21 novembre 2007

Partito Popolare della Libertà?

Scusate se ci citiamo, non è assolutamente per dire che avevamo ragione noi, anzi. E’ solo per fare notare che, se in politica tutto può cambiare nello spazio di un mattino, le nostre domande restano però ancora quelle.

Quando abbiamo aperto questo piccolo blog, subito dopo le elezioni politiche della primavera 1996, per cercare di contribuire come potevamo alla rinascita del Centrodestra, nel nostro “Piccolo Manifesto del Filo a Piombo” (e non dite che “manifesto” è un concetto di sinistra: e il “popolo” allora che cos’è?) avevamo scritto:

“ ... oggi, dopo le elezioni del 9-10 aprile, abbiamo la sensazione di essere sempre stati, e di essere ancora, sempre un po’ più avanti e assieme un po’ più indietro rispetto alla personalità di Silvio Berlusconi.
Più avanti, perché anche ora che Forza Italia si è confermata il primo partito italiano, e ha dimostrato la sua capacità di rispondere alle attese della maggioranza degli italiani, continuiamo ad interrogarci su come un partito simile potrà sopravvivere alla personalità del Caimano, e strutturarsi come polo di attrazione di un futuro partito dei moderati.
Ma nel contempo ci sentiamo più indietro, rispetto alla genialità con cui Berlusconi è riuscito e tuttora continua ad interpretare il sentire comune del Paese che non si riconosce nella sinistra.
Non è la prima volta, dal 1994 ad oggi, che ci sorprendiamo a doverlo idealmente rincorrere, subito dopo avere temuto che la sua epopea politica fosse quasi al capolinea.”

Oggi, a un anno e mezzo di distanza, ci sembra ancora valida la domanda su come quello che sta per nascere potrà sopravvivere a Berlusconi. Per questo sarebbe fondamentale partire con il piede giusto.
In ogni caso, per ora, abbiamo anche l’impressione di avere appena assistito ad uno dei più bei gol di Maradona o Baggio, o eventualmente - anche se non ci piaceva la maglia - ad un assist di Platini.

Improvvisamente, quando la partita sembrava sonnecchiare e si temeva la beffa al 90°, ecco che all’improvviso è arrivato uno di quei gol che si possono solo stare a guardare a bocca aperta. Allargando le braccia, nel caso che si fosse un difensore o un tifoso dell’altra squadra. Perchè all’improvviso si è intuito - e non capito, perchè se si cerca di capire certi colpi si ottiene solo di perdersene la bellezza - di aver visto all’opera un fuoriclasse che quando decide di puntare la porta mostra di avere almeno tre marce in più di tutti gli altri.

Duole pensare che possa venir meno il bipolarismo. Siamo quarantenni, quindi riusciamo ancora ad avere in prima persona il ricordo asfissiante dei governi che venivano fatti in parlamento, e si scioglievano per decisione delle segreterie dei partiti. Al punto di esservene almeno quattro o cinque per legislatura. Noi siamo di quelli che sognavano la Thatcher e Reagan quando in Italia si alternavano (litigando) Craxi e De Mita, e dopo ogni elezione non si faceva il governo, bensì “l’analisi del voto”.
Quindi, figuriamoci se adesso non abbiamo tutte le paure possibili di fronte al solo pensiero una futura larga intesa tra Berlusconi e Veltroni.

Però va anche detto che in questi ultimi quattordici anni i benefici del bipolarismo ce li siamo goduti solo a metà, e solo nel quinquennio del secondo governo Berlusconi. E anche in quel periodo, abbiamo l’impressione che certe cose non si siano fatte - specialmente la riforma della giustizia, quella della pubblica amministrazione e le grandi opere pubbliche - sia stato soprattutto per colpa delle discontinuità di Follini, e del troppo amore di Fini per chi vive alla greppia dello Stato (per non parlare dei suoi mal di pancia verso Tremonti e delle sue sortite laiciste e filoimmigratorie).

Resta comunque il fatto che il buon Silvione il suo contratto con gli Italiani lo ha realizzato solo per metà. Se non fosse che per il nostro Paese è già grasso che cola, si potrebbe anche guardare al bicchiere mezzo vuoto che non sappiamo come potrà mai più essere riempito.
Inoltre, per il resto, gli ultimi quattordici anni sono stati anni che - esattamente come prima - hanno visto governi che venivano sfiduciati e sostituiti da esecutivi “tecnici”, con le segreterie di partito che imponevano al Quirinale se e quando sciogliere le camere, e soprattutto con i partitelli che alle elezioni mai e poi mai arriveranno in doppia cifra che però continuavano imperterriti a bloccare tutto chiedendo ed ottenenso continue verifiche, compromessi, posti di potere, ecc. ecc.

Per questo, alla fine, stiamo ancora con Silvio e speriamo che sia la volta buona. Se con lui proprio deve rinascere la Dc, almeno sia una Dc liberale come non lo è stata più dai tempi di De Gasperi. E comunque, è ora che il suo partito si strutturi sul territorio in maniera completamente diversa da prima. Non siamo quelli che storcono il naso perchè ancora una volta l’organizzazione nascerà dall’alto, però resta il fatto che - appunto - non è che in futuro ci sarà sempre Berlusconi a toglierci le castagne dal fuoco, quando ci sarà bisogno di ricominciare a radicarsi sul territorio.

Infine, abbiamo una osservazione, per ora che siamo nella fase costituente: e se alla fine lo chiamassimo “Partito Popolare della Libertà”? Richiama il PPE, ma senza usare il sostantivo “popolo” che alle nostre orecchie - e non solo alle nostre - in effetti fa un po’ troppo bandiera rossa la trionferà. E poi riunisce comunque i due concetti, quello dell’estrazione popolare e quello dell’idea liberale, senza essere troppo lungo e ridondante di congiunzioni.
Pensaci, Silvio. Noi ci staremo.

20 novembre 2007

San Babila, esito naturale di un percorso coerente

“La politica non può dividere ciò che la piazza unisce”. A pronunciare queste parole, davanti a milioni di persone plaudenti e sbandieranti ciascuna il proprio vessillo di partito, fu Gianfranco Fini il 2 dicembre 2006 in piazza San Giovanni, a Roma. Una manifestazione grandiosa sulla quale i principali leader dei partiti della Casa delle Libertà e moltissimi elettori dell’Udc si ritrovarono d’accordo nel ritenerla il punto di partenza per la nascita di un nuovo contenitore riservato a tutti i moderati e i liberali italiani.

Per questo sorprende la reazione del capo di Alleanza nazionale alla “bomba” lanciata da Berlusconi: Forza Italia si scioglie per confluire nel partito del popolo italiano delle libertà. E’ possibile che la freddezza di Fini sia legata alle polemiche degli ultimi giorni, come tali contingenti e di cortissimo respiro. Saranno i prossimi giorni a far capire meglio le sue intenzioni. E’ certo però che Silvio ha parlato al cuore e alla mente della cosiddetta base, dei militanti volontari, di tutti coloro che non ne vogliono più sapere delle minuscole beghe fra alleati.

Si è librato in alto per guardare più lontano di tutti. Ancora una volta, dopo il 1994. Un percorso coerente dunque, quello di Silvio, che in meno di dodici mesi estrae dal cilindro l’ennesima innovazione. Anche se l’immagine del cilindro non è la più calzante. Perché non si tratta di un’invenzione estemporanea, ma di un progetto meditato e tradotto in pratica. Non è un caso che accanto a lui, in piazza San Babila, ci fosse una raggiante Michela Vittoria Brambilla.

Colei che materialmente ha realizzato quel progetto dandogli la forma dei Circoli della Libertà. Un passaggio di testimone, allora, che avviene sulla base del successo dei Circoli, della raccolta firme contro Prodi, di un sentimento comune ai moderati italiani di rilanciare la sfida liberale. Una sfida che con Forza Italia non era stata vinta, ma che Forza Italia aveva avuto comunque il merito di “fotografare”, di porla sul tavolo della politica e del Paese. Ora il Cavaliere ci riprova, innovando negli uomini (o per meglio dire, nelle donne). E capisce che il suo vecchio partito, così come la vecchia coalizione di centrodestra, usurata dai conflitti interni, non è più capace di dare le risposte che la gente pretende.

Come è suo costume, salta a piè pari la politica politicante e parla direttamente al signor Rossi e alla signora Maria. Sintomatico il primo impegno che ha urlato, lanciando la nuova idea: quello di mandare a casa i vecchi parrucconi, consentendo a tutti di eleggere i propri dirigenti. Parrucconi che anche Forza Italia aveva e continua ad avere.

Colonnelli senza consenso, lontanissimi dalla base che la base vuole ripudiare. Un partito consunto dai conflitti interni, sempre più profondi e sempre più devastanti. Un partito che, appunto, ha perso per strada lo spirito che lo aveva animato all’inizio. Se da Fini è arrivato il gelo e dalla Lega un fermo disinteresse, l’Udc pare andarci più cauta. Ma la bomba è appena deflagrata. Ci ricordiamo cosa dicevano tutti tredici anni fa dopo l’annuncio della nascita di Forza Italia?

Graziano Girotti
(L'opinione, 20 novembre 2007)

09 novembre 2007

In morte di Enzo Biagi. Sessanta minuti di applausi a Blondet

Vorrei fare anche qui un ricordo di Enzo Biagi.

L'altro giorno ho sentito per caso, in automobile, un giornale radio mattutino della Rai, proprio mentre dava per la prima volta la notizia della morte: subito dopo sono partiti due coccodrilli - come si dice in gergo - che erano già stati evidentemente preparati almeno dal giorno prima.
Uno era un'intervista a Paolo Mieli, che a quanto pare aveva dato per morto il Venerato Maestro prima ancora che ci lasciasse sul serio.

Tutte le mezze tacche del giornalismo in questi giorni hanno sgomitato per avere la possibilità di scrivere due righe di proprio ricordo, solo per fare capire al lettore che conoscevano bene Enzo Biagi, e quindi sottintendere che sono veri giornalisti anche loro.

Bene, vorrei farlo anch'io su questo blog. Perchè non ho sempre fatto l'avvocato, come alcuni dei nostri venticinque lettori sapranno. Sono stato anch'io un giornalista, quando ero più giovane.
A venticinque anni, appunto, ho lavorato per il Corriere della Sera e poi per l'Europeo (gruppo RCS).

Essendo io giovane, e nemmeno con il contratto da redattore (ma anche se l'avessi avuto avrebbe fatto lo stesso), quando l'Europeo metteva in pagina qualche servizio su argomenti di costume, a volte toccava a me fare il giro delle telefonate ai vari Vip, per chiedere una dichiarazione in materia e poi fare l'articolo con il "pastone" dei vari pareri.

Era un po' una prassi di tutti i periodici, a quell'epoca. E per chi doveva redigerla, uno dei lavori più umilianti che ci siano.

Un giorno salta fuori una notizia che riguardava la bestemmia.
Non ricordo di preciso di cosa si trattasse, forse qualche Vip che aveva bestemmiato in Tv o qualche prete che aveva lanciato iniziative particolari contro la blasfemia.

Allora comincio il giro delle telefonate.
Poichè erano i primi anni '90, faccio prima Vittorio Sgarbi, poi don Baget Bozzo, poi Lina Sotis, poi provo con l'Alba Parietti, e poi con qualcun altro che non ricordo.
Ho sempre avuto in simpatia Sgarbi ed era il mio preferito per queste cose, proprio perchè non solo era il più disponibile, ma era anche bravissimo ad inventarsi su due piedi - senza nemmeno pensarci - una risposta intelligente per una qualunque domanda idiota.

Poi mi passa davanti la caporedattrice che aveva commissionato il pastone e mi chiede: hai chiesto a Biagi? E' un tuo conterraneo e mi pare che sia anche credente.

Ma dove lo vado a pescare, alla Rai? Chiedo io. E lei: vedo se ho il numero, la RCS (cioe' l'editore comune) gli passa un ufficio tutto suo, è probabile che lo trovi li'.

Lo chiamo, devo insistere per farmelo passare, nonostante avessi ben specificato che chiamavo per conto di una testata dello stesso editore che ci pagava tutti, lui, me e la segretaria con cui stavo parlando (non ho detto testualmente così ma quasi), e in questo modo riesco ad avercelo al telefono.

Gli spiego la cosa, e gli faccio capire che consideravo anch'io insopportabile la prassi di quelle dichiarazioni di costume che i settimanali chiedono ai Vip, ma facevo appello al suo senso di solidarietà per un giovane collega, che si trovava costretto dal comune editore a fare il pezzo.
E poi gli avevo chiesto un parere sulla bestemmia, mica di bestemmiare lui.

Mi ha trattato malissimo.

Ora che è morto, mi segnalano l'articolo che segue, di Maurizio Blondet, un giornalista che dalle parti del Filo a Piombo non condividiamo particolarmente su molte cose, ma su qualche altra sì.
Però, se ieri a Pianaccio i suoi compaesani montanari lo hanno salutato con "O Bella Ciao", io - da bolognese di città, appena un po' in collina - vorrei congedarmi da Enzo Biagi con questo articolo.
Salutando le opinioni di Blondet esattamente come i colleghi di Fantozzi salutarono la sua famosa dichiarazione sulla Corazzata Potemkin.

Anche se a qualcuno sembrerà una bestemmia.


Morte del venerato maestro
Maurizio Blondet
08/11/2007

Tutto il coro italico ha cantato le lodi per Enzo Biagi. Nemmeno una stecca, non una nota dissonante. Uomo libero, bravo, buono, eccezionale, santo subito.
Sapete cosa vuol dire?
Che l'Italia non ha preso atto - il solito ritardo culturale - del più grande passo avanti della sociologia italiana dopo Pareto, confermando ancora una volta il disprezzo in cui tiene i suoi scienziati e scopritori.

Intendo parlare della scoperta di Edmondo Berselli, giornalista a tempo perso (su Repubblica, l'Espresso), ma socio-comico di valore assoluto: il quale ha definito le tre categorie in cui si dividono in Italia le personalità di qualche emergenza mediatica, siano intellettuali, artisti, letterati o politici. E' una scoperta fondamentale, pari solo a quella della tripartizione funzionale nelle società arcaiche indo-europee definita da Dumézil. Anche Berselli ha definito una tripartizione che inaugura, di fatto, la nuova sociologia: la «Sociologia delle Mezze Tacche».

Egli divide la società dei salotti che contano in tre categorie ascendenti:1) Belle Promesse 2) Soliti Stronzi 3) Venerati Maestri.
E' uno schema che, come la tavola periodica degli elementi di Mendeleyef, consente di portare un limpido ordine nel caos apparente della società italiota.
Tutto si riduce allo sforzo di passare da Bella Promessa (per un'opera prima o un film) a Venerato Maestro, evitando il passaggio alla categoria 2.
Fate un nome a caso: Nanni Moretti? Bella Promessa, ma già trascolora a Solito Stronzo.
Non sarà mai Venerato Maestro.
Baricco? Bella Promessa ieri, Solito Stronzo in atto. Camilleri? Venerato Maestro, anche se Solito Stronzo a tutto tondo.
Ecco, avete capito lo schema, ora potete applicarlo da soli. Facile e geniale.

Se Berselli non fosse così misconosciuto e la sua Teoria generale della Mezza Tacca fosse più diffusa, oggi ci saremmo risparmiate le lodi più sperticate rivolte al defunto.
Tutti hanno trattato Biagi da Venerabile Maestro, ma sapendo che in realtà era - e ormai da decenni - il Solito Stronzo.
Avidissimo, senza cuore (letteralmente: l'organo era stato sostituito da tubi di teflon, miracolo della cardiochirurgia) e perciò reso un non-morto, recitava da finto buono.
In realtà, era un'azienda, anzi una piantagione sudista: aveva al suo servizio uno stuolo di negri, intesi come giornalisti anonimi che scrivevano i libri suoi. Libri che lui firmava, dopo averci incastonato, manco fossero rubini e perle, qualcuno dei suoi ripetitivi luoghi comuni - una quindicina in tutto - che ne garantivano il successo.Esempio: «Una volta intervistai Heminghway e gli chiesi se era credente. 'A volte, di notte', rispose».

Era lo stile Biagi, e nulla ha più successo presso le dattilografe di un libro che dice quello che già avete sentito mille volte. Il guaio è che Biagi pretendeva di incastonare quei suoi grumi anche nei fondi che esigeva - da Mieli - fossero messi in prima pagina, e sul Corriere.
Imbarazzante: di fatto era sempre lo stesso fondo, un fondo di magazzino risalente agli anni '50 e riciclato come spiegazione di ogni fenomeno avvenuto da allora: fosse la discesa in campo di Berlusconi, l'11 settembre o l'invasione dell'Iraq, saltava sempre fuori la storia di Heminghway.

Ma Biagi doveva essere accontentato. Un uomo potente e bilioso, vendicativo - ci sono redattori del Corriere, costretti a passare i suoi pezzi, che si ricordano ancora coi sudori freddi, come li trattava quando osavano telefonargli per dire che una sua parola non si capiva (scriveva a mano).
Il fatto è che al Corriere era tornato Montanelli, e il buonissimo Biagi non tollerava che Indro andasse in prima, e lui no. Il tipico Solito Stronzo.
Scomparso Montanelli, si placò.Forse anche l'idraulica al teflon cominciava a cedere. Ma ormai era passato alla categoria superiore: il Venerato Maestro.

Il motivo lo sapete: perché Berlusconi lo aveva «cacciato dalla RAI», con quello che nella leggenda passa come «decreto bulgaro». Infatti, come avete sentito tutti fino all'indigestione, l'episodio è stato evocato mille volte: non era più Enzo Biagi il miliardario, era il nuovo Giacomo Matteotti assassinato dai fascisti.
E' infatti la sinistra a decretare quello status: la famosa egemonia culturale.
Persino Montanelli, detestato destrorso bersaglio delle BR, divenne di colpo Venerato Maestro quando cominciò a insultare Berlusconi.

Da anni ormai è questo l'esame decisivo che apre la porta del mausoleo ideale (ricalcato su quello che a Mosca conserva il pupazzetto dipinto di Lenin): essere contro Berlusconi, avergli tirato dei colpi bassi.
Ciampi il banchiere è Venerato Maestro. La Levi Montalcini, Venerata Maestra. Il professor Veronesi, il chirurgo dei ricchi? Venerato Maestro da quando si prospetta una sua entrata in un qualunque governo di sinistra.
Persino la mummia di Andreotti, l'ex Belzebù, è sul punto di assurgere a Venerato Maestro, da quando vota come senatore a vita tenendo in vita Teflon Prodi.

Naturalmente ci sono dei limiti all'egemonia culturale e al suo potere: benchè votino come si deve, un paio di senatori a vita come Emilio Colombo Cocaina e Oscar Luigi Scalfaro l'ipocrita, come Venerati Maestri sono improponibili.
La loro natura di Solito Stronzo è troppo evidente ad occhio nudo.Quanto a Cossiga, le sinistre hanno aggiunto troppe K nel suo nome odiato («Kossiga» con le due SS runiche) per poterlo promuovere. Inoltre, è troppo imprevedibile: il Venerato Maestro deve avere soprattutto una qualità: restare immobile e muto nella gloria che lo circonfonde, appunto come Lenin nel mausoleo.

Vi sono stati altri tempi, in cui - come ricorda Berselli nella sua opera fondamentale («Venerati Maestri - Operetta immorale sugli intelligenti d'Italia», Mondadori) - il potere dell'egemonia culturale non aveva questi limiti.
Norberto Bobbio era una nullità morale e intellettuale palese (un solo libro di Marcello Veneziani, per dire, lo supera di una ventina di volte), ma si riuscì ancora a farne un Venerato Maestro.
E Alberto Moravia?Qualche romanzo potabile all'inizio (nello stato di Bella Promessa) e poi un'incresciosa longevità come banalissimo Solito Stronzo, sfiatato, banale, consunto da quella sua lubricità decrepita.
Eppure rimase Venerato Maestro fino all'ultimo respiro. Era il dittatore delle lettere italiote.
Non si poteva non intervistarlo in ginocchio, chiedere il suo parere con infinito rispetto. E pagargli parcelle colossali per i suoi responsi o collaborazioni all'Espresso.

S'intende che da quando è morto, l'intera opera letteraria di Moravia è caduta nel dimenticatoio, la sua stessa memoria è cancellata: con sollievo, anche a sinistra si sa che non è più necessario citare né leggere quel Solito Stronzo. Lo stesso è accaduto a Bobbio: già due mesi dopo il trapasso nessuno lo citava più. Chiuso. Fine.
E' servito finchè è servito, l'abbiamo dovuto sopportare: si passi ad altro.

Bisogna dire che questa fabbrica di glorie, il PCI l'ha ereditata dalla solida tradizione italiana massonico-risorgimentale. Benedetto Croce (1866-1952) fu il più ingombrante Venerato Maestro della sua epoca, per mezzo secolo. Persino Antonio Gramsci - che come pensatore era più vispo - dovette fare i conti con la cosiddetta «ipoteca crociana», persino Togliatti.
Non c'era scampo: per un secolo, o si era crociani o anti-crociani. In cosa consistesse l'ipoteca crociana è un mistero, che non vale la pena di rivelare ai più giovani, perché tale ipoteca è scomparsa senza lasciar traccia.
Faccio solo notare che in Europa, i filosofi coetanei o di poco posteriori non hanno mai sentito il bisogno di citare Croce una volta: e parlo di Ortega y Gasset (1883-1956), di Heidegger (1889-1976), di Von Hayek (1899-1992) e von Mises (1881-1973).
Tutti costoro non sentirono mai il bisogno di confrontare il loro pensiero con quello di Croce, né di ricavare da lui - sia pure per contrastarlo - qualche apporto intellettuale.
E sì che per decenni Croce si catalogò come «filosofo del liberalismo»: almeno von Mises ed Hayek, che del liberalismo sono i padri, avrebbero dovuto accorgersene.

Un motivo ci sarà.In Europa si sapeva benissimo che Croce era un onorato Solito Stronzo, riciclatore infinito di un hegelismo di seconda mano, liberale per nulla.
Solo in Italia l'ipoteca crociana rimase «incontournable», un macigno sulla strada con cui «si dovevano fare i conti» e da infliggere come «filosofia italiana» unica a generazioni di liceali insieme a Carducci (altro Venerato Maestro oggi perfettamente contournable).
Per dire, era in circolazione allora Vilfredo Pareto, e ancora oggi lo si legge, si trova citato all'estero. Ma lui non divenne mai un Venerato Maestro - non era utilizzabile a sinistra come utile idiota, né recuperabile come «eredità paretiana» troppo elitaria - e dovette andare a insegnare in Svizzera.

Perché questo è l'effetto della creazione italiota di Venerati Maestri, bloccare le idee, le ricerche e le personalità nuove, irrigidire la celebrata «cultura italiana» nel déjà vu e nella laica liturgia santificante. Serve a mummificare in alto, e a sopprimere e soffocare di sotto, a troncare la discussione pubblica.
Solo quando Atropo taglia il filo della vita di un Venerato Maestro - di solito dotato di deplorevole salute senile, cosa non rara tra i fannulloni pantofolai - si respira per un po' e si comincia a curiosare delle novità estere da recuperare fuori tempo massimo: che so, Cèline, Dumézil appunto, Carl Schmitt…
Ma subito viene creato un altro Venerato Maestro, e si torna sotto il tallone dell'Accademia dei panzoni, quella che Leopardi chiamò «Lega dei Birbanti», ossia in italiano moderno la comunella dei farabutti intellettuali di potere.

A volte, la mummificazione è avvenuta con rapidità miracolosa.Piero Gobetti, liberale giacobino autoritario piemontese (solo da noi i liberali erano autoritari) passò dalla condizione di Bella Promessa a quella di Venerabile Maestro a 25 anni, età a in cui dei fascisti lo bastonarono a morte, poveretto.
Norberto Bobbio ha campato alla grande come «erede di Gobetti», dato che il poveretto non era più in grado di diseredarlo. Quella eredità massonica risorgimentale funziona ancora mica male.
Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e Solito Stronzo fin dai suoi esordi nel giornalismo sciacallesco, è riuscito a farsi Venerato Maestro da solo, grazie ai suoi sproloqui interminabili con cui riempie la prima, ma anche le pagine interne di Repubblica, dove talora si degna di dare alcuni consigli a Dio.
E Venerato Maestro lo è, ma solo per i terrorizzati redattori del suo giornale, costretti per dovere d'ufficio ad arrivare fino in fondo ai suoi chilometrici rigaggi, e a reprimere il sibilo: «Il Solito Stronzo».

Bella forza però, il giornale è suo, e possiede pure un 200 miliardi e passa di patrimonio.
Ferrara è già Venerato Maestro, almeno per una scolta di cattolici tradizionalisti, che lo ingaggiano per farsi recitare le sue omelie contro l'Islamofascismo, ma sappiamo chi lo spalleggia. Oggi, mentre impera il comunismo nella forma debole e in TV, la creazione di Venerati Maestri diventa insieme più veloce ma più superficiale: effetto dell'età della riproduzione tecnica e del lavoro a catena.
Roberto Benigni, che ha fatto sempre ridere poco e ha terminato le sue quattro battutacce da Fiera del Bovino Maremmano, è già sul punto di diventare Venerato Maestro.
Non glielo si può negare, ha voluto bene a Berlinguer.Inoltre il furbastro s'è messo a recitare Dante: colpo basso ben noto all'avanspettacolo anni '30, quando se il comico incassava troppi fischi, l'impresario faceva entrare la soubrette avvolta nuda nel tricolore a cantare «Adua è liberata», e giù applausi.
Il guaio è che Benigni spiega Dante come se Dante fosse lui: è da lì che si vede che è rimasto il Solito Stronzo.

Ma la sinistra s'accontenta. Per esempio, guardate Fassino.
L'Unione Europea lo manda a fare lo «special envoy» per la Birmania. E', guarda caso, lo stesso tipo di posto (solo un po' più basso) dato dai poteri globali a Tony Blair, ora capo del Quartetto per la Palestina.
E' un premio che si dà per servizi resi a scapito del proprio futuro: a Blair, perché dopo l'Iraq in Inghilterra nessuno lo voterà mai più, a Fassino, per aver consegnato l'elettorato del PCI - elettori robotici, sicuri, automatici - all'ammasso globale dei «partiti democratici» che anche da noi si stanno creando onde scontrarsi per finta con lo speculare «partito conservatore».
Ma quella sinecura è anche una pista di lancio per future carriere: guardate Al Gore, sembrava finito, ed è saltato su come Venerato.

Dipende da Fassino. Può diventare una «riserva della repubblica» come Amato, da mettere al governo quando servirà a Goldman Sachs, oppure - se insenilisce abbastanza - Venerato Maestro, a suo tempo però.
Oppure guardate Veltroni: Bella Promessa praticamente dalla nascita e in piena carriera. Se riesce a sopravvivere ai tenaci sforzi di Prodi e dei suoi dossettiani di trasformarlo subito nel Solito Stronzo, un giorno diverrà sicuramente - appena lo benedirà l'arteriosclerosi - un Venerato Maestro, e potrà recensire i film da cineforum su L'Espresso.
Ma non si può non vedere che la sua posizione è altamente rischiosa: già va troppo in TV a difendersi, già è troppo cortese verso Casini, il Solito Stronzo.

Effettivamente c'è il rischio che la fabbrica giri troppo vorticosamente, e quindi a vuoto. Fabio Fazio l'anonimo in carriera garantita, nel programma consegnatogli dal Partito, intervista solo Venerati Maestri in servizio o in riserva. Biagi l'ha intervistato, ed ora chi resta?
Anche per questo forse il pianto è stato così corale: dove sei, Venerato Maestro? Ora ci restano solo Gino Strada e il giudice Caselli.

E' dura.

Maurizio Blondet