. E nel contempo, non è un caso se nel mondo anglosassone la stampa popolare sguazza nelle vicende di letto dei politici con una voluttà che, prima del caso Noemi, in Italia davvero non si era mai vista.

Per spiegare la cosa, prendiamola un po’ alla lontana, che purtroppo è necessario. Nel 1525, Martin Lutero, per mantenere gli appoggi politici indispensabili per la diffusione della sua riforma teologica, scrisse ai Principi tedeschi (che non aspettavano altro) la famosa Esortazione alla Pace secondo cui doveva ritenersi lecito l’uso della forza bruta contro i contadini ribelli di Svevia.
Ciò in quanto, secondo il grande riformatore religioso, se ogni autorità legittima viene da Dio, i governanti non dovevano ritenersi vincolati da esigenze morali nel reprimere la rivolta dei contadini che avevano “preso la spada senza l’autorità divina”. Da ciò ne discendeva che “un principe può, spargendo sangue, guadagnarsi il cielo”.

Lutero concluse quella lettera con una esortazione che ai nostri giorni, sotto sotto, sarebbe assai piaciuta ai fedelissimi di Antonio Di Pietro: “cari signori, sterminate, scannate, strangolate, e chi ha potere lo usi”.
Ora, cosa c’entra questo antecedente storico con la laicità moderna e ancor più con il gossip su Mister B. e la signora D’Addario? C’entra, c’entra, perché è proprio dalla tradizione protestante che deriva la convinzione per cui i comportamenti privati degli uomini pubblici – soprattutto riguardo alla sfera sessuale – non possono mai essere soltanto affari loro.

Infatti in un sistema democratico, se spetta al potere politico definire in ultima istanza ciò che è morale e ciò che è immorale, allora non può che essere un fatto legittimo – e persino di vitale importanza – che gli elettori si interessino dei costumi privati dei governanti.
In un simile assetto di valori, il popolo può legittimamente aspettarsi che, dopo le elezioni, la privata moralità del primo ministro sarà la stessa che verrà pretesa da loro. E’ per questo motivo che i vizi e le virtù private dei politici, nei Paesi che hanno conosciuto il Calvinismo in tutte le sue varie declinazioni, ancora oggi diventano in automatico un affare che riguarda tutta la cittadinanza.
Proprio per effetto della mancanza di un’autorità spirituale ben distinta da quella politica, nelle culture di stampo protestante è diventato del tutto naturale che – quanto meno nella percezione dell’opinione pubblica – il livello medio dei costumi della nazione venga definito da come si comportano i governanti nel loro privato.

Invece, la cultura cattolica consente di mantenere ben distinti i due piani, proprio perché si basa sul principio per cui ciò che è morale in definitiva lo stabilisce Dio, ma non lo interpreta il Principe, bensì la Chiesa. E comunque, il potere politico non può usare la spada a cuor leggero e di sua autorità, per ripristinare la pubblica moralità violata. Questa ben diversa concezione, d’altra parte, nella storia ha sempre viaggiato in parallelo con il noto principio, altrettanto “laico” nella sua essenza, e parimenti dimenticato da quelli di Avvenire, per cui la Chiesa condanna il peccato ma mai il peccatore.

La dottrina canonica tradizionale della potestas ecclesiae in temporalibus – tanto esecrata dai nostri laicones alla amatriciana, perché la sola citazione della frase in latino dà loro un senso di oppressione e di indebita ingerenza – è sempre stata la custode di questo fondamentale principio di laicità. Infatti, aver portato nel mondo l’idea per cui il Principe deve ritenersi soggetto all’autorità spirituale del Papa, è valso a ottenere che non spettasse al potere civile stabilire di suo arbitrio i canoni della morale.

Insomma, se Avvenire o chi per esso avessero speso due righe per questo semplice ripassino di storia delle idee politiche e religiose, forse l’iniziativa sarebbe bastata per ricordare a tutti, cattolici e non, che il criterio per cui non si deve andare a ravanare sotto le lenzuola degli uomini pubblici è esattamente un principio di cultura cattolica. Cioè, di laicità. Perché – altra cosa che non andrebbe mai scordata – la laicità l’ha inventata colui che insegnò a dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio.

Come si vede, quindi, la buriana che si è scatenata per via dell’incidente capitato al povero Dino Boffo, è sì una questione politica, che almeno per qualche giorno coinvolgerà i rapporti tra Chiesa e Stato. Ma nella sua essenza si tratta di una questione anche teologica, e comunque morale. Probabilmente è per questo motivo che la Santa Sede, così attenta a quello che non è contingente nella vita politica delle nazioni, a quanto pare finora aveva cercato in qualche modo di mitigare i moralismi del giornale dei Vescovi italiani, riguardo alle vicende della vita privata del Cav. e dell’immigrazione.

Ed è sempre per questo che, nella scabrosa vicenda del direttore di Avvenire, i Vescovi medesimi non hanno perso soltanto un’ottima occasione di esercitare la prudenza evangelica. Il quotidiano della Cei avrebbe pure ben potuto ricordare a quei suoi lettori così pii e intransigenti, che si stracciavano le vesti per il libertinaggio del premier, che uno dei criteri di vita più importanti, per un cattolico, dovrebbe essere quello di non giudicare per non essere giudicati.
Anzi, ancora una volta, è ben triste che nessuno di quelli che sapevano della vicenda di Terni abbia richiamato il suddetto aureo criterio all’orecchio del povero Dino Boffo, prima che si esponesse sulle colonne del suo giornale a fare la predica al gaudente Berlusconi.

Ma a parte questo, più di ogni altra cosa, a noi dispiace che i pastori della Chiesa e ancor più gli intellettuali cattolici abbiano perso l’opportunità di dare a tutti quanti una bella lezione di laicità.
L’Osservatore Romano, quasi inascoltato, almeno ha cercato di rispondere a teologi moralisti da strapazzo, tipo l’ineffabile Vito Mancuso, che la Chiesa Cattolica le anime le accoglie e le cura, non le condanna.
Fare il contrario – cioè, condannare il peccatore e non il peccato, come usano fare i neo-calvinisti di Repubblica e i loro amici cattocomunisti – non è soltanto il segno del moralismo più deteriore. E’ anche, quel che più ci interessa, un’espressione di totale assenza di senso della laicità.

Insomma, si è trattato di un’occasione perduta, e speriamo che la prossima volta, se proprio deve essercene una, vada meglio. Anche se, per come vanno le cose nel mondo cattolico italiano non c’è troppo da sperare, se non nella Sede della Sapienza, che poi è sempre la cosa migliore da fare. E non ci vengano a chiedere dove sia questa Sede della Sapienza, e se sta a Roma o altrove. Cattolici del piffero.

01 settembre 2009

Cosa c'è nella testa di Fini

Ci provano un po’ tutti, da qualche anno, a capire cosa stia cercando di fare Gianfranco Fini. Anche noi, quindi, daremo il nostro modesto contributo.

Lo facciamo molto volentieri, peraltro, perché l’ex leader del Msi ci offre uno di quei rari casi in cui le parole in libertà dell’ultimo dei blogger non potranno mai essere meno autorevoli di quelle della media degli opinionisti politici.
Infatti, il pensiero e le intenzioni di Fini rappresentano ormai uno di quegli argomenti sui quali chiunque può applicare a cuor leggero, nel suo piccolo, la linea editoriale di Repubblica. Nel senso che si tratta di uno di quei casi in cui le opinioni possono essere completamente svincolate dai fatti.

E poi, si tratta pur sempre di interpretare quel che dovrebbe avvenire dopo il governo Berlusconi. Quindi, siamo in un campo in cui tra il sapere tutto della politica e – come si dice nel baseball – non capirci una mazza, alla fine il risultato è uguale. Possiamo dunque sbizzarrirci a piacere.

Dunque, vorrei inziare col dire che mi ricordo ancora di un incontro pubblico con Gianfranco Fini al quale ho assistito, per caso, all’inizio degli anni 90. Forse l’ho già raccontato: lo avevo incrociato per strada, mentre – con indosso il suo storico loden – passeggiava per via san Vitale, a Bologna, accompagnato da due suoi fedelissimi di sempre.
Sapendo dell’incontro pubblico che era in programma nelle vicinanze, ho quindi deciso di seguirlo.

Quando sono entrato, la sala si era già riempita di un nutrito manipolo di militanti, che non appena hanno visto avvicinarsi l’allora segretario del Msi hanno iniziato a alzarsi in piedi e a urlare slogan ancora abbastanza truculenti per quell’epoca. Ricordo ancora che, nel preciso momento in cui il nostro è arrivato dietro al tavolo del relatore, gli slogan si sono trasformati in un unico assordante coro: “Fini, Fini!”, che è andato avanti per un paio di minuti.

In quel momento erano ancora recenti gli scontri congressuali con Pino Rauti, e le divisioni tra i rispettivi militanti. Fini era appena ritornato a essere segretario del Msi, dopo essere stato scalzato da uno storico congresso, per poi riprendere la guida del partito solo un anno dopo, sull’onda di una sonora sconfitta elettorale.

Le ferite di quella fase di trapasso erano ancora tutte aperte, e Fini era ancora un leader relativamente debole anche nel suo stesso partito. Quindi, i suoi fedelissimi di Bologna, con tutto quel chiasso, più che di tributare omaggio al loro capo stavano cercando di marcare il territorio, scoraggiando le eventuali manifestazioni di dissenso di qualche infiltrato dell’opposta fazione.

Eppure, erano molto pochi, anche tra i suoi, quelli che dubitavano del fatto che Fini sarebbe stato il liquidatore del Msi. Anche se nessuno si immaginava nemmeno lontanamente cosa sarebbe successo di lì a pochi mesi.
In quel momento, nell’autunno del 1991, Tangentopoli doveva ancora esplodere, e solo la Lega stava sempre meno timidamente raccogliendo la protesta dei ceti produttivi del nord.
Mancavano ancora circa tre anni allo sdoganamento di Fini e dell’idea stessa della destra, che guarda caso sarebbe avvenuto nell’ormai mitica saletta del centro commerciale di Casalecchio di Reno, a soli pochi chilometri da dove ci trovavamo quella sera.

Comunque, Fini ha svolto tutto il suo discorso in piedi, senza mai sedersi nemmeno per un attimo, come a volersi imporre sulla platea senza mai mollare la presa. Secondo l’abitudine mai perduta, ha parlato a braccio senza avere alcun appunto davanti.
Esattamente come avrebbe fatto il suo maestro Almirante, per tutta la sera ha cercato di offrire al suo pubblico le battute che volevano sentirsi dire. Nel discorso dell’ancor giovane segretario, l’abilità retorica che lo avrebbe reso famoso, al punto che oggi c’è persino chi lo invoca come statista, era già tutta presente. Ma in quella occasione il suo tono di voce era molto più stentoreo, mussoliniano, come ancora imponevano i concetti che esprimeva.

Ha parlato infatti per una mezz’ora abbondante di valori morali, di legge e ordine, volando molto alto, come si conveniva a chi ancora non si immaginava nemmeno quante opportunità avrebbe ancora avuto di giocare un suo ruolo, riguardo al presente e al futuro della politica italiana.
Il famoso “Fascismo del 2000” delle sue ultime tesi congressuali era ancora pienamente presente in quel discorso. Anche se – col senno di poi – forse già si poteva intuire che, almeno nella sua testa, e in modo ancora confuso e embrionale, stesse andando alla ricerca di una via d’uscita.

Più di una volta ha rivendicato la migliore tradizione del pensiero di destra, “…e quindi fascista”, come lo ho sentito testualmente affermare. Tuttavia, in tutto quel suo improvvisato comizio l’evocazione del fascismo è avvenuta solo in quelle parole, aggiunte alla fine di una frase, abbassando un po’ la voce. Come se si fosse trattato di una concessione alla platea, che però sarebbe dovuta rimanere tra quelle mura.

Ecco, ripensando oggi a quella serata bolognese di quasi vent’anni fa, sono dell’idea che dietro alle mutazioni dell’attuale Presidente della Camera, in fondo, ci sia ancora quell’atteggiamento di chi già vorrebbe essere altrove. Ma che nello stesso tempo sa bene che altrove non è, e forse si rende conto del fatto che in politica i miracoli non si ripetono, e quindi non potrà mai esservi.

Come hanno bene intuito quelli del Foglio, probabilmente non c’è nessuna strategia politica alle spalle della conversione laicista di Fini. Non si sta muovendo nella prospettiva del Quirinale. Anche se, senza dubbio, da buon politico di mestiere avrà compreso prima degli altri che il ruolo di Delfino di Berlusconi prima o poi lo avrebbe stritolato, e che quindi avrebbe dovuto in qualche modo liberarsene.
Tuttavia, nel suo cercare una via d’uscita, a nostro avviso ci sono motivazioni molto più personali che non politiche.

Una delle non poche cose che il nostro Presidente della Camera condivide con Massimo D’Alema, assieme al gusto per le ideologie storicamente perdenti, è la condanna a essere onerato – più che onorato – della propria stessa intelligenza. Vale a dire che è condannato a essere costantemente sopravvalutato, e a trovarsi sempre inseguito dai tentativi altrui di spiegare, con chissà quali recondite motivazioni, quelle scelte che alla fin fine, da un punto di vista politico, rappresentano solo delle sesquipedali cazzate.

Già gli era avvenuta una cosa del genere quando, inseguendo la sua nota ansia di legittimazione, aveva pensato di smarcarsi dal suo partito prendendo posizione contro la legge sulla fecondazione assistita. Lo ha fatto non senza frasi sprezzanti verso chi la pensava diversamente, nello stesso preciso momento in cui i suoi militanti di AN si stavano mobilitando per difendere quella legge dall’imminente referendum.

La gigantesca tramvata che gli intellettuali laicisti si sono presi in quell’occasione avrebbe dovuto rappresentare, da un punto di vista politico, una sorta di pietra tombale sulle eventuali strategie di avvicinamento di Fini al fronte “laico”.
Il risultato referendario fu infatti talmente eclatante da mostrare in modo addirittura plastico la sproporzione che ancora esiste – nell’opinione degli Italiani – tra la credibilità della Chiesa e quella del mainstream degli intellettuali che spadroneggiano sui mezzi di comunicazione.

E invece, ancora oggi, l’ineffabile Gianfranco sembra intenzionato a riprovarci, minacciando gesti clamorosi di dissociazione dalla legge sul testamento biologico, addirittura in contrasto con quel profilo istituzionale che fino a oggi sembrava essere diventato il filo conduttore di tutta la sua azione politica. E oltre tutto ha deciso di farlo proprio nei giorni in cui tutti gli altri, dagli alleati agli avversari (che peraltro nel caso di Fini ormai non si distinguono più), si stanno dimenando per recuperare l'attenzione del mondo cattolico - o presunto tale - riconoscendo quanto un buon rapporto con la Chiesa sia indispensabile per governare la democrazia italiana.

Ecco, per l’appunto, a nostro avviso solo per questi motivi non può trattarsi di una scelta politica, né di una strategia per il futuro.
Insomma, a ben vedere, solo uno che se ne frega del suo futuro politico può arrivare a pensare di scendere dallo scranno del presidente della Camera – con gesto senza precedenti – per andare sui banchi dei deputati a votare contro la maggioranza che lo ha issato a quella carica. Non è cosa che ci si può aspettare da un uomo ragionevole. Tantomeno quindi da un politico, che oltretutto si trova nella fortunata posizione in cui c’è già chi lo ha preso per uno statista, e magari potrebbe persino aspirare a salire al Quirinale.

Solo che, come dicevamo, il nostro Gianfranco condivide con Massimo D’Alema il fatto di essere affetto dalla sopravvalutazione altrui. Il giornalista, e in genere l’intellettuale che deve dimostrare a se stesso e agli altri di essere un acuto interprete della politica, in genere fa una gran fatica a capire al volo che una cazzata di Fini è solo una cazzata.
E invece, la chiave interpretativa dei gesti di rottura del nostro Presidente della Camera probabilmente si trova del tutto al di fuori dalla logica politica. Ed è da ricercare ancora oggi nel modo con il quale, quasi vent’anni fa, lo abbiamo sentito abbassare quasi impercettibilmente la voce, mentre aggiungeva in fondo a una frase quell’inciso “…e quindi fascista”.

Non si sta insinuando che, nel suo intimo, già si vergognasse di esserlo stato, per carità. Anzi, è significativo che oggi Fini abbia deciso di scegliere il laicismo, proprio nel momento in cui esso sta dimostrando di essere l’ideologia più perdente, sorpassata e senza prospettive del nostro tempo.
Una simile scelta, così poco “politica”, vorrà pure dire che tra i tanti difetti che il nostro può avere, ancora oggi, non vi è certo la paura di essere in minoranza.
Anzi, al contrario, da un punto di vista strettamente politico, secondo noi Fini è ancora oggi vittima di un’attrazione incoercibile per le idee più perdenti di ciascuna epoca. Scegliere proprio oggi di essere laicisti duri e puri non è tanto diverso, dal punto di vista della credibilità e delle prospettive politiche, dall’aver scelto di essere neofascisti trenta o quarant’anni fa.

Quindi, non è tanto la politica a ispirare le mosse di Gianfranco Fini. Secondo noi si tratta di un uomo molto più impolitico di quanto non suggeriscano la sua carriera e la sua posizione. Per questo è così difficile interpretarlo, per tutti noi che ci attendiamo che ragioni secondo le categorie proprie della sua professione (aspettativa che, peraltro, è assai più saggia e ragionevole di quella di coloro che dai politici pretendono – o fingono di pretendere – soltanto l’integrità morale, come dimostrano le vicende di questi ultimi mesi).

Probabilmente, nel fondo delle scelte di Fini c’è ancora oggi solo la sua voglia di essere altrove, e adesso che non è più leader di alcun partito si sente finalmente liberato dall’onere di dover dare sempre al proprio pubblico la battuta che ci si aspetta da lui, come gli aveva insegnato Almirante.
Dunque, sbagliano coloro che – solo perché si tratta di un politico di professione, oltretutto abile e di bella presenza – continuano a aspettarsi che Gianfranco Fini sia ancora coerente con quello che era stato e che non è più.

E non sarà più quello, almeno per i prossimi quattro o cinque anni. Ma questo è già un altro discorso.