14 novembre 2010

Lettera aperta a Avvenire (2)

Caro Direttore,

se Berlusconi non se ne inventerà una delle sue, come peraltro potrebbe benissimo fare, il rischio è quello di essere giunti alla vigilia di un periodo di transizione verso il nulla.

La situazione è meno drammatica che nel 1946, ma anche oggi c'è chi spera che, come allora, la Chiesa Cattolica italiana non resterà a guardare. Il mio auspicio è che si assuma la responsabilità di un'iniziativa politica.
Di certo non sarà possibile una nuova Dc, ma qualcosa in più per l'unità dei cattolici in politica a mio avviso la si potrebbe senz'altro fare, e se non ora quando?
Eppure, non solo su questo tema, i vescovi sembrano incerti, e scontano le evidenti divisioni che vi sono tra di loro e tra i fedeli.

Nel contempo, vediamo che tra i cattolici impegnati "nel sociale" c'è chi si sente imbarazzato, e in dovere di alzare il ditino per richiamare il premier alla sobrietà morale. Proprio nel momento in cui si era ospiti del suo governo, e si stava per incassare un'attenzione per i problemi della famiglia che non si vedeva da molto tempo.
Di certo, si sarà interpretato il sentimento di disagio di molti fedeli. Ma è quello dei moralisti l'unico ruolo che oggi possono avere i cattolici in politica? Siamo tuttora tutti così impermeabili alla lezione del vecchio Benedetto Croce, sul fatto che la vera moralità, per un politico, risiede nell'efficacia della sua azione pubblica, e non certo nei suoi comportamenti privati?

Inoltre, ora vediamo che tra i cattolici impegnati c'è anche gente vendicativa (alla faccia del Vangelo), che esulta e si dice pure orgogliosa perché colui che aveva scritto male di loro è stato punito impedendogli di continuare a scrivere.
Tante altre lezioni politiche - non dico di Voltaire che non è il caso - bensì di insigni pensatori cattolici e liberali, sul valore assoluto della libertà di stampa in una moderna democrazia, a quanto pare sono rimaste anch'esse inascoltate. E come al solito, l'occasione di un bel tacer è andata perduta.

Ecco, in questa apparente passività dei vescovi, mi piace pensare che non si tratti solo di divisioni e di incertezza, ma anche del fatto che ci sia ancora qualcuno, nelle stanze della CEI, che non ha perso l'istinto di mettersi le mani nei capelli quando apprende certe cose. Speriamo che, di conseguenza, si metta a pregare perchè ci pensi il Signore, che quando è venuto a visitarci sulla terra con i moralisti e i vendicatori del suo tempo ne ha avuto a che fare fin troppo.

11 novembre 2010

La prevalenza dei cattolicuzzi

Ormai ho iniziato a chiamarli cattolicuzzi, e continuerò così. Mi riferisco a un nutrito numero di figli di Santa Romana Chiesa impegnati a tempo pieno nella politica, nel giornalismo e in attività sociali e culturali. Si tratta di personaggi ben riconoscibili, dal momento che, in genere, scrivono solo per testate cattoliche, organizzano solo iniziative cattoliche e spesso partecipano solo a queste, e comunque tengono sempre ben visibili le insegne del cattolicesimo nell’attività dei loro rispettivi partiti e associazioni. E ti fanno veramente venire la voglia di ripetere loro l’immortale consiglio di san Josemaria Escrivà: “lorsignori potrebbero farci la cortesia di essere un po’ meno cattolici”?

Purtroppo, dopo la fine della presidenza Cei del cardinale Ruini, l’impressione è che i cattolicuzzi abbiano ormai preso il largo, e che sarà difficile riuscire a richiamarli, impedendo la loro progressiva deriva.
Da ultimo, questi nostri amici si sono manifestati in forze – con la boccuccia schifata e il ditino alzato – dopo le rivelazioni sul cosiddetto “caso Ruby”. Lo sdegno cattolicuzzo è arrivato persino a compromettere la partecipazione del premier all’ultima Conferenza Nazionale sulla Famiglia, a Milano. Nonostante che in quella circostanza il Cav. non fosse nemmeno ospite, bensì il padrone di casa.
A mio avviso – diciamolo subito – il premier ha fatto benissimo a non presentarsi, esattamente come Benedetto XVI a suo tempo aveva fatto bene a non andare in visita alla Sapienza di Roma, dopo le contestazioni ricevute. In entrambi i casi, non mi sembrava il caso di dare alcuna soddisfazione agli omologhi pagani dei nostri amici cattolicuzzi, che potremmo appunto definire “laicuzzi”, i quali in certe situazioni ci sguazzano.

Ma a parte questo, si può accettare l’idea che il ruolo dei cattolici in politica sia anche e soprattutto quello di alzare il ditino, a pretendere dagli altri coerenza morale e integrità di vita? Già è facile notare che certe pretese si avanzano molto più per Berlusconi che per tutti gli altri politici, e questo dovrebbe saltare subito all’occhio di chiunque bazzichi il mondo dei media con un minimo di cognizione di causa e di onestà intellettuale. Mentre il fatto stesso che sembrino non accorgersene, denota che i cattolicuzzi sono, nel migliore dei casi, dotati di scarsissimi anticorpi rispetto alla propaganda mediatica.

Il quotidiano Avvenire, voce ufficiale dei vescovi italiani, si distingue da sempre per la sobrietà con cui seleziona e presenta le notizie. A maggior ragione, quindi, ci si dovrebbe aspettare da esso il massimo equilibrio nel giudicare i comportamenti privati del premier. Possibile, dunque, che i pur ottimi giornalisti di detta testata in questi casi non valutino mai l’opportunità di starsene zitti, tenendo presente che qualunque sospiro che appare sulle loro pagine, se può essere interpretato in senso antiberlusconiano, viene subito rilanciato e amplificato dagli altri media fino a diventare una specie di tifone che parte dal Vaticano per abbattersi su palazzo Grazioli? Oppure lo sanno benissimo, e fanno apposta?

Il meccanismo è tanto collaudato da funzionare anche in senso inverso, come dimostra il fatto che le critiche all’anticlericalismo di Gianfranco Fini, parimenti comparse su Avvenire, sono state rilanciate solamente dalla stampa di centrodestra. Ed è anche vero che i risvolti etici del “caso Montecarlo” sono stati sostanzialmente ignorati, da parte di Avvenire così come da tutto il resto del mondo cattolicuzzo.
Quindi, a maggior ragione, non sarebbe il caso di osservare maggiore accortezza, oltre che imparzialità, nel giudicare i comportamenti dei politici, se non si vuole passare per faziosi pur non essendolo?

Ma il punto non è tanto quello. Il vero problema è che il mondo cattolico non ha alcuna convenienza nell’ostinarsi a non fare propria la lezione di Benedetto Croce, secondo il quale la moralità, per un politico, non consiste nelle sue abitudini private, ma nell’essere capace di realizzare ciò che promette.
Ostinarsi nel pretendere dai politici anche la coerenza personale e la sobrietà di vita, invece, in primo luogo produce effetti di insopportabile ipocrisia, doppiopesismo e facili strumentalizzazioni. Ma soprattutto, porta la partecipazione dei cattolici alla vita pubblica a scadere nel più vieto – e irrilevante – moralismo. Un po’ come avviene nei paesi anglosassoni, dove il sentimento religioso ha una notevole importanza nel determinare le scelte degli elettori, ma il ruolo pubblico delle comunità religiose organizzate, in quanto tali, tende a essere quasi nullo.

In Italia, al contrario, mai come ora ci sarebbe bisogno che la Chiesa Cattolica partecipasse come soggetto attivo anche alla vita politica, e in questo senso ritrovasse coesione e unità di prospettive.
La Democrazia Cristiana si è macchiata di responsabilità storiche enormi, ma ha dato il meglio di sé nell’avere impedito che l’Italia uscisse dal novero delle democrazie occidentali. Ora, se dovesse tramontare la leadership di Berlusconi, alla lunga il rischio potrebbe essere più o meno lo stesso. Non perché si possa affermare una dittatura comunista, quanto perché la prospettiva è quella di un ritorno delle peggiori prassi politiche della prima Repubblica, con l’aggravante del caos istituzionale.

Quindi, non sarebbe male che la Chiesa Cattolica si assumesse di nuovo, come fece nel 1946, la responsabilità di guidare il popolo dei cattolici, mediante una strategia politica unitaria e definita.
Chi scrive ha sempre nutrito diffidenza verso quei laici che si impegnano nella vita pubblica solo dietro permesso del parroco o del vescovo. La libertà politica, dalla quale consegue una naturale diversità di orientamenti e di scelte di appartenenza, è un valore fondamentale per i credenti laici. Ma il momento è tale da non potersi più permettere di abbandonare questi ultimi a loro stessi.
Intanto, i laici cattolici pur non potendo pretendere di venire sempre spalleggiati dalla gerarchia ecclesiastica, hanno comunque il diritto a non essere disorientati da questa. E soprattutto, hanno il diritto di non sentirsi sempre isolati, se non proprio contraddetti e scoraggiati, quando cercano di fare valere i valori cattolici nella vita pubblica.
Quanto meno, se proprio si vuole restare legati a un’impostazione un po’ moralistica del rapporto tra cattolici e politica, sarebbe urgente aiutare i fedeli a non farsi turlupinare dai media, come invece sembra accadere per tanti cattolicuzzi in buona fede. La coscienza dei fedeli va rispettata, ma anche orientata.

Ora, è comprensibile che il sentimento dei cattolici meno smaliziati rimanga scandalizzato, di fronte allo stile di vita libertino del premier. Quindi, è comprensibile che certi politici abbiano sentito il bisogno di farsene interpreti. Ma appunto, se si vuole che i cattolici rientrino nel gioco della politica come un soggetto autorevole, intanto bisognerebbe aiutare il popolo di Dio a orientarsi e a porsi certe domande. Tanto per cominciare, si potrebbe insegnare loro a chiedersi – faccio solo un esempio astratto – se sia più grave per un politico darsi a festini privati con giovani donne, oppure rifiutarsi, per questioni formali e di potere, di firmare un decreto legge che avrebbe potuto evitare l’uccisione di una disabile.

Insomma, se proprio ci si vuole addentrare nel giudizio sulla moralità dei politici, allora non si possono eludere certe distinzioni, dal momento che altrimenti è fin troppo facile esporsi alla critica di essere strumentalizzabili, incoerenti, incerti, e pertanto in ultima analisi irrilevanti. I cattolicuzzi in buona fede (che non lo sono tutti, ma molti sì), a quanto pare certe raffinatezze del dibattito politico non arrivano nemmeno a sospettarle. Allora, a maggior ragione, spetterebbe ai pastori orientarne l’azione. Non si è sempre detto che le coscienze dei fedeli vanno orientate? Bene, perché questo non dovrebbe valere per la politica, mettendo a parte i moralismi e le facili indignazioni per il libertino di turno?

Purtroppo, sembra che dopo l’uscita di scena del cardinale Ruini, da parte dei vescovi ci sia persino una certa voluttà nel voler evitare di inserirsi come soggetto attivo nel gioco politico nazionale. Di certo l’episcopato sconta le sue stesse divisioni e il suo disorientamento. E, in questo contesto, non è facile interpretare la scelta di avocare dalla Cei alla Santa Sede le questioni relative ai rapporti con la politica italiana, che ha segnato l’inizio dei rispettivi mandati dei cardinali Bertone e Bagnasco.
Se si è trattato di una scelta strategica, per evitare le divisioni e le derive a sinistra di certi settori del nostro episcopato, allora l’intento era più che comprensibile. Ma questo modo di abbandonare a se stesso il popolo di Dio in Italia, e lasciare che sui media e in politica prevalga l’orientamento incerto e moralistico dei cattolicuzzi, e di chi ha gioco facile nello strumentalizzarli, potrà portare a un esito solo: la progressiva irrilevanza politica della Chiesa Cattolica nel nostro Paese.

Questo appare molto frustrante per chi invece vorrebbe continuare a impegnarsi nella vita pubblica in coerenza con la grande tradizione politica del cattolicesimo (e non con il moralismo spicciolo, né tanto meno con le vecchie prassi democristiane). Tra l’altro, sarebbe interessante sapere che cosa davvero vuol dire il cardinale Bagnasco quando, come avviene da qualche tempo, continua a ripetere che i cattolici devono tornare a impegnarsi in politica.
Ancora una volta, la posta in gioco è ben più alta di quel che può sembrare. Non credo che alla lunga la scomparsa della presenza politica dei cattolici in quanto tali, in Italia, si rivelerebbe un buon affare per nessuno. Non solo per la dimensione etica della vita pubblica, ma anche per la sussistenza di condizioni accettabili di libertà politica per tutti.

04 ottobre 2010

Psicopatologia dell'antiberlusconismo

Dal blog: diario di un avvocato di campagna

Quando dalla melma dei commenti in rete cominciano a affiorare le voci di persone “normali”, che tuttavia a causa dell'odio sembrano avere perso completamente il rapporto con la realtà, allora è il caso di cominciare a preoccuparsi.
E' quello che si è verificato in questi giorni, dopo il fallito attentato a Maurizio Belpietro, e che del resto stava accadendo di continuo da molto tempo, anche se la mancanza di episodi eclatanti di violenza politica portava i più a non accorgersene.

Si dice che gli anni di piombo non potranno mai tornare, perché l'ideologia che teneva uniti i terroristi degli anni '70 non gode più di alcun credito, e nessuno ritiene più possibile l'avvento della rivoluzione. Come se la “caduta del tiranno” non potesse essere un collante ideologico sufficiente, e l'odio viscerale verso Berlusconi, visto come personificazione del male e polo di attrazione di tutto ciò che di ignobile vi è nella società, non potesse essere considerato come un'ideologia a se stante.
Proprio per questo, forse è il caso di abbandonare le spiegazioni semplicistiche e interessate, e cominciare a studiare il fenomeno dell'antiberlusconismo dal punto di vista della psicologia sociale, e cioè di quella scienza che studia i meccanismi mentali secondo i quali l'individuo interagisce con la società.

Come è noto agli studiosi, la psicologia procede perlopiù per via di euristiche, cioè di regole generali semplificative, che consentono di spiegare in modo coerente, e facilmente comprensibile, il modo con cui gli individui determinano il loro pensiero, e di conseguenza si rapportano tra di loro. In tale senso, è fondamentale la cosiddetta euristica dell'ancoraggio, secondo cui gli individui tendono a interpretare la realtà sulla base di paragoni con i punti fermi ai quali si ispirano, spesso ignorando i fattori di dissonanza che – secondo logica – dovrebbero invece fare pensare a spiegazioni diverse.
Nel contempo, e si tratta di un criterio di interpretazione decisivo anche per la psicologia della comunicazione, esiste anche la cosiddetta euristica della disponibilità, secondo la quale il pubblico tende a credere a ciò che lo asseconda sul piano emotivo, piuttosto che a ciò che appare più probabile nei fatti.

Su queste basi Leon Festinger, uno dei padri della psicologia sociale, nel 1957 ha elaborato la teoria della dissonanza cognitiva, secondo la quale gli uomini hanno l'esigenza strutturale di darsi una spiegazione del mondo il più possibile coerente con quello che già pensano, così come con quello che vogliono credere per ragioni emotive. Per questo motivo, essi tendono a accogliere in via preferenziale le spiegazioni più consonanti con le proprie idee di fondo e con le emozioni preesistenti, e tendono a minimizzare, se non proprio a ignorare, le informazioni che le contraddicono.
Secondo Festinger, quando i dati della realtà contraddicono in modo radicale la coerenza di idee e emozioni di determinati individui e gruppi sociali, si produce appunto una dissonanza, che può anche portare a veri e propri disturbi cognitivi, per cui i soggetti arrivano sinceramente a credere a fatti inesistenti o a spiegazioni assurde, pur di ristabilire la consonanza con le proprie idee di fondo, e evitare le emozioni sgradite.

L'antiberlusconismo, che oggi occupa tanta parte del dibattito politico italiano, sembra basarsi in buona parte su questi fenomeni di psicologia sociale. I mezzi di comunicazione hanno svolto e tuttora esercitano un ruolo decisivo nel determinarli, tanto che si è giustamente detto che in Italia ormai non sono più i partiti politici a orientare le opinioni dei giornali, bensì il contrario.

La teoria di fondo dell'antiberlusconismo poggia dunque su una narrazione mediatica piuttosto elementare: la politica italiana da più di quindici anni si troverebbe in una situazione di emergenza morale e di progressivo degrado, a causa dell'eccezionalità della “discesa in campo” di un imprenditore geniale e scaltro, il quale tuttavia sarebbe mosso esclusivamente da interessi egoistici, e da scopi sostanzialmente immorali e/o illegali.
In quest'ottica, Berlusconi sarebbe riuscito a coagulare attorno alla propria azione politica sia una élite dominante che sostanzialmente condivide i suoi obiettivi, sia un vasto elettorato che si è lasciato sedurre da tanta spregiudicatezza. Se la maggoranza degli elettori ha finora concesso più volte a Berlusconi di salire al governo, ciò non sarebbe avvenuto in quanto ne condividessero le idee e le proposte politiche, come in ogni normale sistema democratico.
Al contrario, il potere del satrapo di Arcore si baserebbe su un analogo deficit di moralità e di senso della giustizia sociale, caratteristico dei cittadini che gli danno fiducia, e nel contempo (ma questa è una spiegazione ormai recessiva, visto il suo scarso appeal elettorale) sulle scarse capacità intellettive di questi ultimi, che li avrebbe portati a lasciarsi sedurre dalle promesse dei mezzi di comunicazione abilmente gestiti dal “tiranno”.

In virtù di questa narrazione di fondo, la classica demarcazione amico/nemico, sulla base della quale nasce il confronto politico – come insegnava Carl Schmitt – in Italia ha assunto forti connotati etici.
Oggi, nel nostro Paese, l'odio ideologico non è più basato su una teoria generale relativa alla società e ai suoi bisogni (la rivoluzione imminente, la giustizia sociale, il sistema economico da riformare, ecc.). Piuttosto, siamo in presenza di una teoria di tipo etico, riguardante un solo individuo e i suoi sodali. Nell'ottica dell'antiberlusconismo, la società dovrebbe essere urgentemente liberata da una situazione di oppressione che è morale ancor prima che politica, e questa sarebbe la precondizione assoluta affinché tornino a affermarsi forme di convivenza civile moralmente accettabili.

A ben vedere, una situazione del genere si è già verificata più volte nella storia, a fronte dell'avvento di regimi dispotici. La teoria del tirannicidio ha radici antiche, che risalgono al mondo antico, e sono state accolte nel diritto comune medioevale. Nel secolo scorso questa tesi si è riproposta in maniera quasi ovvia, a fronte dei totalitarismi di stampo nazista e fascista, che erano effettivamente caratterizzati da una forte personalizzazione del potere politico.
Tuttavia, la relativa novità dell'antiberlusconismo consiste nel fatto che è impossibile fondare sull'esperienza della realtà l'idea per cui in Italia si sarebbe in presenza di un regime dispotico.
In primo luogo perchè, nei fatti, i partiti di Berlusconi e dei suoi alleati negli ultimi sedici anni hanno vinto e perso più volte le elezioni generali, a dimostrazione del fatto che in Italia finora ha sempre continuato a sussistere un quadro democratico, e la possibilità di un ricambio di governo. Anzi, da un punto di vista politologico, si potrebbe facilmente riscontrare che questa possibilità di ricambio si è determinata proprio quando la “discesa in campo” di Berlusconi ha dato vita al bipolarismo e alla seconda repubblica.

Ma soprattutto, è innegabile che in Italia le garanzie costituzionali, la libertà di stampa e persino una notevole frammentazione del potere politico sono sempre rimasti fatti incontestabili, per lo meno finché si continua a ragionare sulla base della realtà.
Per questo, l'antiberlusconismo inteso come rivolta morale ha potuto affermarsi solo grazie a una possente azione mediatica, che interessa in pieno la psicologia sociale e le sue euristiche.
In Italia, infatti, a differenza di quanto continua a avvenire nelle altre democrazie occidentali, il dibattito politico non si basa quasi più sul confronto – oppure sullo scontro – di diverse interpretazioni della realtà. I media più influenti, al contrario, cercano di orientare l'opinione pubblica sulla base di vere e proprie narrazioni fantastiche, che sostengono la grande narrazione di fondo dell'antiberlusconismo, e per tale scopo possono prescindere completamente dall'esperienza del reale.

Fenomeni del genere si sono parimenti già riscontrati molte volte in altri sistemi politici, e anche in Italia. Finora però si era sempre trattato di casi specifici di distorsione della realtà per via mediatica, che per quanto potessero essere frequenti e abituali – si pensi soltanto alle trasmissioni di Michele Santoro – erano sempre relativi a fatti e situazioni delimitate.
Possiamo citare ad esempio quanto avvenne al tempo del G8 di Genova, con l'uccisione di Carlo Giuliani. C'era una fotografia che rappresentava in modo icastico ciò che era effettivamente successo, e cioè una situazione di guerriglia urbana nella quale un rivoltoso, travisato in viso e dotato di armi improprie, è rimasto ucciso mentre stava prendendo parte a un deliberato assalto a una camionetta dei Carabinieri. Eppure, non solo in Italia, la narrazione di quel fatto che ha prevalso sui media di mezzo mondo ha completamente rovesciato la realtà fenomenica, trasformando l'assaltatore in una vittima inerme, e i militari nel braccio armato e brutale di un regime oppressivo.

Ma questo, per l'appunto, è solo un singolo esempio, relativo a una situazione specifica. Piuttosto, ora dobbiamo interrogarci su come oggi l'eccezionalità italiana si sia sviluppata al punto che l'euristica antiberlusconiana è diventata il criterio di fondo secondo il quale la grande stampa presenta tutta la politica nazionale. Quest'ultima infatti ormai è raccontata prescindendo completamente dalla realtà, e tenendo presente solo la narrazione di riferimento.

Un esempio emblematico di questo modo di procedere, e dei suoi metodi, può essere ritrovato nei cosiddetti “virgolettati di Repubblica”: è un'evenienza frequente, anzi ormai un classico del giornalismo politico italiano, che i quotidiani raccontino le novità della vita politica nazionale riportando una dietro l'altra le dichiarazioni di protagonisti e comprimari, e addirittura riproducano interi dialoghi sotto la forma del discorso diretto. E' un modo di fare informazione che sta alla base di quello che lo stesso Berlusconi ha più volte definito il “teatrino della politica”, e cioè di quel balletto di dichiarazioni e controdichiarazioni che di per se stesse lascerebbero il tempo che trovano, ma che alla lunga finiscono per condizionare tutto il dibattito.

Tuttavia, nei cosiddetti “virgolettati” del quotidiano Repubblica, i suddetti dialoghi tra personaggi politici sono completamente inventati, e soprattutto – cosa che più conta dal punto di vista della psicologia sociale – sarebbero anche facilmente riconoscibili come tali, da qualunque persona dotata di facoltà critiche minimali.
Nessuno può seriamente pensare, infatti, che un giornalista possa avere assistito personalmente a conversazioni private tra Berlusconi e i suoi familiari, o tra lui e i ministri del suo governo, e nemmeno che possa avere raccolto indiscrezioni attendibili al riguardo.
Ciò nonostante, questi dialoghi spesso vengono riportati sul quotidiano romano tra virgolette, e con una dovizia di particolari di fantasia che serve a renderli più verosimili. Tutto questo sullo spregiudicato presupposto che un'eventuale smentita degli interessati finirebbe soltanto per dare ulteriore eco a quanto pubblicato.

Questo modo di procedere è reso possibile dall'euristica di cui sopra, in quanto il giornalista può contare su un pubblico che non si attende di apprendere notizie, quanto di sentirsi raccontare quelle narrazioni che, corrispondendo alla teoria generale dell'antiberlusconismo, lo possono rassicurare nel suo pregiudizio.
E' con questo criterio che, ad esempio, mesi fa si è stato possibile tenere a lungo inchiodata la vita politica nazionale sul sospetto che Berlusconi potesse essere un pedofilo (le famose “dieci domande” di Repubblica), nonostante che i riferimenti fattuali su cui costruire una simile narrazione fossero completamente inesistenti. Tanto che, in realtà – a voler guardare solo i fatti nudi e crudi – il premier si era limitato a presenziare a una festa di compleanno.

Con procedimento analogo, di recente è apparso – sempre su Repubblica – un resoconto pieno di pathos su un preteso drammatico colloquio notturno tra Gianfranco Fini, la sua compagna e il di lei fratello, in ordine alla titolarità della famosa casa di Montecarlo. Anche qui, i discorsi diretti tra virgolette e i particolari di colore si sprecavano.
Ma ovviamente, così come nel primo caso non sussisteva alcun ancoramento fattuale che potesse far veramente ritenere che Berlusconi fosse il seduttore della giovane Noemi, nel secondo caso era impossibile che si trattasse del resoconto di un colloquio realmente avvenuto, a meno di credere che i giornalisti di Repubblica tengano abitualmente sotto controllo telefonico e ambientale le residenze private del Presidente della Camera. Oltretutto, nei fatti era a dir poco incredibile che quest'ultimo potesse aver chiesto chiarimenti al cognato sulla casa di Montecarlo solo nel corso della serata precedente, visto che la vicenda era iniziata più di due mesi prima.

Da un punto di vista di psicologia sociale, dunque, la finalità delle suddette narrazioni era esclusivamente quella di presentare al lettore un Berlusconi decadente e immorale, ovvero un Gianfranco Fini sorpreso nella sua buona fede, e vittima delle manovre della stampa “cattiva”. Tutto questo prescindendo completamente dalla realtà, grazie all'uso spregiudicato del procedimento euristico, secondo cui il lettore è emotivamente portato a credere non tanto a quel che appare verosimile, quanto a ciò che è in consonanza con i suoi criteri abituali di interpretazione della politica, e quindi con l'antiberlusconismo.

Sulla base di questo metodo, da qualche tempo si è pure verificato il fenomeno editoriale del Fatto Quotidiano, e cioè di un giornale che – a dispetto del suo nome – sta ottenendo un notevole successo di vendite proprio in quanto ha deciso di rinunciare completamente a riportare notizie, e di puntare tutto su narrazioni antiberlusconiane, ripetute ossessivamente tutti i giorni e lungo tutte le pagine.
In questo quotidiano, il noto criterio anglosassone dei “fatti separati dalle opinioni” è stato originalmente reinterpretato, nel senso che si prescinde completamente dai fatti, e si costruiscono le notizie a tavolino sulla base della consonanza emotiva che esse riescono a ingenerare nei lettori, sfruttando il loro pregiudizio antiberlusconiano.
A ben vedere, non si tratta soltanto di un pubblico abitualmente ideologizzato, come ad esempio può essere quello dei lettori del Manifesto, e nemmeno di persone limitate sul piano culturale, come in genere accade per i frequentatori dei tabloid scandalistici britannici.
Tra gli oltre 70 mila lettori che hanno determinato il successo di tiratura del Fatto Quotidiano, anche se non vi è di certo la nicchia di cittadini fortemente acculturati che costituisce il pubblico di riferimento di altri quotidiani, comunque si trovano perlopiù esponenti di quello che una volta si chiamava ceto medio: soggetti abbastanza ben inseriti nella società, che normalmente non si sarebbero mai detti intellettualmente disponibili verso il fanatismo e l'estremismo.

Proprio per questo motivo è importante analizzare la situazione da un punto di vista psicologico. Il metodo antiberlusconiano si è talmente radicato che, qualora sia proprio impossibile nascondere alla pubblica opinione notizie non coerenti con la sua euristica, si possono verificare nei lettori di riferimento di questi quotidiani veri e propri disturbi cognitivi.
Ne sono un esempio i commenti di numerosi frequentatori della rete, rispetto agli attentati che di recente hanno interessato sia lo stesso Berlusconi che il giornalista Maurizio Belpietro. In entrambi i casi, vari blogger e commentatori hanno immediatamente avanzato l'ipotesi che si potesse trattare di montature, di finti attentati organizzati ad arte dall'entourage di Berlusconi, se non proprio dai soliti servizi segreti deviati, che non a caso sono stati invocati anche dai finiani per stornare l'attenzione dalla campagna giornalistica avviata contro il loro leader per la casa di Montecarlo.

Ovviamente, in entrambi questi ultimi casi non c'è nessun motivo logico per ritenere che i fatti possano essere diversi da come appaiono, e anzi la fredda osservazione della realtà porterebbe facilmente a conclusioni opposte.
Anche qui, tuttavia, è entrata in gioco l'euristica dell'antiberlusconismo, e si è prodotto sui lettori dei predetti quotidiani il tipico effetto della dissonanza cognitiva di Festinger: poiché si tratta di soggetti che hanno effettuato un forte investimento emotivo sul proprio pregiudizio morale, secondo cui la demarcazione che intercorre tra il campo dei berlusconiani e quello degli antiberlusconiani è semplicemente quella tra il male e il bene, essi tendono ad accogliere – e addirittura a creare dal nulla – qualsiasi spiegazione che possa eliminare la dissonanza rispetto a questo schema.
In realtà i fatti, se accolti nella loro cruda materialità, avrebbero potuto indurre questi soggetti ad ammettere che anche nel campo degli antiberlusconiani esistono persone ottuse, violente e socialmente impresentabili. Dunque, per evitare questa conseguenza sgradita, essi hanno evocato dal nulla la tesi del complotto, che pur essendo priva di fondamento fattuale era idonea a ristabilire la consonanza ideale e emotiva tra le loro convinzioni di fondo.

Il procedimento della dissonanza cognitiva produce i suoi effetti anche in senso inverso, e cioè influenza in senso negativo la credibilità della stampa vicina al centro-destra: per tornare a un esempio di attualità, si può infatti rilevare che – al contrario di quello che era avvenuto con altre “inchieste” che prescindevano completamente dai fatti, come quelle relative alle amanti minorenni di Silvio Berlusconi – l'inchiesta giornalistica sulla casa di Montecarlo che sarebbe stata acquistata sotto prezzo dal cognato di Gianfranco Fini, da un punto di vista fattuale non ha mai sbagliato un colpo.
Tuttavia, le esigenze emotive del pubblico hanno reso possibile che la prima inchiesta venisse presentata dal coro dei media come una coraggiosa denuncia dello squallore morale del premier, e la seconda invece sia stata stigmatizzata come una montatura orchestrata dai “servi” del medesimo per screditare l'ex alleato.

Fenomeni di dissonanza cognitiva, del resto, si erano già prodotti ai tempi dell'attentato alle Torri Gemelle di New York, con il fiorire in rete delle varie teorie complottiste. Lo stesso era avvenuto in Italia, all'inizio degli anni '70, quando la stampa ha iniziato a presentare le nascenti Brigate Rosse come agenti della Cia, o comunque come fascisti prezzolati, onde non dover ammettere che dalle ideologie di sinistra stessero sorgendo comportamenti sociali radicalmente inaccettabili.

Difficile dire se il riproporsi di queste dinamiche, nel mondo dell'informazione e della politica italiana, potrà davvero portare a un ritorno degli anni di piombo.
Tuttavia, quello che a noi interessava era mettere in luce le dinamiche psicologiche dell'antiberlusconismo, e i disturbi cognitivi che esso induce anche su persone apparentemente “normali” e socialmente inserite.
Da qui infatti bisogna partire anche per un'analisi politica della situazione, in quanto l'uso spregiudicato che i giornali-partito stanno facendo delle suddette dinamiche, rischia di influenzare la vita politica italiana ancora per molti anni.

08 settembre 2010

La società post-matrimoniale

Dal blog: diario di un avvocato di campagna

E poi dice che uno si butta coi preti. La battuta di Giuliano Ferrara non ricalca esattamente quella di Totò, e non poteva essere altrimenti. Il principe De Curtis, infatti, non si prese mai troppo bene con il mondo cattolico, visto che ai suoi tempi le questioni massoniche, ma soprattutto quelle matrimoniali, venivano ancora prese sul serio. Proprio per questo, l’insofferenza dell’Elefantino si adatta assai bene al caso che mi riguarda.

La prima recensione al mio saggio sul divorzio in Italia l’ho ricevuta su Famiglia Cristiana. Nulla di strano, visto che l’editore è lo stesso. Tre pagine intere con il titolo del libro – la Fabbrica dei Divorzi – citato persino in copertina. L’articolo iniziava così: “Un libro che farà discutere molto”. Quando lo lessi, benché fossi sinceramente grato alle Edizioni Paoline, rimasi alquanto scettico, perché ero sicuro che non avrei trovato attenzione al di fuori di quel ristretto circuito culturale.

Di cosa sia diventato il divorzio oggi, la società secolare non ha affatto voglia di discutere. Anzi, persino nel mondo cattolico è palpabile una certa riluttanza nel riproporre la questione. Certo, sussiste ancora l’eroica fermezza di alcuni vescovi, specialmente quelli più vicini a Benedetto XVI. Esistono anche numerosi parroci che riescono ancora a far risplendere barlumi di autentica vita cristiana, tra le famiglie delle loro comunità. Ma in molte altre diocesi e parrocchie – forse la maggioranza – sembrano persino compiaciuti del fatto di “essersi attestati su nuove posizioni”, come recitavano i bollettini di guerra ai tempi dell’Eiar, per non fare capire che le nostre truppe erano state sopraffatte.

In effetti, può sembrare che oggi non abbia più senso continuare a parlare di divorzio, visto che è venuto meno il senso stesso del matrimonio. Forse faremmo meglio a interrogarci su come organizzare l’imminente società post-coniugale.
I più recenti dati Istat ci dicono che in Italia ci si sposa sempre meno, e i figli nati al di fuori di unioni regolari sono già attorno al 20% del totale. L’accelerazione del fenomeno è stata fortissima a partire dall’inizio del nuovo secolo, e le proiezioni ci dicono che nel 2020 i figli nati da genitori non sposati potrebbero essere uno su due. In breve tempo, l’Italia potrebbe anche colmare il ritardo – per così dire – che ancora la divide dal nord Europa o dal Regno Unito, dove già si parla del 75% delle nascite fuori dal matrimonio.

Anche nel nostro Paese, con qualche residua differenza tra nord e sud, è venuto meno qualsiasi segno di differenziazione sociale tra l’essere o meno sposati. Fino a vent’anni fa era ancora diffusa l’idea dei figli come esito di un progetto di vita che partiva col matrimonio. Ma poi, a partire dagli anni novanta si sono rapidamente invertiti i termini.
Dapprima si iniziò a sposarsi quando già erano venuti i figli, quasi a voler coronare il percorso compiuto. Ma anche questa fase è stata ormai superata. I paggetti e le damigelle che assistono felici al matrimonio di mamma e papà sono diventati un reperto vintage, come le voluminose videocassette che ce ne tramandano l’immagine.
Oggi non ci si sposa nemmeno più, e i figli rimangono attestati su quel tasso demografico dell’1,1 %, il più basso del mondo assieme a quello della Spagna. Se non si inverte, anzi se non si rivoluziona il trend, il popolo italiano in quanto tale si stia avviando a una estinzione che non si era verificata in questi termini nemmeno ai tempi delle invasioni barbariche.

Del resto, per certi versi era prevedibile che sarebbe andata a finire così. Joseph Ratzinger (e poi dice che uno si butta coi preti) in alcuni suoi scritti lo aveva previsto con largo anticipo. La riforma protestante, che nel XVI secolo reintrodusse il divorzio nell’esperienza giuridica europea, in realtà non intendeva fare altro che tornare al passato, fino ai tempi di Gesù, quando il ripudio era ammesso dalla legge mosaica come rimedio “alla durezza del cuore dell’uomo”. Invece, quel che si è introdotto in tutto l’Occidente negli ultimi quarant’anni, di pari passo con la rivoluzione sessuale, è stato qualcosa di essenzialmente diverso, nemmeno paragonabile alla tradizionale idea del divorzio come contromisura estrema per risolvere le crisi familiari più gravi.

Il primo esempio moderno di no-fault divorce, divorzio senza colpa, è stato introdotto in California nel 1970, sotto il governatorato di Ronald Reagan. Fu la prima volta in assoluto che, in uno Stato moderno, divorziare diventò un diritto soggettivo di ciascuno dei coniugi, esercitabile senza nemmeno il bisogno di premunirsi del consenso della controparte.
E’ innegabile che, secondo lo spirito del tempo, avrebbe dovuto trattarsi in particolare di un diritto femminile. Nel mondo nuovo la donna avrebbe dovuto vedersi garantiti gli strumenti legali per liberarsi dalla dipendenza dal maschio. L’aborto è stato solo il passo successivo, tanto che la famosa sentenza Roe Vs. Wade è del 1973.

Basta uno sguardo alle date per capire quanto fosse falsa la vulgata laicista sul “ritardo civile” che il nostro Paese avrebbe attraversato in quegli anni, a causa della presenza del Vaticano.
La legge Fortuna sul divorzio è infatti anch’essa del 1970, mentre la grande riforma del diritto di famiglia è del 1975.
Tra l’altro, quest’ultima tuttora prevederebbe che per la separazione legale si debbano provare i fatti che hanno reso “intollerabile la prosecuzione della convivenza”, o che possano “recare grave pregiudizio all’educazione della prole”.

Vale a dire che separazione e divorzio, per la legge italiana, dovrebbero tuttora rappresentare un rimedio estremo a una crisi coniugale altrimenti irrisolvibile, e non diritti soggettivi.
Tuttavia, fin dal principio, di fatto i Tribunali non hanno mai preteso che venissero dichiarate le ragioni della crisi, accontentandosi di una generica affermazione – anche unilaterale – sulla “incompatibilità di carattere”. Ancora oggi, questa frase che non vuol dire nulla è alla base di quattro separazioni su cinque, e tre divorzi su quattro.

Il millenario istituto del matrimonio è così divenuto, nel giro di un paio di decenni, un negozio giuridico senza più alcun valore né privato né pubblico. Un vero e proprio caso unico del diritto civile, che per il resto si regge ancora sull’elementare principio per cui pacta sunt servanda. In realtà, le promesse del giorno delle nozze – coabitazione, fedeltà, impegno a crescere i figli insieme – oggi non hanno più alcun valore, perché nessuno può chiederne conto all’altro. La gente comune ha iniziato a percepirlo, e a regolarsi di conseguenza.

E allora, che senso ha attardarsi ancora oggi a parlar male del divorzio in se stesso? Il motivo è che, per quanto nessuno lo dica apertamente, a quarant’anni dalla legge Fortuna la questione non è stata per nulla metabolizzata. Potrebbe sembrare il contrario, se si pensa che nello scorso mese di maggio a Milano si è persino tenuto il “Salone del Divorzio”, dove si organizzavano servizi vari per i single di ritorno, e si offrivano a prezzi stracciati esami fai-da-te per l’accertamento della paternità.
Ma si tratta solo della facciata mediatica, che fornisce copertura al sistema giudiziario. C’è bisogno di lubrificante per impedire che la macchina si inceppi, e con essa il suo fatturato multimilionario.

Nella realtà quotidiana, invece, dalla fabbrica divorzista continuano a sgorgare immensi oceani di sofferenza, disagio psicologico, malessere economico. In fondo, si tratta solo di una nuova applicazione della banalità del male di cui parlava Annah Arendt. Nella catena di montaggio del divorzio, così come avveniva in quella della shoah, ciascuno esegue il proprio compito obbedendo agli ordini ricevuti. Senza porsi il problema del significato e delle implicazioni di quello che fa.

Ogni anno, solo in Italia, i fatti di sangue direttamente connessi alle separazioni genitoriali sono centinaia. I morti sono più di cinquanta all’anno, con punte di oltre ottanta. E se andassimo a indagare anche sui suicidi, i numeri salirebbero vertiginosamente. E’ fuori discussione che i costi umani del divorzio siano molto più sanguinosi di quella prodotti dalla criminalità organizzata. E si tratta solo della punta dell’iceberg di un malessere sociale molto più radicato.
La crisi dell’istituto matrimoniale sta generando depressione, malesseri, e povertà collettiva, in maniera molto più ampia di quanto il mondo del diritto e della comunicazione siano disposti a ammettere.
Gli operatori di questi settori, infatti, lavorano tuttora sulla base delle coordinate culturali di quarant’anni fa. Vedono ancora, cioè, il divorzio come strumento di liberazione individuale, da contrapporre alla struttura irrimediabilmente autoritaria della famiglia patriarcale.
Tant’è che, come è avvenuto lo scorso 10 maggio, quando capita che i delitti da divorzio siano due nello stesso giorno, e quindi il fenomeno si imponga alle cronache, l’unico abbozzo di spiegazione che i media riescono a proporre è quella della ancestrale violenza del maschio, che non riesce a tollerare le nuove libertà femminili.

June Carbone, giurista americana, dieci anni fa scrisse giustamente che il diritto di famiglia si sarebbe sempre più evoluto nel senso from partners to parents. In tutto il mondo occidentale, allo Stato gliene sarebbe fregato sempre meno di come i cittadini si comportavano in coppia, ma si sarebbe sempre più interessato di come facevano i genitori. Previsione quanto mai azzeccata, viste le migliaia di perizie che oggi – solo in Italia – vengono stilate riguardo all’idoneità genitoriale di chi si separa in Tribunale.
I costi e le conseguenze di questo modus operandi sono enormi, e contribuiscono all’impoverimento collettivo. Oltretutto, il sistema è ferocemente discriminatorio verso la figura e il ruolo maschile.

Al di là della propaganda politicamente corretta, la guerra contro il padre pare essere la vera, persistente, finalità dell’intero sistema, nonché la sua fondamentale chiave interpetativa.
“Le donne si comportano come se avessero di fronte un nemico da distruggere… non è sufficiente l’affidamento dei figli, l’obiettivo vero è negare il partner come padre e come marito”, riconosceva Lia Cigarini, femminista storica e poi avvocato matrimonialista a Milano, in un’intervista del 2004. Da allora a oggi i successi in questo senso sono stati crescenti, grazie a un apparato compiacente che si può giovare non solo del pregiudizio degli operatori giudiziari, ma anche di vere e proprie leggi speciali.

In Italia sono stati gli operatori della Caritas (e poi dice che uno si butta coi preti) i primi a accorgersi del problema. Senza aspettarselo, hanno rilevato come stia crescendo sempre più la presenza dei padri separati tra i frequentatori delle loro mense e dormitori pubblici. E’ un esercito invisibile di disperati, che a causa dell’assegnazione della casa familiare alla moglie si sono ritrovati sulla strada nel giro di un mese, e con lo stipendio più che dimezzato.

Le false denunce di pedofilia e di violenza sessuale, poi, sono diventate un vero e proprio affare per chi non ha scrupoli a ricorrervi. Il criminologo Luca Steffenoni, nel suo recente saggio “Presunto Colpevole” (ChiareLettere), ha individuato che solo il 17 per cento delle denunce di questo tipo si trasformano poi in condanne, sulle quali peraltro ci sarebbe molto da discutere. Quattro denunce su cinque provengono proprio dall’ex coniuge o convivente. Alcuni magistrati hanno iniziato a riconoscere apertamente che buona parte di queste denunce è puramente strumentale, e finalizzata a mettere nell’angolo la controparte nelle cause civili per la separazione.

Gli effetti della persecuzione del padre, ad opera del sistema divorzista, sono già esplosi. Hanno cominciato a indagarli negli Stati Uniti, nel corso degli anni '80. Agli Americani, si sa, piacciono i numeri e le statistiche, mentre invece noi Europei i dati preferiamo interpretarli. Ma i crudi numeri raccolti dall’US Department of Health and Human Services ci dicono che l’assenza del padre dal nucleo familiare in cui si è cresciuti è un fattore che ricorre più di tutti gli altri, rispetto ai casi di abbandono scolastico, alcolismo e droga, gravidanze precoci, depressione, suicidi, disoccupazione cronica, fino a arrivare alle situazioni più gravi di criminalità.

Eppure, nonostante il sangue che scorre, l’impoverimento collettivo, i malesseri gravi dei soggetti coinvolti, l’ondata di emarginazione, ancora non si riesce a porre la questione nei termini di una vera emergenza sociale. E nemmeno a avviare un serio dibattito sul significato che, ancora oggi, potrebbe avere l’istituto del matrimonio.
Perché, in fondo, il vero motivo per cui oggi tante coppie divorziano – e i più giovani non si sposano nemmeno – è perché sono incoraggiati a farlo. Il sistema li favorisce in tutti i modi.
Gli avvocati sanno bene che un numero crescente di separazioni, specie tra le coppie di età più avanzata, non nasce da una vera rottura del loro legame,ma ha motivazioni patrimoniali e tributarie. Serve a godere dei vantaggi non da poco di cui godono i single, specie rispetto al fisco, alla proprietà immobiliare, o anche ai servizi sociali riservati ai cosiddetti “nuclei monoparentali”.

Si può dire che il welfare state, per come lo abbiamo praticato in Italia negli ultimi quarant’anni, sia stato un potente alleato della crisi del matrimonio. Se i trentenni italiani di oggi non si sposano, ma nemmeno fanno scoppiare una nuova contestazione, forse è perché hanno troppe gatte da pelare. I loro genitori hanno costruito per se stessi un sistema che ha lasciato sulle loro spalle un operosissimo debito pubblico, e in proiezione un’ancora più spaventoso debito pensionistico.
La generazione sessantottina oggi si sta godendo pensioni relativamente da favola, dopo avere accumulato risparmi, investimenti e proprietà immobiliari, che per i loro figli e nipoti rappresentano un autentico miraggio. Del resto, anche senza scomodare le statistiche, alzi la mano chi oggi ha meno di quarant'anni, e avrebbe mai potuto mettere su famiglia senza farsi aiutare dai suoi.

D’altra parte, i bamboccioni sono anche la prima generazione che è diventata adulta dopo avere conosciuto il divorzio di massa dei propri genitori. Anche questo probabilmente ha giocato un ruolo decisivo, sul piano psicologico, rispetto al loro attuale marriage strike.
E allora che fare? Negli USA alcuni stati federali hanno cominciato a pensare a risposte anche sul piano giuridico, introducendo la possibilità di scegliere il covenant marriage, con il quale ci si impegna fin da prima delle nozze a non divorziare se non per cause oggettive, e dopo il ricorso alla mediazione familiare.

Ipotesi ancora impensabile, in buona parte d'Europa. Però, sarebbe già un bel passo avanti se almeno cominciassimo a liberarci dei luoghi comuni da anni ’70, sui quali ancora si reggono le separazioni facili e le famiglie allargate. Come quello per cui i figli minori sarebbero meno pregiudicati da un divorzio rapido “tra persone civili”, piuttosto che dal crescere assieme a genitori conflittuali, o non più innamorati.
Oggi è più facile, specialmente per una madre, convincersi che sia la propria personale felicità a essere necessaria per quella dei figli, piuttosto che il contrario. Ma è un inganno puerile. Basterebbe dunque, tante volte, che gli operatori coinvolti si informassero di più sulle dinamiche delle crisi familiari, e agli interessati ogni tanto sapessero dire la verità. E magari anche qualche no.

05 settembre 2010

Preti di plastica

Tratto da: diario di un avvocato di campagna

L'abito non farà il monaco, e nemmeno il prete, ma senz'altro è fondamentale per qualificarli.
Basterebbe un'occhiata alle cravatte di Don Verzè o di Don Sciortino, per capire che le loro ossessioni non hanno più nulla a che vedere con il pensiero cattolico. Ormai è una regola generale: gli uomini che dovrebbero testimoniare Cristo anche nell'abito esteriore, rinunciano a farlo nello stesso tempo in cui smettono di portare il collare romano. Per capirlo, non è nemmeno necessario citare casi così estremi e stravaganti. Da quando i preti hanno dismesso la talare, uno sguardo alla qualità del loro vestiario è già sufficiente per intuire il livello del loro pensiero, prima ancora che aprano bocca.

Per esempio, quello che ha celebrato la Messa a cui ho assistito domenica scorsa, in una località di villeggiatura, indossava paramenti troppo corti. Sotto l'orlo ricamato del camice, gli spuntavano orribili sandali di plastica portati con i calzettini. Miseramente afflosciato sopra a entrambi, si intravedeva pure il fondo di un paio di pantaloni grigi troppo lunghi. Se non fosse stato addobbato per dire Messa, si sarebbe capito che quell'uomo era un prete solo per via della tristezza che emanava da quegli accostamenti così sciatti e impropri.

E infatti, dopo aver letto il Vangelo, il celebrante ha iniziato la predica senza andare mai oltre le scarse attese che promanavano dal suo vestiario. Scandiva le parole a una a una, con un tono di voce dimesso e monocorde che suonava del tutto innaturale, come se lo stesse usando apposta per ostentare umiltà. Tra l’altro, si interrompeva a metà di ogni frase, come se stesse cercando – inutilmente – di creare un senso di attesa nell'uditorio. Benché non leggesse, la sua cantilena era tanto precisa e monotona che veniva il sospetto che si fosse imparata la predica a memoria.
Nel sentirlo, mi è tornato alla mente un collega che mi diceva sempre di non sopportare i preti, non tanto per quel che dicevano, quanto per il loro modo di parlare. Si chiedeva se per caso – dopo il Concilio – nei seminari moderni avessero organizzato dei corsi appositi per insegnare ai futuri parroci, al posto del latino, come esprimersi in modo così artefatto.

A un certo punto, senza cambiare tono di voce, il celebrante è entrato nel vivo del suo discorso. Il Vangelo che aveva declamato poco prima parlava del banchetto al quale invitare i poveri, gli storpi e i ciechi. Così, agganciandosi a quella lettura, il non più giovane prete prima ha iniziato a prendersela col governo francese (senza mai nominarlo) per aver ordinato l’espulsione dei Rom irregolari, e poi è passato a criticare aspramente il governo italiano per la questione dei precari della scuola.

Ha pure sviluppato una tesi davvero originale, secondo la quale la crisi educativa dei nostri giovani dipenderebbe dal fatto che nelle scuole non ci sarebbero abbastanza insegnanti, e la colpa sarebbe del governo che si rifiutava di assumerli. Questo a dire il vero non l'ho sentito, e me l’hanno riferito in seguito, perché a quel punto io mi ero già alzato in modo plateale, e avevo già oltrepassato l’ingresso della chiesa, per poi rientrare solo dopo la preghiera dei fedeli. Un modo come un altro, purtroppo collaudato fin troppe volte, per far capire che ero venuto per ricevere l’Eucarestia, non per sentire un comizio.

Accovacciata accanto alla porta, guarda caso, c’era una zingara che chiedeva con insistenza l’elemosina a tutti quelli che entravano a sentire la Messa. Non credo che, per coerenza con le sue opinioni sul governo Sarkozy, il nostro celebrante – oltre a garantirle il posto per mendicare – l’avesse regolarmente alloggiata in canonica assieme a figli e parenti. Ma bisogna capirlo: in effetti, nelle parabole del Vangelo colui che offre i banchetti è sempre un re, o un ricco possidente, immagine del Padre celeste. Non certo un normale padre di famiglia numerosa, una delle poche oggi rimaste, che deve ogni giorno farsi i suoi conti in tasca, per essere sicuro di poter sfamare quelli della sua casa. Insomma, voglio dire, anche i preti comizianti che vogliono prendere alla lettera le parabole devono pur sempre confrontarsi con le esigenze pratiche dell’economia domestica.

Ma a parte questo, l’inatteso comizietto mi ha lasciato addosso un inusuale senso di tristezza, che è durato ancora per qualche ora dopo la Messa. I sandali di plastica avevano fatto la loro parte, d’accordo, ma c’era qualcosa di più. Quel prete, in fondo, non aveva fatto altro che riprendere una vecchia solfa pauperista che, per fortuna, nelle parrocchie italiane sta diventando sempre più flebile. Sui pulpiti delle chiese stanno cominciando a diventare prevalenti i sacerdoti che si sono formati dopo la buriana postconciliare. Quindi, bisogna riconoscere che la maggior parte dei parroci, oggi, limita le proprie incursioni domenicali in politica ai cosiddetti valori non negoziabili. Difesa della vita, famiglia, libertà di educazione.

E’ giusto così, perché sono queste le vere emergenze del nostro tempo. Ma la tristezza sale lo stesso, nel constatare come il pensiero cattolico, che pure potrebbe giovarsi dell’eredità di autentici giganti del pensiero politico, oggi in Italia – e non solo – sia incapace di andare oltre.
Sembra che, rispetto alle maggiori questioni economiche, sociali, e più strettamente politiche, i cattolici italiani e soprattutto il clero non abbiano più niente da dire, e quando la Cei tenta di approfondire gli aspetti tecnici dei problemi che le interessano, la voglia di rispedirli tutti a lavorare di braccia nella vigna del Signore viene anche al più devoto dei commentatori.

La dottrina sociale della Chiesa si può giovare tuttora di intuizioni di enorme profondità, radicate nell’eredità della filosofia scolastica: l’ideale della persona, il concetto di bene comune, il criterio della sussidiarietà. Però, quando si entra nel vivo del discorso politico, i cattolici ormai da più di due secoli non riescono a tradurre la loro gigantesca eredità in un progetto davvero originale. Devono sempre andare a prestito delle idee altrui, o limitarsi a contrastarle.
La vecchia Democrazia Cristiana ha vissuto per decenni nel compromesso con i marxisti, e quindi – nonostante gli sforzi compiuti dal PdL al fine di presentarsi come un vero partito popolare europeo – per i cattolici italiani il liberalismo è tuttora un oggetto relativamente sconosciuto.

Non solo per loro, a dire il vero, visto che il pensiero liberale non si è mai davvero radicato nella nostra cultura politica. Da noi hanno sempre prevalso ideali solidaristici più o meno estremi. I cattolici poi, non senza qualche ragione – vista la matrice massonica e anticlericale del nostro risorgimento – hanno sempre visto nell’idea liberale l’incarnazione del peggiore egoismo antievangelico.
Da noi, a differenza che nel mondo anglosassone, i grandi interpreti cattolici della modernità come Tocqueville o lord Acton non hanno mai fatto scuola.

D'accordo, bisogna aggiungere che, in tempi recenti, l’affermazione della Lega e del Popolo della Libertà sta restituendo giustizia al pensiero di grandi autori cattolici, come Rosmini, Gioberti o Cattaneo, che erano stati lasciati ai margini dapprima dal nostro Risorgimento massonico, e poi dall'avvento dell'egemonia gramsciana e del “cattolicesimo democratico”.
Ma si tratta pur sempre di cose che ci si può ripetere solo nei convegni di studi, di certo non di valori che abbiano conquistato la popolazione. Oggi il pensiero “teocon” – che negli Stati Uniti ha un seguito di massa e si giova di pensatori quasi esclusivamente cattolici – da noi non ha messo radici. Un progetto politico come quello di David Cameron sulla “big society”, ancora oggi, in Italia sarebbe difficile solo da pensare. Figuriamoci, quindi, se sarebbe possibile coinvolgere in esso i cittadini comuni.

Esiste la presenza politica e sociale dei cattolici vicini a Comunione a Liberazione, che è quella più aderente a questo modello, e i risultati che essa ottiene sono tutt’altro che trascurabili. L’impressione, però, è che si tratti pur sempre di movimenti collaterali, che rispondono solo a se stessi, e non coinvolgono l’intero corpo sociale dei cattolici.
La grande massa dei fedeli che frequentano le funzioni domenicali è ancora imprigionata dai discorsi pauperisti dei preti malvestiti, oppure dalle omelie un po' fruste e corrive della maggioranza dei parroci. Difficilmente gli interpreti del pensiero dei Vescovi italiani, che sono parimenti divisi riguardo alle scelte politiche di fondo, riescono a andare oltre le esigenze – peraltro urgenti e prioritarie – dei cosiddetti valori non negoziabili.

Sui temi sociali e politici i cattolici continuano a andare a rimorchio di un solidarismo ormai esausto, e a riproporne i vecchi schemi. Eppure, a quasi vent’anni dalla scomparsa del modello democristiano, forse i tempi sarebbero maturi per cominciare a ritrovare l’unità su qualcosa di più concreto, che possa trasformarsi in un grande progetto per l’Italia.
Devono muoversi per primi i laici, come è ovvio, ma deve muoversi anche la gerarchia. Finché sui banchi della buona stampa, alla porta delle parrocchie, continueranno a prevalere certe riviste ossessionate da Berlusconi, delle quali peraltro ai fedeli frega assai poco, sarà impossibile tornare a parlare di un'autentica e originale partecipazione del cattolici alla vita politica nazionale.

D'altronde, se i movimenti cattolici più vitali, che si impegnano non solo nel volontariato ma anche nel mondo dell'impresa e del lavoro, continueranno a essere così autoreferenziali, la situazione non cambierà.
Occorre che l'episcopato superi le sue divisioni e sappia sposare un progetto politico originale. Un'idea di fondo per la società italiana che non si ponga più - come è avvenuto nel cinquantennio democristiano – come una continua rincorsa delle ideologie secolari della modernità, e nemmeno delle migliori.

E poi, è urgente che la gerarchia ecclesastica impari a rapportarsi con i media con l'autorevolezza e l'univocità che oggi si richiederebbe a qualunque leader politico: inutile ribattere che la politica e il suo linguaggio non rientrano tra i compiti della Chiesa, perchè è comunque intollerabile il modo fazioso e superficiale con cui oggi il mondo della comunicazione stravolge sistematicamente le prese di posizione del Papa e dei Vescovi sui temi politici e sociali. Così come lo è la disinvoltura con cui esso attribuisce al mondo cattolico, se non addirittura alla Santa Sede, le esternazioni più o meno allucinate dei soliti due o tre porporati in cerca di pubblicità, per non parlare di quelle dei già citati pretazzi in giacca e cravatta.

I presupposti culturali e filosofici per un simile progetto non mancherebbero di certo. Basterebbe solo ritrovare unità, superare i vecchi schemi e ritornare alle fonti della dottrina sociale cattolica. Quel che non ha voluto fare la DC, e quello che (anche per colpa di quest'ultima) non è ancora riuscito a fare Berlusconi, e cioè radicare nel tessuto sociale del Paese quel partito liberale di massa che l'Italia non aveva mai avuto, potrebbero ancora farlo i Vescovi.
Se solo sapessero guardare oltre, e magari, tanto per cominciare, ci liberassero dai preti con i sandali di plastica.