IL WELFARE IMPEDISCE LO SVILUPPO DEMOGRAFICO,
Dice il demografo tedesco Herwig Birg
I tedeschi iniziano a preoccuparsi per il catastrofico crollo demografico : nel 2005 sono nati solo settecentomila bambini, il dato più basso della sua storia della nazione, e un terzo delle donne tedesche non ha figli (la media è di 1,3 figli per donna). Di questo passo, ha osservato il demografo Herwin Birg (nella foto) in un articolo pubblicato sul nuovo numero dell'Espresso ("Dove volano le cicogne"), nel 2100 la Germania avrà solo 32 milioni di abitanti, contro gli 80 milioni di oggi. Si tratta di un fenomeno che coinvolge tutta l'Europa: l'Italia, ad esempio, nel 2100 avrà 15 milioni di abitanti e la Spagna 11 milioni. Nel 1950, ricorda Birg, la popolazione europea costituiva il 22 per cento di quella mondiale, oggi la nostra quota è scesa all'11 per cento, mentre nel 2050 gli europei saranno appena il 7 per cento della popolazione del globo terrestre. I paesi europei sono dunque destinati entro la fine del secolo a diventare dei nani demografici.
Qual'è la causa di questa catastrofe? A differenza di altri osservatori che puntano il dito sulle cause culturali, quali la secolarizzazione e l'abbandono del cristianesimo (come ha scritto di recente Ed Vitagliano sulla rivista dell'American Family Association), Birg ha studiato le cause economiche della denatalità, giungendo a questa conclusione: "Il Welfare impedisce lo sviluppo demografico".
Dice Birg: "La domanda che mi sono posto è come mai proprio la Germania, fin dall'800 il paese che inventò il Welfare e dove oggi i genitori ricevono sussidi cospicui per ogni figlio, è la nazione meno prolifica d'Europa? Questo fatto è la conferma di una delle leggi di fondo della nostra disciplina, e che noi chiamiamo paradosso economico-demografico: più la vita in una società ricca e confortevole, più sicurezze e garanzie sul futuro del benessere si hanno, tanto meno il singolo opta per scelte così impegnative e durature come mettere al mondo dei figli."
Ma attenzione: non è la povertà, ma è la mancanza di sicurezza a indurre le persone a creare famiglie e a moltiplicarsi. La prova? Un paese poco assistenzialista ma molto benestante come gli Usa, osserva Birg, ha il tasso di natalità quasi doppio rispetto al vecchio continente. Il Welfare State ha dunque ridotto l'orizzonte temporale degli individui, che non si sentono più responsabili del proprio futuro o della propria discendenza. Le coppie senza figli contano infatti in vecchiaia di essere assistite con le imposte pagate dai figli altrui. Per questo motivo il prof. Johann Eekhoff, direttore dell'istituto di economia politica dell'università di Colonia, ha proposto di dimezzare le pensioni a tutti coloro che non hanno figli.
Herwig Birg osserva poi che le idee di Malthus, secondo cui il miglioramento del tenore di vita avrebbe portato alla catastrofe del pianeta per sovrappopolazione, si sono dimostrate false e infondate, e hanno prodotto un vero disastro, ispirando le teorie delle specie di Darwin, le follie naziste e i timori sull'esplosione demografica del pianeta professati negli anni '70 dai sedicenti demografi (così li definisce Birg) del Club di Roma.
Un altro studioso tedesco, Frank Schirrmacher, ha espresso analoghi timori sull'implosione demografica in un libro, Minimum che in Germania sta diventando un best-seller. In Italia è stato appena tradotto, da Mondadori, il suo libro precedente, Il complotto di Matusalemme, che analizza i problemi delle società invecchiate che ci aspettano nel futuro. In Minimum Schirrmacher scrive che, guardando i bambini di oggi, si prova per loro una gran pena. Non solo perchè si trovano in una situazione esistenziale anomala, con sempre meno fratelli e cuginetti con cui parlare e giocare, e sempre più circondati da fittissime tribù di adulti e di vecchi. Oltre a questi squilibri generazionali, i bimbi di oggi dovranno lavorare il doppio per compensare i pesi economici dello Stato sociale in crisi. Ce la faranno i più giovani, sempre più unici e viziati, a sopportare tante asperità? Quello che è sicuro, scrive Schirrmacher è che, se le società si riducono demograficamente al "Minimum", le sfide del futuro saranno per molti di tipo estremo.
Oltre alla catastrofe economica degli stati assistenziali, i bambini di oggi dovranno vedersela in futuro con masse crescenti e aggressive di immigrati musulmani, che faranno di tutto per imporsi politicamente. Secondo Schirrmacher, solo chi potrà contare su un nucleo familiare forte passerà le forche caudine del XXI secolo: "Contro le avversità del destino, è l'unione famigliare una forza invincibile".
Insomma, chi non costituirà forti e numerose famiglie, sarà spacciato.
29 aprile 2006
27 aprile 2006
Il 1° maggio 1908 nacque un Uomo: Giovannino Guareschi
Festeggiamo il nostro primo maggio; festeggiamo il primo maggio dei liberali, dei cristiani, di coloro che amano la propria Patria, la propria Famiglia. Festeggiamo il primo maggio di coloro che credono che accanto a un diritto ci sia sempre un dovere, che non si debba fuggire di fronte a una responsabilità, che le conquiste vanno guadagnate col sudore e il sacrificio. Festeggiamo il primo maggio dei sapori genuini, delle carezze delle nostre madri e dei buffetti dei nostri padri, delle nostre origini, delle nostre tradizioni, dei luoghi dove siamo nati e cresciuti. Festeggiamo il primo maggio del nostro cuore.
Il 1° maggio, lontani dai concerti della solitudine dove garriscono bandiere lacere e polverose, dove si canta la retorica del pretendere senza mai dare nulla in cambio, mandiamo un pensiero al compleanno di un Uomo: Giovannino Guareschi (1908-1968), al cui ricordo verrà dedicata lunedì alle ore 10.30 una Santa Messa presso la chiesa di Roncole Verdi, in provincia di Parma.
Il 1° maggio, lontani dai concerti della solitudine dove garriscono bandiere lacere e polverose, dove si canta la retorica del pretendere senza mai dare nulla in cambio, mandiamo un pensiero al compleanno di un Uomo: Giovannino Guareschi (1908-1968), al cui ricordo verrà dedicata lunedì alle ore 10.30 una Santa Messa presso la chiesa di Roncole Verdi, in provincia di Parma.
26 aprile 2006
Mark Steyn dà la sveglia all'Europa
Il corrosivo giornalista canadese Mark Steyn non ha smentito la sua fama in un recente articolo "Wake up, Europe. It may already be too late", la cui traduzione può essere letta sul sito della Libreria del Ponte.
I tumulti di primavera e di autunno in Francia, per Steyn, sono i segni dell’imminente apocalisse che si scatenerà in Europa nei prossimi decenni. L'Unione Europea e la quinta repubblica francese sono infatti destinate a crollare sotto il peso della crisi demografica e dell'insostenibilità del welfare state.
Steyn deride il fanatismo antiamericano che sembra aver pervaso il vecchio continente, scrivendo: "La differenza fra "anti-americanismo" e "anti-europeismo" è evidente. Nel 2025 l'America sarà in larga misura come oggi: grande e potente anche se (agli occhi dei sofisticati continentali) ridicolmente volgare e provinciale. Ma nel giro di 20 anni l’Europa sarà un caso disperato, economicamente e demograficamente moribonda. Diciassette nazioni continentali si trovano in quella che viene chiamata “bassissima fertilità”, cioè fertilità inferiore a 1,3 nati vivi per donna, dalla quale nessuna popolazione della storia si è mai ripresa....La classe politica francese è rimasta schiacciata tra le due tenaglie dei tumulti autunnali e primaverili. I rivoltosi di fine 2005 erano "giovani" (cioè musulmani dalla periferia), considerati alienati dalla mancanza di opportunità economiche. I rivoltosi della primavera 2006 sono "giovani" (cioè viziati fannulloni della Sorbona), che contestano una nuova legge che permetterebbe ai datori di lavoro di rescindere i contratti dei dipendenti sotto l'età di 26 anni nei loro primi impieghi, dopo due anni.
Al che la risposta della maggior parte dei Nordamericani è stata: volete dire che non potete già farlo adesso? No, non potete. Se assumete un ventenne e dopo tre mesi vi accorgete che i vostri rapporti lavorativi non funzionano, ci sono molte probabilità che continuiate a lavorare con lui fino alla metà del secolo. Nell’economia paralizzata della Francia è quasi impossibile essere licenziati. Il che è il motivo per cui è quasi impossibile essere assunti. Soprattutto se appartenete a quella prima categoria di “giovani" dei ghetti musulmani, in cui la disoccupazione è intorno al 40 - 50 per cento. Il secondo gruppo dei “giovani" - il gruppo della Sorbona - che contesta la nuova, più flessibile legislazione sul lavoro dovrebbe riuscire a capire che è necessaria sia alla nazione sia, effettivamente, al loro interesse personale: dopo tutto, rappresentano l'elite di tutto il loro Paese. Invece sono come i lemmings che si suicidano buttandosi giù in corsa da una ripida scogliera. Quando dalla parte occidentale dell'Atlantico pensiamo alle “regine del welfare”, la nostra mente evoca progetto di edilizia popolare a favore di una sgualdrinella adolescente che vive con tre figli avuti da uomini differenti. Ma la Francia illustra come il welfare assoluto corrompa assolutamente. Queste “regine del welfare” della Sorbona sono altrettante Marie Antoniette: gli immigrati soffrono di alti tassi di disoccupazione? Che mangino brioche, basta che non venga disturbata la nostra ovattata esistenza."
Steyn dà poi la sveglia all'Europa, dipingendo un quadro fosco del futuro: "L'unica domanda da porsi riguardo all’Europa è se sta andando (a) verso la catastrofe o (b) verso l’apocalisse, quando dalle cime delle colline scenderanno i Quattro Cavalieri: Morte (l’auto-estinzione delle razze europee troppo egocentriche per riprodursi), Carestia (dissolvimento degli insostenibili programmi sociali), Guerra Civile (quando gli alienati decideranno di andare oltre il semplice incendio delle Citroën) e Conquista (l’inevitabile vittoria dei musulmani sulla popolazione residente). Direi che l’opzione (b) è la più probabile, per alcune se non per tutte le nazioni continentali. Se stanno unite cadranno sicuramente, ma se si dividono forse qualcuna potrebbe salvarsi".
Steyn cita poi il nuovo libro Charles Murray, In Our Hands, che propone di abolire il sistema di assistenza sociale degli Stati Uniti. Murray osserva peròche l’Europa è messa molto peggio dell’America, e che lo stato socialdemocratico europeo sarebbe comunque fatale. “Date alla gente abbondanza e sicurezza, e questa cadrà nel torpore dello spirito”, scrive Murray. “Quando la vita si trasforma in un enorme picnic, con niente di importante da fare, le idee di grandezza diventano irritanti”.
Se l'articolo di Steyn è una chiamata al risveglio, Murray ci ricorda che l’Europa occidentale da tempo ha gettato via la sveglia e ha deciso di continuare a dormire. Se Murray vi sembra esagerato, conclude Steyn, tornate al capostipite di tutti loro: Decline and Fall of the Roman Empire di Gibbon. Rievocando l’avanzata musulmana in Francia 1.300 anni fa, Gibbon scrive: “Il declino della monarchia francese ha incoraggiato l'attacco di questi fanatici insaziabili. I discendenti di Clodoveo avevano perso l’eredità del suo spirito marziale e feroce; e la loro sfortuna o il demerito hanno fatto sì che agli ultimi re della stirpe dei Merovingi fosse affibbiato l’epiteto di re fannulloni. Salivano al trono senza potere, e scendevano nella tomba senza un nome. Le vigne di Guascogna e la città di Bordeaux sarebbero diventate di proprietà del sovrano di Damasco e di Samarcanda; e il sud della Francia, dalla foce della Garonna a quella del Rodano, avrebbe assunto i costumi e la religione dell'Arabia".
Meditare, gente, meditate.
I tumulti di primavera e di autunno in Francia, per Steyn, sono i segni dell’imminente apocalisse che si scatenerà in Europa nei prossimi decenni. L'Unione Europea e la quinta repubblica francese sono infatti destinate a crollare sotto il peso della crisi demografica e dell'insostenibilità del welfare state.
Steyn deride il fanatismo antiamericano che sembra aver pervaso il vecchio continente, scrivendo: "La differenza fra "anti-americanismo" e "anti-europeismo" è evidente. Nel 2025 l'America sarà in larga misura come oggi: grande e potente anche se (agli occhi dei sofisticati continentali) ridicolmente volgare e provinciale. Ma nel giro di 20 anni l’Europa sarà un caso disperato, economicamente e demograficamente moribonda. Diciassette nazioni continentali si trovano in quella che viene chiamata “bassissima fertilità”, cioè fertilità inferiore a 1,3 nati vivi per donna, dalla quale nessuna popolazione della storia si è mai ripresa....La classe politica francese è rimasta schiacciata tra le due tenaglie dei tumulti autunnali e primaverili. I rivoltosi di fine 2005 erano "giovani" (cioè musulmani dalla periferia), considerati alienati dalla mancanza di opportunità economiche. I rivoltosi della primavera 2006 sono "giovani" (cioè viziati fannulloni della Sorbona), che contestano una nuova legge che permetterebbe ai datori di lavoro di rescindere i contratti dei dipendenti sotto l'età di 26 anni nei loro primi impieghi, dopo due anni.
Al che la risposta della maggior parte dei Nordamericani è stata: volete dire che non potete già farlo adesso? No, non potete. Se assumete un ventenne e dopo tre mesi vi accorgete che i vostri rapporti lavorativi non funzionano, ci sono molte probabilità che continuiate a lavorare con lui fino alla metà del secolo. Nell’economia paralizzata della Francia è quasi impossibile essere licenziati. Il che è il motivo per cui è quasi impossibile essere assunti. Soprattutto se appartenete a quella prima categoria di “giovani" dei ghetti musulmani, in cui la disoccupazione è intorno al 40 - 50 per cento. Il secondo gruppo dei “giovani" - il gruppo della Sorbona - che contesta la nuova, più flessibile legislazione sul lavoro dovrebbe riuscire a capire che è necessaria sia alla nazione sia, effettivamente, al loro interesse personale: dopo tutto, rappresentano l'elite di tutto il loro Paese. Invece sono come i lemmings che si suicidano buttandosi giù in corsa da una ripida scogliera. Quando dalla parte occidentale dell'Atlantico pensiamo alle “regine del welfare”, la nostra mente evoca progetto di edilizia popolare a favore di una sgualdrinella adolescente che vive con tre figli avuti da uomini differenti. Ma la Francia illustra come il welfare assoluto corrompa assolutamente. Queste “regine del welfare” della Sorbona sono altrettante Marie Antoniette: gli immigrati soffrono di alti tassi di disoccupazione? Che mangino brioche, basta che non venga disturbata la nostra ovattata esistenza."
Steyn dà poi la sveglia all'Europa, dipingendo un quadro fosco del futuro: "L'unica domanda da porsi riguardo all’Europa è se sta andando (a) verso la catastrofe o (b) verso l’apocalisse, quando dalle cime delle colline scenderanno i Quattro Cavalieri: Morte (l’auto-estinzione delle razze europee troppo egocentriche per riprodursi), Carestia (dissolvimento degli insostenibili programmi sociali), Guerra Civile (quando gli alienati decideranno di andare oltre il semplice incendio delle Citroën) e Conquista (l’inevitabile vittoria dei musulmani sulla popolazione residente). Direi che l’opzione (b) è la più probabile, per alcune se non per tutte le nazioni continentali. Se stanno unite cadranno sicuramente, ma se si dividono forse qualcuna potrebbe salvarsi".
Steyn cita poi il nuovo libro Charles Murray, In Our Hands, che propone di abolire il sistema di assistenza sociale degli Stati Uniti. Murray osserva peròche l’Europa è messa molto peggio dell’America, e che lo stato socialdemocratico europeo sarebbe comunque fatale. “Date alla gente abbondanza e sicurezza, e questa cadrà nel torpore dello spirito”, scrive Murray. “Quando la vita si trasforma in un enorme picnic, con niente di importante da fare, le idee di grandezza diventano irritanti”.
Se l'articolo di Steyn è una chiamata al risveglio, Murray ci ricorda che l’Europa occidentale da tempo ha gettato via la sveglia e ha deciso di continuare a dormire. Se Murray vi sembra esagerato, conclude Steyn, tornate al capostipite di tutti loro: Decline and Fall of the Roman Empire di Gibbon. Rievocando l’avanzata musulmana in Francia 1.300 anni fa, Gibbon scrive: “Il declino della monarchia francese ha incoraggiato l'attacco di questi fanatici insaziabili. I discendenti di Clodoveo avevano perso l’eredità del suo spirito marziale e feroce; e la loro sfortuna o il demerito hanno fatto sì che agli ultimi re della stirpe dei Merovingi fosse affibbiato l’epiteto di re fannulloni. Salivano al trono senza potere, e scendevano nella tomba senza un nome. Le vigne di Guascogna e la città di Bordeaux sarebbero diventate di proprietà del sovrano di Damasco e di Samarcanda; e il sud della Francia, dalla foce della Garonna a quella del Rodano, avrebbe assunto i costumi e la religione dell'Arabia".
Meditare, gente, meditate.
Lacrime di coccodrillo
di: Ernesto Galli Dalla Loggia, dal Corriere della Sera, 26 aprile 2006
Disapprovare non basta
Anche se ha preferito non dare importanza alla cosa, quel che è capitato ieri pomeriggio al ministro Moratti è assai grave, e merita di essere chiamato con il suo nome: una violenta, indecorosa gazzarra che chiama in causa responsabilità più vaste di quelle dei suoi autori. A nulla è valso che Letizia Moratti partecipasse al corteo milanese commemorativo della Liberazione spingendo la carrozzella con il padre medaglia d'argento della Resistenza; a nulla è valso che la sua sola presenza attestasse — se ce ne fosse stato mai bisogno! — la condivisione degli ideali di libertà evocati dalla ricorrenza: no, nulla è valso a nulla per proteggerla dalla salva di fischi, di insulti, di minacce, che le è piovuta addosso per tutta la durata del corteo. Ovvia la sua colpa: stare politicamente nel centrodestra; per giunta come ministro dell'Istruzione e dell'Università del governo Berlusconi, cioè in un ruolo che per lungo tempo è stato oggetto di una vera e propria demonizzazione ad opera dei settori più beceri e massimalisti della sinistra italiana che da decenni, ahimé, si annidano per l'appunto nelle scuole e negli atenei della Repubblica.
Di fronte a quanto accaduto, che è l'esatta ripetizione di quanto già accaduto altre volte in altri 25 aprile, i commenti degli esponenti del centrosinistra, limitatisi tutti (con la sola, felice eccezione, oltre che della Rosa nel pugno e di Mastella, di Bruno Ferrante, concorrente con la Moratti nella prossima elezione a sindaco di Milano) a un formale rincrescimento, appaiono penosamente inadeguati. Tanto più se ricordiamo che sono proprio essi a rammaricarsi regolarmente del fatto che i politici del centrodestra non partecipano ai festeggiamenti della Liberazione: e perché mai lo dovrebbero se questa è la fine che li aspetta? Per superare l'esame di autolesionismo?
Più inadeguata delle altre, per l'evidente importanza della sua figura, la reazione di Romano Prodi, il quale, pur avendo l'occasione di parlare nel comizio a conclusione del corteo, dal palco ha fatto appena un cenno all'accaduto.
Ha evitato così di dire, il nostro futuro presidente del Consiglio, ciò che invece andava detto e che da lui ci aspettavamo. Che allora in sua vece diciamo noi: e cioè che la democrazia italiana non sa che farsene dell'antifascismo dei faziosi e dei violenti; che la nostra democrazia non sa che farsene di quell'antifascismo che — come ha scritto coraggiosamente il direttore di Liberazione Piero Sansonetti — non capisce che «una cosa è cacciare i nazisti e un'altra è cacciare Berlusconi», che la democrazia italiana non sa che farsene — e non vuole avere niente a che fare — con l'antifascismo che non esita a strumentalizzare le grandi, drammatiche pagine della storia nazionale e i valori più alti del nostro patto costituzionale per sfogare i suoi poveri livori politici, per celare le sue pochezze, all'occasione per maramaldeggiare.
Finché l'antifascismo dei democratici non saprà prendere le distanze dall' antifascismo «militante», da questa sua contraffazione intollerante e violenta, e non saprà farlo a voce alta, esso sarà sempre vittima, anche elettorale, del suo ricatto politico. È così, mi chiedo, è mostrando una simile timidezza ideologica che si crede di poter costruire il Partito democratico? Sul punto di andare al governo con un'esiguissima maggioranza parlamentare, i gruppi dirigenti del centrosinistra commetterebbero un grave errore a non capire che è proprio su questioni come questa che essi si giocano la possibilità di convincere e di raccogliere intorno a sé una parte del Paese più vasta di quella che li ha votati.
Disapprovare non basta
Anche se ha preferito non dare importanza alla cosa, quel che è capitato ieri pomeriggio al ministro Moratti è assai grave, e merita di essere chiamato con il suo nome: una violenta, indecorosa gazzarra che chiama in causa responsabilità più vaste di quelle dei suoi autori. A nulla è valso che Letizia Moratti partecipasse al corteo milanese commemorativo della Liberazione spingendo la carrozzella con il padre medaglia d'argento della Resistenza; a nulla è valso che la sua sola presenza attestasse — se ce ne fosse stato mai bisogno! — la condivisione degli ideali di libertà evocati dalla ricorrenza: no, nulla è valso a nulla per proteggerla dalla salva di fischi, di insulti, di minacce, che le è piovuta addosso per tutta la durata del corteo. Ovvia la sua colpa: stare politicamente nel centrodestra; per giunta come ministro dell'Istruzione e dell'Università del governo Berlusconi, cioè in un ruolo che per lungo tempo è stato oggetto di una vera e propria demonizzazione ad opera dei settori più beceri e massimalisti della sinistra italiana che da decenni, ahimé, si annidano per l'appunto nelle scuole e negli atenei della Repubblica.
Di fronte a quanto accaduto, che è l'esatta ripetizione di quanto già accaduto altre volte in altri 25 aprile, i commenti degli esponenti del centrosinistra, limitatisi tutti (con la sola, felice eccezione, oltre che della Rosa nel pugno e di Mastella, di Bruno Ferrante, concorrente con la Moratti nella prossima elezione a sindaco di Milano) a un formale rincrescimento, appaiono penosamente inadeguati. Tanto più se ricordiamo che sono proprio essi a rammaricarsi regolarmente del fatto che i politici del centrodestra non partecipano ai festeggiamenti della Liberazione: e perché mai lo dovrebbero se questa è la fine che li aspetta? Per superare l'esame di autolesionismo?
Più inadeguata delle altre, per l'evidente importanza della sua figura, la reazione di Romano Prodi, il quale, pur avendo l'occasione di parlare nel comizio a conclusione del corteo, dal palco ha fatto appena un cenno all'accaduto.
Ha evitato così di dire, il nostro futuro presidente del Consiglio, ciò che invece andava detto e che da lui ci aspettavamo. Che allora in sua vece diciamo noi: e cioè che la democrazia italiana non sa che farsene dell'antifascismo dei faziosi e dei violenti; che la nostra democrazia non sa che farsene di quell'antifascismo che — come ha scritto coraggiosamente il direttore di Liberazione Piero Sansonetti — non capisce che «una cosa è cacciare i nazisti e un'altra è cacciare Berlusconi», che la democrazia italiana non sa che farsene — e non vuole avere niente a che fare — con l'antifascismo che non esita a strumentalizzare le grandi, drammatiche pagine della storia nazionale e i valori più alti del nostro patto costituzionale per sfogare i suoi poveri livori politici, per celare le sue pochezze, all'occasione per maramaldeggiare.
Finché l'antifascismo dei democratici non saprà prendere le distanze dall' antifascismo «militante», da questa sua contraffazione intollerante e violenta, e non saprà farlo a voce alta, esso sarà sempre vittima, anche elettorale, del suo ricatto politico. È così, mi chiedo, è mostrando una simile timidezza ideologica che si crede di poter costruire il Partito democratico? Sul punto di andare al governo con un'esiguissima maggioranza parlamentare, i gruppi dirigenti del centrosinistra commetterebbero un grave errore a non capire che è proprio su questioni come questa che essi si giocano la possibilità di convincere e di raccogliere intorno a sé una parte del Paese più vasta di quella che li ha votati.
Socci e quella "conquista" chiamata aborto
di: Guglielmo Piombini, da Il Domenicale, 8 aprile 2006
Dopo aver aperto gli occhi al pubblico, con i suoi lavori precedenti, sulle reali dimensioni delle persecuzioni anticristiane avvenute durante il XX secolo, nel nuovo libro Il genocidio censurato. Aborto: un miliardo di vittime innocenti (Piemme, pp. 176, € 10,00) Antonio Socci denuncia un altro genocidio in corso, ancor più vasto, nascosto e misconosciuto: quello dei bambini nei ventri delle loro madri. Socci conferma così le sue doti di polemista che, unite alla straordinaria capacità di individuare e prendersi a cuore le questioni veramente rilevanti per il tempo presente, lo collocano nella rosa dei migliori intellettuali cattolici italiani. Non c’è dubbio, infatti, che oggi l’aborto rappresenti il fronte più caldo, e probabilmente decisivo, della guerra culturale interna alle società occidentali tra coloro che sono impegnati nella difesa del patrimonio religioso e morale della tradizione giudaico-cristiana, e coloro che intendono perseguire fino in fondo il progetto illuminista di una società completamente secolarizzata.
Perchè questo, infatti, è il punto vero. Per quanto il diritto alla vita e la sacralità della vita siano questioni prettamente di diritto naturale, è indubbio che quando i nodi vengono al pettine torna semrpe in ballo, da una parte e dall'altra della barricata, la questione Dio.
Come ci si rende conto leggendo le pagine, spesso agghiaccianti, in cui Socci espone i dati sulla diffusione dell’aborto e ripercorre il dibattito che portò alla sua legalizzazione, la cultura postcristiana che ha preso il sopravvento negli ultimi quarant’anni nasconde, dietro una maschera di umanitarismo, razionalità, progresso e tolleranza, un lato oscuro e tenebroso. Si tratta di quella mentalità che Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae ha definito “cultura della morte”, la quale non concepisce l’individuo come una persona unica e irripetibile dotata di valore e dignità assoluta, ma come un essere spersonalizzato, ridotto allo status di un animale o di un oggetto puramente materiale. Da questa concezione dell’uomo discende una cultura che non solo ammette, ma promuove ed esalta (nella letteratura, nell’arte, nello spettacolo, nei costumi) il libertinismo morale, la promiscuità, le perversioni sessuali, l’edonismo sfrenato, il consumo di droghe, la contraccezione, il controllo delle nascite, la clonazione umana, l’eugenetica, l’eutanasia per malati e disabili, gli esperimenti sugli embrioni, l’aborto di massa.
Anche nelle sue ultime più mostruose manifestazioni, come l’eutanasia praticata in Olanda dai medici sui bambini, questa cultura pretende di considerare “conquiste di civiltà” quelle pratiche, come l’infanticidio, che erano invece tipiche delle epoche antiche, prima che iniziasse l’opera civilizzatrice della Chiesa tendente a screditare o ad abolire gli aspetti peggiori del paganesimo. Non è un caso, ricorda Socci, che i primi a reintrodurre l’aborto siano stati i bolscevichi e i nazisti (preceduti, per un breve periodo, dai giacobini durante la rivoluzione francese), e questo la dice lunga sulle ascendenze intellettuali degli attuali paladini del progresso. Scorrendo il pensiero occidentale degli ultimi secoli possiamo infatti individuare i nomi più significativi dei pensatori che un po’ alla volta hanno contribuito a dare forma alla mentalità secolarizzata di oggi: i nichilisti amorali come il Marchese De Sade o Friedrich Nietzsche; gli evoluzionisti fautori dell’eugenetica come Charles Darwin, Francis Galton e Ernst Haeckel; gli ideatori di utopie totalitarie anticristiane come August Comte e Karl Marx; gli esistenzialisti atei come Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir; gli esaltatori del piacere come Sigmund Freud ed Herbert Marcuse; le femministe nemiche della procreazione e della famiglia come Margaret Sanger e Betty Friedan; i fautori della liberazione sessuale come Wilhelm Reich e Alfred Kinsey; gli ambientalisti maltusiani come Paul Ehrlich e Lester Brown; gli utilitaristi sostenitori dell’eutanasia e dell’infanticidio come Jack Kevorkian e Peter Singer.
Questa cultura mortifera, che viene attivamente diffusa nel mondo dalle organizzazioni e agenzie internazionali, sta conducendo l’Occidente verso il suicidio demografico. Anche chi non vede l’aborto come un problema morale dovrebbe considerarlo un’emergenza sociale, dato che non esiste problema che i paesi europei si trovino oggi ad affrontare (dalla bancarotta dello stato sociale alla stagnazione economica, dall’invecchiamento della società all’invasione immigratoria) che non abbia come causa l’immensa mancanza di giovani e di bambini. Le proiezioni demografiche sull’Europa dei prossimi decenni riportate da Socci prospettano un futuro apocalittico, nel quale pochissimi giovani europei in età produttiva e riproduttiva dovranno mantenere un numero esorbitante di anziani, e contemporaneamente vedersela con masse crescenti e bellicose di musulmani.
Ma invece di correre ai ripari, i responsabili della catastrofe che si va materializzando davanti a noi continuano imperterriti a predicare l‘ideologia abortista e antinatalista. E c’è addirittura chi spinge sull’acceleratore! In Spagna il governo socialista di Zapatero, che in Italia trova i suoi emuli nel partito della Rosa nel Pugno e in ampi settori della sinistra, sta cercando di imporre un modello demografico e sociale che, se diventasse normativo in tutto il mondo, porterebbe l’umanità all’estinzione nel giro di pochi secoli. Questi campioni della ragione che hanno edificato l’Europa postcristiana si stanno rivelando, in ultima analisi, del tutto irrazionali. Che senso ha aver creato un’utopia secolare, se è destinata a durare al massimo un paio di generazioni?
Il libro di Socci dimostra in maniera lampante che oggi le vere persone razionali sono coloro che, cristiani o laici, si battono per la difesa della vita. Cioè per dare un futuro alla nostra civiltà.
Dopo aver aperto gli occhi al pubblico, con i suoi lavori precedenti, sulle reali dimensioni delle persecuzioni anticristiane avvenute durante il XX secolo, nel nuovo libro Il genocidio censurato. Aborto: un miliardo di vittime innocenti (Piemme, pp. 176, € 10,00) Antonio Socci denuncia un altro genocidio in corso, ancor più vasto, nascosto e misconosciuto: quello dei bambini nei ventri delle loro madri. Socci conferma così le sue doti di polemista che, unite alla straordinaria capacità di individuare e prendersi a cuore le questioni veramente rilevanti per il tempo presente, lo collocano nella rosa dei migliori intellettuali cattolici italiani. Non c’è dubbio, infatti, che oggi l’aborto rappresenti il fronte più caldo, e probabilmente decisivo, della guerra culturale interna alle società occidentali tra coloro che sono impegnati nella difesa del patrimonio religioso e morale della tradizione giudaico-cristiana, e coloro che intendono perseguire fino in fondo il progetto illuminista di una società completamente secolarizzata.
Perchè questo, infatti, è il punto vero. Per quanto il diritto alla vita e la sacralità della vita siano questioni prettamente di diritto naturale, è indubbio che quando i nodi vengono al pettine torna semrpe in ballo, da una parte e dall'altra della barricata, la questione Dio.
Come ci si rende conto leggendo le pagine, spesso agghiaccianti, in cui Socci espone i dati sulla diffusione dell’aborto e ripercorre il dibattito che portò alla sua legalizzazione, la cultura postcristiana che ha preso il sopravvento negli ultimi quarant’anni nasconde, dietro una maschera di umanitarismo, razionalità, progresso e tolleranza, un lato oscuro e tenebroso. Si tratta di quella mentalità che Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae ha definito “cultura della morte”, la quale non concepisce l’individuo come una persona unica e irripetibile dotata di valore e dignità assoluta, ma come un essere spersonalizzato, ridotto allo status di un animale o di un oggetto puramente materiale. Da questa concezione dell’uomo discende una cultura che non solo ammette, ma promuove ed esalta (nella letteratura, nell’arte, nello spettacolo, nei costumi) il libertinismo morale, la promiscuità, le perversioni sessuali, l’edonismo sfrenato, il consumo di droghe, la contraccezione, il controllo delle nascite, la clonazione umana, l’eugenetica, l’eutanasia per malati e disabili, gli esperimenti sugli embrioni, l’aborto di massa.
Anche nelle sue ultime più mostruose manifestazioni, come l’eutanasia praticata in Olanda dai medici sui bambini, questa cultura pretende di considerare “conquiste di civiltà” quelle pratiche, come l’infanticidio, che erano invece tipiche delle epoche antiche, prima che iniziasse l’opera civilizzatrice della Chiesa tendente a screditare o ad abolire gli aspetti peggiori del paganesimo. Non è un caso, ricorda Socci, che i primi a reintrodurre l’aborto siano stati i bolscevichi e i nazisti (preceduti, per un breve periodo, dai giacobini durante la rivoluzione francese), e questo la dice lunga sulle ascendenze intellettuali degli attuali paladini del progresso. Scorrendo il pensiero occidentale degli ultimi secoli possiamo infatti individuare i nomi più significativi dei pensatori che un po’ alla volta hanno contribuito a dare forma alla mentalità secolarizzata di oggi: i nichilisti amorali come il Marchese De Sade o Friedrich Nietzsche; gli evoluzionisti fautori dell’eugenetica come Charles Darwin, Francis Galton e Ernst Haeckel; gli ideatori di utopie totalitarie anticristiane come August Comte e Karl Marx; gli esistenzialisti atei come Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir; gli esaltatori del piacere come Sigmund Freud ed Herbert Marcuse; le femministe nemiche della procreazione e della famiglia come Margaret Sanger e Betty Friedan; i fautori della liberazione sessuale come Wilhelm Reich e Alfred Kinsey; gli ambientalisti maltusiani come Paul Ehrlich e Lester Brown; gli utilitaristi sostenitori dell’eutanasia e dell’infanticidio come Jack Kevorkian e Peter Singer.
Questa cultura mortifera, che viene attivamente diffusa nel mondo dalle organizzazioni e agenzie internazionali, sta conducendo l’Occidente verso il suicidio demografico. Anche chi non vede l’aborto come un problema morale dovrebbe considerarlo un’emergenza sociale, dato che non esiste problema che i paesi europei si trovino oggi ad affrontare (dalla bancarotta dello stato sociale alla stagnazione economica, dall’invecchiamento della società all’invasione immigratoria) che non abbia come causa l’immensa mancanza di giovani e di bambini. Le proiezioni demografiche sull’Europa dei prossimi decenni riportate da Socci prospettano un futuro apocalittico, nel quale pochissimi giovani europei in età produttiva e riproduttiva dovranno mantenere un numero esorbitante di anziani, e contemporaneamente vedersela con masse crescenti e bellicose di musulmani.
Ma invece di correre ai ripari, i responsabili della catastrofe che si va materializzando davanti a noi continuano imperterriti a predicare l‘ideologia abortista e antinatalista. E c’è addirittura chi spinge sull’acceleratore! In Spagna il governo socialista di Zapatero, che in Italia trova i suoi emuli nel partito della Rosa nel Pugno e in ampi settori della sinistra, sta cercando di imporre un modello demografico e sociale che, se diventasse normativo in tutto il mondo, porterebbe l’umanità all’estinzione nel giro di pochi secoli. Questi campioni della ragione che hanno edificato l’Europa postcristiana si stanno rivelando, in ultima analisi, del tutto irrazionali. Che senso ha aver creato un’utopia secolare, se è destinata a durare al massimo un paio di generazioni?
Il libro di Socci dimostra in maniera lampante che oggi le vere persone razionali sono coloro che, cristiani o laici, si battono per la difesa della vita. Cioè per dare un futuro alla nostra civiltà.
24 aprile 2006
Gli intoccabili e un certo olezzo di Piazzale Loreto
Da ridere, se non ci fosse da piangere. La vittoria elettorale conquistata per un pugno di voti ha scatenato, a partire dal giorno dopo, i repressi appetiti ideologici e di poltrone dell’ala più estrema dell’Unione e in particolare del partito che di quell’ala più estrema rappresenta la forza trainante: Rifondazione comunista. Mentre a Roma Bertinotti sfila lo scranno di presidente di Montecitorio all’ “intelligente” D’Alema, complice un Prodi tutto preso a far la posta ai suoi telefoni nell’attesa spasmodica che giunga il legittimante squillo berlusconiano (provocando a tempo di record il primo incidente all’interno della neo-maggioranza), a Bologna succede più o meno questo. Un pubblico ministero con trascorsi di militanza comunista, Paolo Giovagnoli, accusa di eversione alcuni ragazzotti no-global per essersi autoridotti il prezzo della mensa universitaria. Tempo qualche ora e i commissari del popolo in pectore, Tiziano Loreti (segretario provinciale di Rc) e Valerio Monteventi (indipendente, eletto consigliere comunale nelle file di Rc), ricorrono a toni da Unione Sovietica anni ’30 per gridare che quel magistrato va fermato e parlano della necessità di arrivare alla “riduzione del danno”. A Claudio Merighi, capogruppo Ds, che interviene per difendere la magistratura ricordando la vicenda Biagi e i rischi cui possono portare certe violenze verbali, dicono che usa “metodi stalinisti”. A quel punto il mandante di Merighi, Salvatore Caronna (segretario provinciale dei Ds), non ci vede più e accusa i suoi alleati di “comportamenti berlusconiani”. Riassumendo: stalinisti duri e puri accusano di stalinismo degli ex stalinisti, i quali reagiscono tirando in ballo Berlusconi. Se non altro questi ultimi un merito ce l’hanno: coprendosi di ridicolo, portano un pizzico di sdrammatizzazione nella vicenda. Questa è la coalizione che governa Bologna, dove su un tema che non ci sembra di poco conto, come quello se sia giusto o meno applicare le leggi, le distanze fra alcuni partiti restano enormi. Ma questa è anche la coalizione che sta per governare l’Italia. E’ di ieri il sostegno di Bertinotti ai suoi ir-responsabili locali, ed è di oggi la dichiarazione dell’immancabile Loreti che ritiene “Bologna un laboratorio politico su come affrontare questo tema (l’eversione, ndr)”. Tutto questo - torniamo a dirlo non tanto per inciso ma perché rappresenta la sostanza dei problemi che ci troveremo di fronte nei prossimi mesi - con una sinistra che non ha vinto le elezioni col 70 per cento dei consensi (cosa sarebbe successo altrimenti? Forse la demolizione della Basilica di San Pietro?). La voglia di Piazzale Loreto cresce, insomma. E infatti ancora Bertinotti ha affermato che Mediaset “va dimagrita”.
21 aprile 2006
La prova d'amore
Chi segue il calcio sa che praticamente ogni settimana, quando una squadra perde con un gol di scarto, nelle interviste l'allenatore e i giocatori dichiarano che “avrebbero meritato il pareggio”.
E' normale, e ormai persino scontato.
Ma si è mai sentito di una squadra che abbia vinto per 1-0 con rigore al 90°, che però fino alla fine del campionato continui ossessivamente per mezzo di presidente, allenatori, giocatori e tifosi, a rilasciare in coro dichiarazioni tipo “attendiamo che ci riconoscano la vittoria”, “non è sportivo parlare di meritato pareggio”, “è triste che ancora non ci abbiano fatto le congratulazioni”, “devono ammettere che abbiamo vinto noi, altrimenti ne va della credibilità del calcio”?
Forse potrebbe farlo l'Acireale se avesse battuto la Juventus, ma anche in tale ipotesi ne dubitiamo ...
Non sarà il massimo della finezza e speriamo che la cosa non giunga alle orecchie di chi sappiamo noi (visto che sarebbe capace di riferirla in pubblico), ma di questi giorni ci torna continuamente in mente la vecchia storiella di quello che, rincasando, incrociava tutti i giorni sul pianerottolo il proprio vicino di colore, e poi nell'intimità chiedeva sempre alla moglie “amore, dimmi che non hai mai conosciuto qualcuno più uomo di me ...”
E' normale, e ormai persino scontato.
Ma si è mai sentito di una squadra che abbia vinto per 1-0 con rigore al 90°, che però fino alla fine del campionato continui ossessivamente per mezzo di presidente, allenatori, giocatori e tifosi, a rilasciare in coro dichiarazioni tipo “attendiamo che ci riconoscano la vittoria”, “non è sportivo parlare di meritato pareggio”, “è triste che ancora non ci abbiano fatto le congratulazioni”, “devono ammettere che abbiamo vinto noi, altrimenti ne va della credibilità del calcio”?
Forse potrebbe farlo l'Acireale se avesse battuto la Juventus, ma anche in tale ipotesi ne dubitiamo ...
Non sarà il massimo della finezza e speriamo che la cosa non giunga alle orecchie di chi sappiamo noi (visto che sarebbe capace di riferirla in pubblico), ma di questi giorni ci torna continuamente in mente la vecchia storiella di quello che, rincasando, incrociava tutti i giorni sul pianerottolo il proprio vicino di colore, e poi nell'intimità chiedeva sempre alla moglie “amore, dimmi che non hai mai conosciuto qualcuno più uomo di me ...”
20 aprile 2006
Il triste Capodanno di Prodi in Piazza Maggiore
Da: Studio legale Fiorin - Blog Opinioni, 12 aprile 2006
Mentre scrivo, proprio sotto le finestre di questo studio, i primi militanti e simpatizzanti della sinistra si stanno radunando nei pressi di Piazza Maggiore. Tra i passanti qualcuno sobbalza, nell’udire all’improvviso le prove dell’impianto acustico. Parlando in quei microfoni, questa sera l’esperto spiritista di Scandiano cercherà di evocare davanti al “suo” (si fa per dire) elettorato bolognese l’ectoplasma del successo.
Tra poche ore Prodi cercherà di raccontare alla gente di sinistra – e prima ancora a se stesso – che nonostante gli imprevisti dell’ultima ora l’odiato tiranno è stato battuto, il problema è stato risolto, e la sua promessa di felicità verrà mantenuta. Ma è facile prevedere che questa sera la piazza centrale di Bologna, più che dalla facciata della basilica di san Petronio – imponente nella sua incompletezza, proprio come la “vittoria” del Professore – sarà dominata dall’ombra del Caimano.
I militanti della sinistra delusa non portano addosso simboli né bandiere, ma sono facilmente riconoscibili mentre si aggirano per il centro cittadino. Dalle espressioni dei loro volti non traspare né euforia, né allegria. E sarebbe retorico aspettarsi qualche sentimento più complesso. Pur senza volerlo, e anzi volendo dire il contrario, con la sua ormai storica battuta testicolare Berlusconi ha saputo riassumere icasticamente ciò che condiziona nel profondo la forma mentis del militante di sinistra. Non è quindi il caso di andare alla ricerca di chissà quali sfumature di sentimenti e di emozioni negli sguardi di chi sta per recarsi in Piazza Maggiore.
Non ci troveremmo la nobiltà del rimpianto, né la malinconia di chi nel momento della verità ha visto venir meno un trionfo a lungo atteso. E per fortuna, a parte i soliti gruppetti di comunisti duri e puri e di lettori di Micromega, non ci sembra nemmeno di intuire lo sguardo feroce delle tricoteuses alle quali è stata tolta la vista del sangue, in rivolta per l’annunciato rinvio dell’esecuzione.
Diciamo che negli sguardi dei militanti dell’Unione c’è il buonumore un po’ forzato di chi sta per andare alla solita noiosa festa di Capodanno, alla quale non può rinunciare per non sentirsi emarginato, pur già sapendo che difficilmente si divertirà.
Sul palco è salita un’orchestrina jazz che ha appena iniziato le prove, e alle sue spalle si legge “inizia il futuro di tutti”. Sembrerebbe il solito slogan velleitario, eppure si sente che in quel pronome ecumenico non c’è solo la solita insopportabile pretesa postcomunista di essere gli unici a rappresentare coloro che meritano di essere rappresentati. Per una volta, che lo volessero o no, da quella frase traspare nettamente per contrasto l’ombra della consapevolezza di non essere riusciti – come sempre, da ormai più sessant’anni – a raggiungere il cuore profondo del Paese, e ad essere finalmente maggioranza senza dover sperare nelle alchimie della legge elettorale, che nel 1996 li premiò con le liste civetta, ed oggi con il voto degli italiani all’estero.
Ci piace dunque pensare che davvero, nella pretenziosa invocazione di quei “tutti”, ci sia finalmente la presa d’atto dell’esistenza di una Right Nation italiana, che continua a mancare all'appello, e a rispondere pervicacemente no ai grandi giornali e alla loro prosopopea, agli intellettuali di corte delle oligarchie finanziarie assistite, agli artisti e ai comici engagè sempre alla ricerca di finanziamenti di Stato, ai vecchi baroni della Prima Repubblica e ai poteri che li sostengono. Una parte di nazione che non si è fatta conquistare, e anzi si è mobilitata proprio perché ha capito che a sinistra avevano il vento in poppa e non volevano lasciarli espugnare la cittadella del governo.
E’ probabile che i militanti di Piazza Maggiore questa sera cercheranno di sentirsi furbi e machiavellici, ripetendosi che il centrodestra con questa legge elettorale alla fine si è fatto male da solo. Forse molti di loro crederanno davvero che quel che i loro capi e capetti stanno per raccontare al microfono – l’agognata sconfitta di Berlusconi e i cinque anni di governo di sinistra – corrisponda davvero ad una realtà in atto.
Ma può anche darsi che, dal palco, i dirigenti dell’Unione non riusciranno a nascondere più di tanto la consapevolezza del guaio nel quale si stanno per cacciare. Nel viso e nello sguardo più tetri del solito, esibiti da Piero Fassino nella notte di piazza Santi Apostoli, quando – con la consueta arroganza dei suoi – il leader postcomunista ha tentato la forzatura mediatica, rivendicando la vittoria numerica che in quel momento al Senato ancora non c’era, sotto sotto si poteva intuire anche un certo bisogno di rassicurarsi.
Perché ora più che mai, nonostante la vittoria solo sfiorata, le chiavi del futuro politico italiano restano nelle mani di Silvio Berlusconi: le urne hanno rivelato che, nonostante il chiasso dei sondaggi e l’odio dell’establishment finanziario e giornalistico, c’è un’Italia più profonda, libera ed operosa, che pur non essendo garantita da rendite di Stato (anzi, forse proprio per quello) conosce fin troppo bene i propri interessi, e sa anche ben interpretare quelli degli altri.
Questa Italia è ancora maggioritaria, e continua a dare fiducia all’uomo di Arcore. E ha dimostrato che all’occorrenza, quando la posta in gioco è alta, è tuttora disposta a mobilitarsi per lui. La freddezza delle percentuali e della legge elettorale non ha messo in evidenza il fatto che le urne del 2006 hanno dato alla Casa delle Libertà moltissimi voti in più di quanti non ne ebbe nel 2001, nonostante quella volta avesse trionfato e dato vita al governo più solido e più riformatore che finora abbia avuto tutta la nostra storia repubblicana. Per non mandare dispersa l’esperienza di questi cinque anni, quasi tutto il nord Italia, così come il Lazio, la Puglia e la Sicilia, si sono di nuovo mobilitate. Forza Italia – della quale si auspicava il crollo – è rimasta saldamente il primo partito italiano, raccogliendo di nuovo da sola, alla faccia delle “tre punte”, circa la metà dei voti complessivi della coalizione.
Paradossalmente, se non fosse perché si tratta di fare guadagnare al Paese mesi preziosi ed evitare decisioni sciagurate che poi sarebbe difficile rappezzare, ci sarebbe da sperare che il calcolo finale dei voti per la Camera non provochi l’ennesimo ribaltamento di maggioranza. Chiedere la verifica era doveroso, non tanto per senso di giustizia, quanto perché non si poteva lasciare impunita la solita spocchiosa pretesa della sinistra di definire per gli altri lo stile della democrazia, che loro per primi mostrano di ignorare. Ma forse non è proprio il momento per un Governo istituzionale, nonostante Berlusconi sia stato lungimirante ad offrirlo.
Certo, se i dati provvisori saranno confermati – come è probabile che accadrà – e quindi se non ci sarà il nuovo ribaltamento, ci perderemo lo spettacolo delle facce dei dirigenti unionisti, e anche il sottile piacere della rilettura dei commenti di questi giorni dei soliti giornali. E dovremo affrontare una Presidenza della Repubblica scelta tutta da lorsignori, nonché le conseguenze di lungo respiro delle prime scelte finanziarie e fiscali che bene o male dovranno prendere.
Però, se il Prodino bis nascerà, nelle mani del Professore rimarrà il cerino di una legge finanziaria cruciale che il Senato (anzi, ciascun singolo senatore) senza dubbio gli stravolgeranno. E poi ci divertiremo a vedere le contorsioni che il pretorio unionista dovrà affrontare, quando dall’estrema sinistra si comincerà ad alzare la posta per portare a casa sempre di più, e anche quello che non potranno mai ottenere. Con la risicata maggioranza che si ritrovano, a nessuna, ma proprio nessuna, delle eterogenee componenti dell’Unione sarà possibile dire di no, ma Prodi o chi per lui nemmeno potrà dire di sì a tutti.
Nel frattempo il centrodestra potrà riorganizzarsi per tornare alle urne, quando, tra meno di un paio d’anni, le contraddizioni del campo avverso saranno esplose: allora sarà facile mostrare a tutto l’elettorato che a sinistra la loro chance l’hanno avuta, se la sono voluta disperatamente giocare, e il risultato si sarà visto. Non è nemmeno detto che proprio l’imminente referendum sulla riforma istituzionale, che tanti danno per perso come davano per perse le elezioni, non possa invece essere il definitivo segnale della riscossa.
Certo, vi è la prospettiva che – facendosi via via più forte la disperazione – in questi primi mesi la sinistra ceda alla consueta pulsione di voler ridurre Berlusconi al silenzio, per mezzo delle Procure deviate, o addirittura ricorrendo all’ineleggibilità o ad altre leggi ad personam. Ancora più paura mette l’ipotesi che qualcuno degli alleati della CdL finisca per cedere alla tentazione di scendere dal carro, se non altro per curare il proprio orticello. O che Berlusconi stesso ceda alla tentazione di un definitivo passo indietro.
Sono queste le ipotesi che si devono scongiurare, ancor più che un esproprio delle reti Mediaset. In questa campagna elettorale le Tv del Cavaliere hanno dimostrato una volta di più – a chi sa minimamente interpretare la realtà delle cose, a chi non è un coglione, insomma – di non essere mai state lo strumento vincente della politica del centrodestra.
Tuttavia, che piaccia o meno, è diventato chiaro che ancora oggi, come nel 1994, per il futuro del nostro Paese tutte le speranze di democrazia e di alternanza passano necessariamente dalla presenza politica di Silvio Berlusconi. La metà del Paese che è tornata in forze a dire no alla sinistra, ce lo ha confermato. Anche chi non ama la personalità e i modi del Caimano, non può più nascondersi che, pur con tutti i suoi difetti, tuttora si tratta dell’unico Berlusconi che abbiamo. E’ lui la pietra d’inciampo sulla quale sia il popolo degli assistiti, sia le oligarchie finanziarie, sindacali e giornalistiche di questo Paese, continuano a sfracellarsi da ormai dodici anni.
Ma proprio perché non possiamo contare in eterno sulla sua persona, è il momento di darsi da fare per creare il tanto vagheggiato soggetto unitario del centrodestra, dal quale possa emergere il futuro leader, e soprattutto una classe dirigente che possa garantire il futuro. Quando Berlusconi non sarà più in grado di fare politica in prima persona, senza una struttura forte, presente sul territorio, e senza una coesione politica di fondo, il giovane centrodestra italiano rischia davvero di fare la fine dei tories inglesi dopo il tramonto dell’era thatcheriana. Ma a differenza degli inglesi, il nostro polo conservatore rischia di rimanere senza radici, e di non poter trasformare in una solida tradizione politica le splendide intuizioni e la giganteggiante presenza del Caimano.
La storia recente, con il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita, e i risultati stessi delle ultime elezioni – che hanno evidenziato il successo dell’Udc, la relativa stasi del partito del neo-laicista Gianfranco Fini, e nell’altro campo il flop della Rosa nel Pugno – ci dimostrano che la strada è quella di un grande partito cristiano-liberale. Troppo cristiano per essere un semplice partito di “nicchia”, in continua contemplazione di se stesso, ma anche troppo liberale per essere neo-democristiano. (M.F. 12.4.06)
P.S.: il giorno dopo, prima di mettere in rete l’articolo, abbiamo visto le locandine dei giornali di Bologna che commentavano il triste Capodanno in piazza del Prodino. “Il Domani”, organo della federazione dei Ds, titolava su un Berlusconi imbroglione che deve andare a casa. Il Resto del Carlino ha opportunamente dimezzato il numero dei partecipanti sparato dai quotidiani gauchisti, e mostrato le foto di qualche coglione in piazza mentre innalzava cartelli sull’illegalità finalmente sconfitta, e sul ritorno della dignità nazionale. Non sarà l’assoluta prevedibilità delle reazioni politiche del popolo di sinistra a farci sembrare sempre così geniali le estemporaneità del Caimano?
Mentre scrivo, proprio sotto le finestre di questo studio, i primi militanti e simpatizzanti della sinistra si stanno radunando nei pressi di Piazza Maggiore. Tra i passanti qualcuno sobbalza, nell’udire all’improvviso le prove dell’impianto acustico. Parlando in quei microfoni, questa sera l’esperto spiritista di Scandiano cercherà di evocare davanti al “suo” (si fa per dire) elettorato bolognese l’ectoplasma del successo.
Tra poche ore Prodi cercherà di raccontare alla gente di sinistra – e prima ancora a se stesso – che nonostante gli imprevisti dell’ultima ora l’odiato tiranno è stato battuto, il problema è stato risolto, e la sua promessa di felicità verrà mantenuta. Ma è facile prevedere che questa sera la piazza centrale di Bologna, più che dalla facciata della basilica di san Petronio – imponente nella sua incompletezza, proprio come la “vittoria” del Professore – sarà dominata dall’ombra del Caimano.
I militanti della sinistra delusa non portano addosso simboli né bandiere, ma sono facilmente riconoscibili mentre si aggirano per il centro cittadino. Dalle espressioni dei loro volti non traspare né euforia, né allegria. E sarebbe retorico aspettarsi qualche sentimento più complesso. Pur senza volerlo, e anzi volendo dire il contrario, con la sua ormai storica battuta testicolare Berlusconi ha saputo riassumere icasticamente ciò che condiziona nel profondo la forma mentis del militante di sinistra. Non è quindi il caso di andare alla ricerca di chissà quali sfumature di sentimenti e di emozioni negli sguardi di chi sta per recarsi in Piazza Maggiore.
Non ci troveremmo la nobiltà del rimpianto, né la malinconia di chi nel momento della verità ha visto venir meno un trionfo a lungo atteso. E per fortuna, a parte i soliti gruppetti di comunisti duri e puri e di lettori di Micromega, non ci sembra nemmeno di intuire lo sguardo feroce delle tricoteuses alle quali è stata tolta la vista del sangue, in rivolta per l’annunciato rinvio dell’esecuzione.
Diciamo che negli sguardi dei militanti dell’Unione c’è il buonumore un po’ forzato di chi sta per andare alla solita noiosa festa di Capodanno, alla quale non può rinunciare per non sentirsi emarginato, pur già sapendo che difficilmente si divertirà.
Sul palco è salita un’orchestrina jazz che ha appena iniziato le prove, e alle sue spalle si legge “inizia il futuro di tutti”. Sembrerebbe il solito slogan velleitario, eppure si sente che in quel pronome ecumenico non c’è solo la solita insopportabile pretesa postcomunista di essere gli unici a rappresentare coloro che meritano di essere rappresentati. Per una volta, che lo volessero o no, da quella frase traspare nettamente per contrasto l’ombra della consapevolezza di non essere riusciti – come sempre, da ormai più sessant’anni – a raggiungere il cuore profondo del Paese, e ad essere finalmente maggioranza senza dover sperare nelle alchimie della legge elettorale, che nel 1996 li premiò con le liste civetta, ed oggi con il voto degli italiani all’estero.
Ci piace dunque pensare che davvero, nella pretenziosa invocazione di quei “tutti”, ci sia finalmente la presa d’atto dell’esistenza di una Right Nation italiana, che continua a mancare all'appello, e a rispondere pervicacemente no ai grandi giornali e alla loro prosopopea, agli intellettuali di corte delle oligarchie finanziarie assistite, agli artisti e ai comici engagè sempre alla ricerca di finanziamenti di Stato, ai vecchi baroni della Prima Repubblica e ai poteri che li sostengono. Una parte di nazione che non si è fatta conquistare, e anzi si è mobilitata proprio perché ha capito che a sinistra avevano il vento in poppa e non volevano lasciarli espugnare la cittadella del governo.
E’ probabile che i militanti di Piazza Maggiore questa sera cercheranno di sentirsi furbi e machiavellici, ripetendosi che il centrodestra con questa legge elettorale alla fine si è fatto male da solo. Forse molti di loro crederanno davvero che quel che i loro capi e capetti stanno per raccontare al microfono – l’agognata sconfitta di Berlusconi e i cinque anni di governo di sinistra – corrisponda davvero ad una realtà in atto.
Ma può anche darsi che, dal palco, i dirigenti dell’Unione non riusciranno a nascondere più di tanto la consapevolezza del guaio nel quale si stanno per cacciare. Nel viso e nello sguardo più tetri del solito, esibiti da Piero Fassino nella notte di piazza Santi Apostoli, quando – con la consueta arroganza dei suoi – il leader postcomunista ha tentato la forzatura mediatica, rivendicando la vittoria numerica che in quel momento al Senato ancora non c’era, sotto sotto si poteva intuire anche un certo bisogno di rassicurarsi.
Perché ora più che mai, nonostante la vittoria solo sfiorata, le chiavi del futuro politico italiano restano nelle mani di Silvio Berlusconi: le urne hanno rivelato che, nonostante il chiasso dei sondaggi e l’odio dell’establishment finanziario e giornalistico, c’è un’Italia più profonda, libera ed operosa, che pur non essendo garantita da rendite di Stato (anzi, forse proprio per quello) conosce fin troppo bene i propri interessi, e sa anche ben interpretare quelli degli altri.
Questa Italia è ancora maggioritaria, e continua a dare fiducia all’uomo di Arcore. E ha dimostrato che all’occorrenza, quando la posta in gioco è alta, è tuttora disposta a mobilitarsi per lui. La freddezza delle percentuali e della legge elettorale non ha messo in evidenza il fatto che le urne del 2006 hanno dato alla Casa delle Libertà moltissimi voti in più di quanti non ne ebbe nel 2001, nonostante quella volta avesse trionfato e dato vita al governo più solido e più riformatore che finora abbia avuto tutta la nostra storia repubblicana. Per non mandare dispersa l’esperienza di questi cinque anni, quasi tutto il nord Italia, così come il Lazio, la Puglia e la Sicilia, si sono di nuovo mobilitate. Forza Italia – della quale si auspicava il crollo – è rimasta saldamente il primo partito italiano, raccogliendo di nuovo da sola, alla faccia delle “tre punte”, circa la metà dei voti complessivi della coalizione.
Paradossalmente, se non fosse perché si tratta di fare guadagnare al Paese mesi preziosi ed evitare decisioni sciagurate che poi sarebbe difficile rappezzare, ci sarebbe da sperare che il calcolo finale dei voti per la Camera non provochi l’ennesimo ribaltamento di maggioranza. Chiedere la verifica era doveroso, non tanto per senso di giustizia, quanto perché non si poteva lasciare impunita la solita spocchiosa pretesa della sinistra di definire per gli altri lo stile della democrazia, che loro per primi mostrano di ignorare. Ma forse non è proprio il momento per un Governo istituzionale, nonostante Berlusconi sia stato lungimirante ad offrirlo.
Certo, se i dati provvisori saranno confermati – come è probabile che accadrà – e quindi se non ci sarà il nuovo ribaltamento, ci perderemo lo spettacolo delle facce dei dirigenti unionisti, e anche il sottile piacere della rilettura dei commenti di questi giorni dei soliti giornali. E dovremo affrontare una Presidenza della Repubblica scelta tutta da lorsignori, nonché le conseguenze di lungo respiro delle prime scelte finanziarie e fiscali che bene o male dovranno prendere.
Però, se il Prodino bis nascerà, nelle mani del Professore rimarrà il cerino di una legge finanziaria cruciale che il Senato (anzi, ciascun singolo senatore) senza dubbio gli stravolgeranno. E poi ci divertiremo a vedere le contorsioni che il pretorio unionista dovrà affrontare, quando dall’estrema sinistra si comincerà ad alzare la posta per portare a casa sempre di più, e anche quello che non potranno mai ottenere. Con la risicata maggioranza che si ritrovano, a nessuna, ma proprio nessuna, delle eterogenee componenti dell’Unione sarà possibile dire di no, ma Prodi o chi per lui nemmeno potrà dire di sì a tutti.
Nel frattempo il centrodestra potrà riorganizzarsi per tornare alle urne, quando, tra meno di un paio d’anni, le contraddizioni del campo avverso saranno esplose: allora sarà facile mostrare a tutto l’elettorato che a sinistra la loro chance l’hanno avuta, se la sono voluta disperatamente giocare, e il risultato si sarà visto. Non è nemmeno detto che proprio l’imminente referendum sulla riforma istituzionale, che tanti danno per perso come davano per perse le elezioni, non possa invece essere il definitivo segnale della riscossa.
Certo, vi è la prospettiva che – facendosi via via più forte la disperazione – in questi primi mesi la sinistra ceda alla consueta pulsione di voler ridurre Berlusconi al silenzio, per mezzo delle Procure deviate, o addirittura ricorrendo all’ineleggibilità o ad altre leggi ad personam. Ancora più paura mette l’ipotesi che qualcuno degli alleati della CdL finisca per cedere alla tentazione di scendere dal carro, se non altro per curare il proprio orticello. O che Berlusconi stesso ceda alla tentazione di un definitivo passo indietro.
Sono queste le ipotesi che si devono scongiurare, ancor più che un esproprio delle reti Mediaset. In questa campagna elettorale le Tv del Cavaliere hanno dimostrato una volta di più – a chi sa minimamente interpretare la realtà delle cose, a chi non è un coglione, insomma – di non essere mai state lo strumento vincente della politica del centrodestra.
Tuttavia, che piaccia o meno, è diventato chiaro che ancora oggi, come nel 1994, per il futuro del nostro Paese tutte le speranze di democrazia e di alternanza passano necessariamente dalla presenza politica di Silvio Berlusconi. La metà del Paese che è tornata in forze a dire no alla sinistra, ce lo ha confermato. Anche chi non ama la personalità e i modi del Caimano, non può più nascondersi che, pur con tutti i suoi difetti, tuttora si tratta dell’unico Berlusconi che abbiamo. E’ lui la pietra d’inciampo sulla quale sia il popolo degli assistiti, sia le oligarchie finanziarie, sindacali e giornalistiche di questo Paese, continuano a sfracellarsi da ormai dodici anni.
Ma proprio perché non possiamo contare in eterno sulla sua persona, è il momento di darsi da fare per creare il tanto vagheggiato soggetto unitario del centrodestra, dal quale possa emergere il futuro leader, e soprattutto una classe dirigente che possa garantire il futuro. Quando Berlusconi non sarà più in grado di fare politica in prima persona, senza una struttura forte, presente sul territorio, e senza una coesione politica di fondo, il giovane centrodestra italiano rischia davvero di fare la fine dei tories inglesi dopo il tramonto dell’era thatcheriana. Ma a differenza degli inglesi, il nostro polo conservatore rischia di rimanere senza radici, e di non poter trasformare in una solida tradizione politica le splendide intuizioni e la giganteggiante presenza del Caimano.
La storia recente, con il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita, e i risultati stessi delle ultime elezioni – che hanno evidenziato il successo dell’Udc, la relativa stasi del partito del neo-laicista Gianfranco Fini, e nell’altro campo il flop della Rosa nel Pugno – ci dimostrano che la strada è quella di un grande partito cristiano-liberale. Troppo cristiano per essere un semplice partito di “nicchia”, in continua contemplazione di se stesso, ma anche troppo liberale per essere neo-democristiano. (M.F. 12.4.06)
P.S.: il giorno dopo, prima di mettere in rete l’articolo, abbiamo visto le locandine dei giornali di Bologna che commentavano il triste Capodanno in piazza del Prodino. “Il Domani”, organo della federazione dei Ds, titolava su un Berlusconi imbroglione che deve andare a casa. Il Resto del Carlino ha opportunamente dimezzato il numero dei partecipanti sparato dai quotidiani gauchisti, e mostrato le foto di qualche coglione in piazza mentre innalzava cartelli sull’illegalità finalmente sconfitta, e sul ritorno della dignità nazionale. Non sarà l’assoluta prevedibilità delle reazioni politiche del popolo di sinistra a farci sembrare sempre così geniali le estemporaneità del Caimano?
Denatalità in Europa
di: Guglielmo Piombini, dal blog Libreriadelponte.com, 7 aprile 2006
Sapete perché gli islamici prenderanno il posto degli europei?
Recentemente La Civiltà Cattolica, ricordava: "In Europa il numero di immigrati musulmani è passato dagli 800.000 nel 1950 agli attuali 20 milioni, nel 2015 saranno 40 milioni mentre gli europei caleranno. Alla fine, come in Israele, i musulmani saranno maggioranza’. In questo calo degli europei davvero non incidono per nulla le interruzioni volontarie della gravidanza, che dal 1997 al 2001 sono state in Italia 684.041?"
A proposito della denatalità in Italia, la BBC ha fatto un reportage, intervistando alcune donne:
Ciò che ha impressionato, tuttavia, sono i commenti dei lettori. La maggior parte infatti sostengono che il calo delle nascite è un bene per ragioni ambientali.
Purtroppo sembre la BBC segnala che aumentano in Occidente coloro che decidono volontariamente di non avere figli, adducendo motivazioni chiaramente condizionate dalla mentalità antinatalista dominante:
Trattandosi soprattutto di decisioni di tipo culturale, gli incentivi fiscali, i bonus per le nascite o altri benefici economici serviranno a poco.
Ora si capisce perché gli europei si estingueranno e gli islamici prenderanno il loro posto: i secondi non hanno avuto il '68, la controcultura, il femminismo e l'ambientalismo; i primi invece hanno preso sul serio le teorie antinataliste di Paul Ehrlich o Luigi De Marchi.
Sapete perché gli islamici prenderanno il posto degli europei?
Recentemente La Civiltà Cattolica, ricordava: "In Europa il numero di immigrati musulmani è passato dagli 800.000 nel 1950 agli attuali 20 milioni, nel 2015 saranno 40 milioni mentre gli europei caleranno. Alla fine, come in Israele, i musulmani saranno maggioranza’. In questo calo degli europei davvero non incidono per nulla le interruzioni volontarie della gravidanza, che dal 1997 al 2001 sono state in Italia 684.041?"
A proposito della denatalità in Italia, la BBC ha fatto un reportage, intervistando alcune donne:
Ciò che ha impressionato, tuttavia, sono i commenti dei lettori. La maggior parte infatti sostengono che il calo delle nascite è un bene per ragioni ambientali.
Purtroppo sembre la BBC segnala che aumentano in Occidente coloro che decidono volontariamente di non avere figli, adducendo motivazioni chiaramente condizionate dalla mentalità antinatalista dominante:
Trattandosi soprattutto di decisioni di tipo culturale, gli incentivi fiscali, i bonus per le nascite o altri benefici economici serviranno a poco.
Ora si capisce perché gli europei si estingueranno e gli islamici prenderanno il loro posto: i secondi non hanno avuto il '68, la controcultura, il femminismo e l'ambientalismo; i primi invece hanno preso sul serio le teorie antinataliste di Paul Ehrlich o Luigi De Marchi.
Avvio
Questo blog nasce per iniziativa di un gruppo bolognese che si propone di rilanciare la via cristiana, liberale e conservatrice per la costruzione del futuro del centrodestra.
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