20 dicembre 2007

Silvio a Bologna è un messaggio a Pier

Sono bastati due giorni per smentire anche gli scettici più incalliti. Che il rovesciamento del tavolo del centrodestra, ad opera di un Berlusconi tutto proteso a far nascere il nuovo partito del Popolo della Libertà, non avesse alcuna conseguenza sulla scelta del candidato sindaco moderato per Bologna, solo qualche ingenuo poteva pensarlo. Bene. Dopo quello che è successo la settimana scorsa, e nell’arco di sole ventiquattro ore, crediamo che di ingenui in giro non ce ne sia più l’ombra.

Ora è ufficiale: la partita per le amministrative del 2009 è ufficialmente riaperta. L’arrivo di Silvio in piazza Galvani è stato più importante sotto il profilo dell’immagine che sotto quello della sostanza. Fino ad ora dalle parti di Arcore, Bologna è rimasta appaltata a Pier Ferdinando Casini. Era lui ad avere il diritto di fare il bello e il cattivo tempo. Del resto, nel gioco delle alleanze è normale che vada così. Nel 1999, l’individuazione di Giorgio Guazzaloca - esponente civico ma in realtà casiniano doc - era maturata proprio nel rispetto rigoroso del patto che legava a livello nazionale la Casa delle Libertà.

Allora una casa molto solida, anche se il centrodestra era in piena traversata del deserto. Ci sarebbero voluti altri due anni prima di raggiungere l’oasi rinvigorente, con il trionfo nelle elezioni politiche del 2001. Poi cominciarono le follinate. Ma questo è un altro discorso. Oggi, però, quell’alleanza è in frantumi. Berlusconi sta cambiando di nuovo faccia al centrodestra. E lo fa puntando decisamente ad allargare i confini della sua disciolta (o quasi) Forza Italia. Ed allargare i confini vuol dire guardare agli elettori dell’Udc, di Alleanza nazionale, ai delusi, a chi non ha mai fatto politica e magari anche a qualche simpatizzante di sinistra pentito. Bologna, in sostanza, non è più esclusiva riserva di caccia di qualcuno.

Ecco, il comizio dell’ex presidente del Consiglio (pare deciso dalla sera alla mattina) voleva mandare esattamente questo messaggio: caro Casini, il Popolo della Libertà può avere - e ha - radici solide anche sotto le Due Torri. D’ora in avanti non puoi più pensare di giocare da solo.

Pier ci ha riflettuto una giornata e alla fine ha rilasciato una dichiarazione mai udita prima, a suo modo storica: “Se ci sono altri candidati per Palazzo d’Accursio, a parte Guazzaloca – ha detto -, è il momento che si facciano avanti”. Da ricordare che fino a quel momento l’Udc aveva puntualmente fatto un solo nome, e uno soltanto: appunto quello del Guazza, senza il quale non poteva che esserci una sconfitta sicura. Che la sortita di Casini voglia dire reale cambiamento di posizione, e dunque si ritenga sul serio l’ex sindaco non più in grado di andare oltre la somma dei partiti del centrodestra, c’è un solo modo per saperlo: l’esplicito rifiuto a correre da parte di re Giorgio. Cosa che ha immediatamente chiesto il coordinatore regionale di An, Filippo Berselli.

A questo punto vengono in ballo gli interessi della città, e dunque dei bolognesi. Le nebbie vanno diradate il prima possibile. Perché le favorevoli condizioni del 1999 non si ripresenteranno e pertanto i voti andranno guadagnati uno per uno. Operazione che richiede tempo e organizzazione. Ciò sia che Cofferati si ricandidi (molto difficile), sia che si trasferisca a Roma (probabile).

Guazzaloca ha perso gran parte del suo civismo agli occhi dell’elettorato che decide l’esito delle elezioni, e la sinistra non sbaglierà ad affidarsi a un’altra Silvia Bartolini. Se Casini non è più tanto certo di avere in Guazzaloca un asso in grado di raccogliere i consensi dei moderati e anche andare ben al di là di essi, ha il dovere di chiedergli un passo indietro. Ci sarebbe, infine, l’ultimo problema. Un Berlusconi che decide di muoversi anche a Bologna implica un partito forte, organizzato e coeso. Oggi le sue truppe sotto i portici non hanno nulla di tutto questo. Purtroppo.

Graziano Girotti
L'opinione, 20 dicembre 2007

12 dicembre 2007

Processo a Darwin


Dagli Stati Uniti all’Europa, le critiche all’evoluzionismo stanno suscitando un crescente interesse intellettuale. Ne è prova il brillante libro del giornalista e saggista Marco Respinti, Processo a Darwin. Un’inchiesta a tutto campo sul darwinismo per smascherare incongruenze, falsità e luoghi comuni (Piemme, pp. 192, € 12,00). Nella sua requisitoria Respinti si attiene rigorosamente ai fatti comprovati e alle risultanze scientifiche. Le uniche prove ammesse, pro o contro la teoria di Darwin, sono quelle che scaturiscono dal metodo empirico canonizzato fin dai tempi di Galileo, secondo cui la scienza, per essere tale, deve essere strettamente legata all’osservazione diretta dei fenomeni e alla ripetibilità degli esperimenti.


Una volta eliminate tutte le sovrastrutture ideologiche e filosofiche, sostiene Respinti, le certezze scientifiche del darwinismo risultano molto scarse e di dubbio valore. Nessuno, in laboratorio e tantomeno in natura, ha mai osservato direttamente le modalità con cui il caso, la selezione naturale o i condizionamenti ambientali abbiano dato origine alla vita o abbiano prodotto la macroevoluzione, cioè la trasformazione di una specie in un’altra. Se vogliamo rimanere ai fenomeni osservati, l’abiogenesi (lo sviluppo della vita dalla materia inorganica, come postula l’evoluzionismo) è stata confutata dagli esperimenti di Lazzaro Spallanzani e, in maniera definitiva, di Louis Pasteur. L’unica cosa che si può constatare empiricamente è la microevoluzione, cioè quel cambiamento limitato dei viventi, all’interno di una stessa specie, di cui le regole della genetica mendeliana mostrano il funzionamento regolare e ordinato, e non certo casuale.


Il campo dove si gioca la partita decisiva è probabilmente quello della paleontologia. Se la teoria di Darwin fosse corretta, la terra dovrebbe essere stracolma di reperti fossili appartenenti a un numero incalcolabile di organismi intermedi tra una specie e l’altra. Tuttavia dopo 150 anni di ricerche non solo non sono stati ritrovati gli anelli intermedi tra una specie e l’altra, ma dai ritrovamenti fossili risulta, al contrario, che le specie viventi siano apparse più o meno simultaneamente, già perfettamente formate, nella grande esplosione di vita del Cambriano, circa 540 milioni di anni fa. Tutte le supposte scoperte di forme transizionali intermedie (come l’Uomo di Piltdown, l’archaeopterix o l’archaeoraptor) si sono rivelate ad un più attento esame degli errori di valutazione, se non dei veri e propri falsi costruiti ad arte. Occorre dunque ammettere che, allo stato attuale, i fossili non si accordano con l’ipotesi evoluzionista.


Respinti nota un fatto curioso: un abate (Gregor Mendel) ha dimostrato l’infondatezza della casualità nella trasmissione dei caratteri ereditari; un altro abate (Lazzaro Spallanzani) ha demolito per primo l’ipotesi della “generazione spontanea” della vita; un medico profondamente cattolico (Louis Pasteur) ha smascherato la farsa dell’abiogenesi. I più cristallini e onesti indagatori del reale attraverso i canoni del metodo scientifico galileiano sono quindi tutti uomini di gran fede religiosa, mentre dalla parte dei darwinisti abbondano gli ideologi pressappochisti e talvolta anche i veri e propri truffatori, come il falsificatore Ernst Haeckel, lo scienziato stalinista Trofim Lysenko o, ai nostri giorni, l’antropologo tedesco Reiner Protsch von Zieten, che per trent’anni ha manipolato i dati a nostra disposizione sull’uomo di Neandhertal.


Respinti dedica poi uno dei capitoli finali alla teoria del disegno intelligente (meglio dovrebbe dirsi “progetto intelligente”), che nell’ultimo decennio si è proposta come seria alternativa scientifica al paradigma darwiniano. La controversia innescata dall’Intelligent Design sembra avere tutte le caratteristiche delle maggiori rivoluzioni scientifiche del passato. I sostenitori del darwinismo appaiono sulla difensiva, e il loro tentativo di rifiutare o di censurare il dibattito, anche ricorrendo alla via giudiziaria, è il segno più evidente delle loro difficoltà.


Per lungo tempo l’establishment scientifico ha cercato di convincere il pubblico che l’unica opposizione all’evoluzionismo proviene dai creazionisti biblici. Il disegno intelligente, tuttavia, è una teoria nata nei laboratori scientifici e nelle università, non tra i fondamentalisti protestanti della Bible Belt, e la sua popolarità si sta estendendo anche fuori dagli Stati Uniti: nell’agosto del 2005 settecento scienziati provenienti da diciotto paesi diversi si sono riuniti a Praga per una conferenza su “Darwin e il progetto”; nello stesso anno, un articolo uscito su “Le Monde” ha rivelato la crescente influenza della teoria del disegno intelligente sugli studenti francesi.


Il fatto sociologico più significativo è proprio il forte fascino che questa teoria esercita sui giovani che hanno il coraggio di mettere in questione l’ortodossia e di seguire i risultati della ricerca ovunque li portino. Saranno loro a decidere l’esito del dibattito.


(Guglielmo Piombini)

06 dicembre 2007

Stanno massacrando l'accordo del 23 luglio

“Il collegato alla Finanziaria massacra l’accordo sul welfare del 23 luglio”. Non usa perifrasi Alessandra Servidori, tra gli autori del libro “Giù le mani dalla Legge Biagi”, per commentare quanto sta accadendo all’interno della maggioranza di governo in materia di lavoro. L’occasione è stata un convegno organizzato a Loiano, sull’Appennino bolognese, da Ubaldo Salomoni, consigliere regionale e coordinatore in Emilia-Romagna dei Gruppi della Libertà.

“Il professor Marco Biagi – è stato il messaggio introduttivo di Salomoni – ha dimostrato con il Libro Bianco un autentico spirito riformista, tutto proteso alla difesa dei giovani e dei non garantiti. La sua legge 30 ne è la prova inconfutabile”. Dopo gli interventi di tre sindaci, il padrone di casa Giovanni Maestrami, Marino Lorenzini (Monghidoro) e Giuseppe Venturi (Monterenzio), la palla è passata a colei che di Biagi è stata amica e collega di lavoro per decenni.

Allora, Servidori, perché sarebbe stato tradito il tentativo imbastito con l’accordo del 23 luglio?
"Perché nel collegato alla Finanziaria, come dicevo, scompaiono alcune figure contrattuali che sarebbero molto utili a determinati comparti. Penso allo staff leasing o al job on call. Nel turismo, per esempio, esistono mesi in cui c’è bisogno di personale e altri mesi dove questa esigenza diminuisce fino a scomparire. Se non si regolamenta, si fa vincere il sommerso e dunque il lavoro irregolare. Inoltre non dimentico le riforme degli ammortizzatori sociali e della contrattazione, che vengono lasciate a un impegno delle parti sociali ben poco sostanziale sotto il profilo dei tempi".

Ecco perché è molto critica.
"Esatto. Siamo di fronte a una vera e propria abiura. Viviamo in uno stato di incertezza. L’accordo dell’estate scorsa poteva e doveva continuare lungo il percorso tracciato dal Pacchetto Treu prima e dalla Legge Biagi poi. In pratica, poteva tradursi nella sconfessione della sinistra radicale. Mi pare che l’opportunità si stia perdendo".

Insomma, Prodi non ce la fa a staccarsi dall’ala antagonista della sua maggioranza?
In realtà, non ci ha mai nemmeno provato. Sa bene che la sua salvezza sta proprio nell’estrema sinistra, che gli consentirà di arrivare al 2009 garantendo la pensione ai parlamentari.

Da cosa nasce l’odio ideologico e viscerale degli ultimi anni verso la Legge Biagi, a suo parere?
"Da una sorta di vendetta nei confronti dell’esigenza riformista di Marco. In questo la Cgil è stata connivente. Non dimentichiamoci il dito puntato del leader sindacale Sergio Cofferati proprio contro il Libro Bianco, con il quale si intendeva individuare riforme ben precise. Già con il Pacchetto Treu la sinistra aveva dovuto subire l’introduzione di tipologie contrattuali come quella del cococo. E dunque non aveva nessuna intenzione di lasciar mettere le mani sulla materia del licenziamento e sul celebre articolo 18. In Europa le protezioni sono molto inferiori a quelle previste nel nostro Paese, e soprattutto sono legate a strumenti di accompagnamento al lavoro che il disoccupato è costretto ad accettare. In Italia, invece, resistono ancora i due anni di cassa integrazione che finiscono per favorire l’assegno di disoccupazione e il lavoro nero. Tutto questo apparteneva a una vecchia idea di welfare. Le forze sindacali hanno dimostrato di essere incapaci a governare il cambiamento".

Il professor Cazzola ha parlato proprio su queste colonne di sinistra reazionaria…
"Direi piuttosto conservatrice. La base elettorale della sinistra è costituita da pensionati e pubblico impiego. Con il popolo delle partite iva non riesce a sfondare perché non ha uno straccio di idea di sistema Paese. I sindacati non hanno cultura riformista ma solo protezionista. E’ il loro male oscuro".

Ha appena ricordato le accuse di Cofferati contro Biagi. Da lui si sarebbe aspettata alcune parole chiarificatrici in questi suoi anni “bolognesi”?
"Cofferati è troppo presuntuoso e arrogante. Sa di avere usato parole che hanno condannato Marco. E spesso con le parole si arma la mano di chi spara".

Graziano Girotti
(L'opinione, 6 dicembre 2007)

03 dicembre 2007

La manovra a tenaglia per fermare Silvio

Con la sinistra governativa allo sfascio e quella partitica che a fatica intravede un futuro, ecco ridiscendere in campo il “democratico” braccio giudiziario e giornalistico. C’è da distrarre l’opinione pubblica disfatta dalle tasse e da una situazione economica che resta sul brutto stabile. Peraltro un Berlusconi stile-’93, che rimescola le carte con coraggio e lungimiranza, aumenta in modo esponenziale il rischio che i moderati si riprendano l’Italia e magari provino pure, questa volta con successo, a tradurre in pratica quella rivoluzione liberale che resta l’unica strada possibile per salvare il Paese da un declino che ora sembra inarrestabile.

Insomma, c’è molto lavoro “sporco” da fare. E allora ecco muoversi in pompa magna chi quel lavoro per la sinistra ha sempre compiuto con dedizione e costrutto. Prima ci ha pensato l’armata Repubblica-na, che ha gridato uno scoop totalmente inesistente: ai tempi del secondo governo Berlusconi, i dirigenti Rai e Mediaset si rifugiavano in bagno e da lì, al riparo da orecchi indiscreti, partivano teleconferenze per favorire il network privato rispetto a quello pubblico. Ovviamente a tirare i fili era Silvio il quale, fregandosene delle cose di governo, pensava a ingrassare i suoi bilanci.

Il direttore Ezio Mauro, all’operazione, è riuscito persino ad appioppare un nome che sa di trame segrete, logge massoniche, torbido, fango. Delta, l’ha chiamata. Il ragazzo ci sa fare, è indubbio. Peccato che dopo solo alcuni giorni dall’esplosione del caso, il Corriere della Sera intervisti l’ex direttore generale della Rai, Pierluigi Celli. Il quale non ci pensa due volte a togliere le brache all’erede del Fondatore e a lasciarlo alla mercè delle risate di quei pochi lettori che si accorgono dell’articolo. “Ma le telefonate ci sono sempre state!” ha sostanzialmente dichiarato. “Era ed è normale che i vertici di due aziende concorrenti si confrontino”. La rivelazione resta confinata nelle pagine interne e passa sotto silenzio. Talmente sotto silenzio che è di poche ore fa la notizia della sospensione dalla Rai della sua direttrice marketing, colei che viene ritenuta la materiale esecutrice dei voleri di Silvio. E per lei l’odissea, ne siamo sicuri, è appena agli inizi.

Poi c’è l’altro versante, quello giudiziario. L’obiettivo prescelto è stato il sindaco di Milano, Letizia Moratti, coinvolta in una inchiesta su presunti incarichi d’oro. Primo cittadino stimato, donna, personaggio di sicuro avvenire nel Partito della libertà, la Moratti rappresenta un bersaglio a dir poco interessante. “Le recenti polemiche rispetto ad incarichi profumatamente retribuiti, soprattutto quando provenienti da sinistra – ha commentato il capogruppo di Forza Italia alla provincia meneghina, Bruno Dapei – ci avevano fin qui fatto sorridere al pensiero di quanto, a riguardo, abbiamo visto accadere a Palazzo Isimbardi (sede del consiglio provinciale) e nelle società partecipate e controllate dalla Provincia. Dal piano politico, la vicenda ora sembra spostarsi su quello giudiziario. Déjà vu”. Sì, un film visto e rivisto, che ora però va assolutamente replicato. C’è da fermare Silvio. Ed è scattata la manovra a tenaglia.

Graziano Girotti
(L'Opinione, 1 dicembre 2007)

21 novembre 2007

Partito Popolare della Libertà?

Scusate se ci citiamo, non è assolutamente per dire che avevamo ragione noi, anzi. E’ solo per fare notare che, se in politica tutto può cambiare nello spazio di un mattino, le nostre domande restano però ancora quelle.

Quando abbiamo aperto questo piccolo blog, subito dopo le elezioni politiche della primavera 1996, per cercare di contribuire come potevamo alla rinascita del Centrodestra, nel nostro “Piccolo Manifesto del Filo a Piombo” (e non dite che “manifesto” è un concetto di sinistra: e il “popolo” allora che cos’è?) avevamo scritto:

“ ... oggi, dopo le elezioni del 9-10 aprile, abbiamo la sensazione di essere sempre stati, e di essere ancora, sempre un po’ più avanti e assieme un po’ più indietro rispetto alla personalità di Silvio Berlusconi.
Più avanti, perché anche ora che Forza Italia si è confermata il primo partito italiano, e ha dimostrato la sua capacità di rispondere alle attese della maggioranza degli italiani, continuiamo ad interrogarci su come un partito simile potrà sopravvivere alla personalità del Caimano, e strutturarsi come polo di attrazione di un futuro partito dei moderati.
Ma nel contempo ci sentiamo più indietro, rispetto alla genialità con cui Berlusconi è riuscito e tuttora continua ad interpretare il sentire comune del Paese che non si riconosce nella sinistra.
Non è la prima volta, dal 1994 ad oggi, che ci sorprendiamo a doverlo idealmente rincorrere, subito dopo avere temuto che la sua epopea politica fosse quasi al capolinea.”

Oggi, a un anno e mezzo di distanza, ci sembra ancora valida la domanda su come quello che sta per nascere potrà sopravvivere a Berlusconi. Per questo sarebbe fondamentale partire con il piede giusto.
In ogni caso, per ora, abbiamo anche l’impressione di avere appena assistito ad uno dei più bei gol di Maradona o Baggio, o eventualmente - anche se non ci piaceva la maglia - ad un assist di Platini.

Improvvisamente, quando la partita sembrava sonnecchiare e si temeva la beffa al 90°, ecco che all’improvviso è arrivato uno di quei gol che si possono solo stare a guardare a bocca aperta. Allargando le braccia, nel caso che si fosse un difensore o un tifoso dell’altra squadra. Perchè all’improvviso si è intuito - e non capito, perchè se si cerca di capire certi colpi si ottiene solo di perdersene la bellezza - di aver visto all’opera un fuoriclasse che quando decide di puntare la porta mostra di avere almeno tre marce in più di tutti gli altri.

Duole pensare che possa venir meno il bipolarismo. Siamo quarantenni, quindi riusciamo ancora ad avere in prima persona il ricordo asfissiante dei governi che venivano fatti in parlamento, e si scioglievano per decisione delle segreterie dei partiti. Al punto di esservene almeno quattro o cinque per legislatura. Noi siamo di quelli che sognavano la Thatcher e Reagan quando in Italia si alternavano (litigando) Craxi e De Mita, e dopo ogni elezione non si faceva il governo, bensì “l’analisi del voto”.
Quindi, figuriamoci se adesso non abbiamo tutte le paure possibili di fronte al solo pensiero una futura larga intesa tra Berlusconi e Veltroni.

Però va anche detto che in questi ultimi quattordici anni i benefici del bipolarismo ce li siamo goduti solo a metà, e solo nel quinquennio del secondo governo Berlusconi. E anche in quel periodo, abbiamo l’impressione che certe cose non si siano fatte - specialmente la riforma della giustizia, quella della pubblica amministrazione e le grandi opere pubbliche - sia stato soprattutto per colpa delle discontinuità di Follini, e del troppo amore di Fini per chi vive alla greppia dello Stato (per non parlare dei suoi mal di pancia verso Tremonti e delle sue sortite laiciste e filoimmigratorie).

Resta comunque il fatto che il buon Silvione il suo contratto con gli Italiani lo ha realizzato solo per metà. Se non fosse che per il nostro Paese è già grasso che cola, si potrebbe anche guardare al bicchiere mezzo vuoto che non sappiamo come potrà mai più essere riempito.
Inoltre, per il resto, gli ultimi quattordici anni sono stati anni che - esattamente come prima - hanno visto governi che venivano sfiduciati e sostituiti da esecutivi “tecnici”, con le segreterie di partito che imponevano al Quirinale se e quando sciogliere le camere, e soprattutto con i partitelli che alle elezioni mai e poi mai arriveranno in doppia cifra che però continuavano imperterriti a bloccare tutto chiedendo ed ottenenso continue verifiche, compromessi, posti di potere, ecc. ecc.

Per questo, alla fine, stiamo ancora con Silvio e speriamo che sia la volta buona. Se con lui proprio deve rinascere la Dc, almeno sia una Dc liberale come non lo è stata più dai tempi di De Gasperi. E comunque, è ora che il suo partito si strutturi sul territorio in maniera completamente diversa da prima. Non siamo quelli che storcono il naso perchè ancora una volta l’organizzazione nascerà dall’alto, però resta il fatto che - appunto - non è che in futuro ci sarà sempre Berlusconi a toglierci le castagne dal fuoco, quando ci sarà bisogno di ricominciare a radicarsi sul territorio.

Infine, abbiamo una osservazione, per ora che siamo nella fase costituente: e se alla fine lo chiamassimo “Partito Popolare della Libertà”? Richiama il PPE, ma senza usare il sostantivo “popolo” che alle nostre orecchie - e non solo alle nostre - in effetti fa un po’ troppo bandiera rossa la trionferà. E poi riunisce comunque i due concetti, quello dell’estrazione popolare e quello dell’idea liberale, senza essere troppo lungo e ridondante di congiunzioni.
Pensaci, Silvio. Noi ci staremo.

20 novembre 2007

San Babila, esito naturale di un percorso coerente

“La politica non può dividere ciò che la piazza unisce”. A pronunciare queste parole, davanti a milioni di persone plaudenti e sbandieranti ciascuna il proprio vessillo di partito, fu Gianfranco Fini il 2 dicembre 2006 in piazza San Giovanni, a Roma. Una manifestazione grandiosa sulla quale i principali leader dei partiti della Casa delle Libertà e moltissimi elettori dell’Udc si ritrovarono d’accordo nel ritenerla il punto di partenza per la nascita di un nuovo contenitore riservato a tutti i moderati e i liberali italiani.

Per questo sorprende la reazione del capo di Alleanza nazionale alla “bomba” lanciata da Berlusconi: Forza Italia si scioglie per confluire nel partito del popolo italiano delle libertà. E’ possibile che la freddezza di Fini sia legata alle polemiche degli ultimi giorni, come tali contingenti e di cortissimo respiro. Saranno i prossimi giorni a far capire meglio le sue intenzioni. E’ certo però che Silvio ha parlato al cuore e alla mente della cosiddetta base, dei militanti volontari, di tutti coloro che non ne vogliono più sapere delle minuscole beghe fra alleati.

Si è librato in alto per guardare più lontano di tutti. Ancora una volta, dopo il 1994. Un percorso coerente dunque, quello di Silvio, che in meno di dodici mesi estrae dal cilindro l’ennesima innovazione. Anche se l’immagine del cilindro non è la più calzante. Perché non si tratta di un’invenzione estemporanea, ma di un progetto meditato e tradotto in pratica. Non è un caso che accanto a lui, in piazza San Babila, ci fosse una raggiante Michela Vittoria Brambilla.

Colei che materialmente ha realizzato quel progetto dandogli la forma dei Circoli della Libertà. Un passaggio di testimone, allora, che avviene sulla base del successo dei Circoli, della raccolta firme contro Prodi, di un sentimento comune ai moderati italiani di rilanciare la sfida liberale. Una sfida che con Forza Italia non era stata vinta, ma che Forza Italia aveva avuto comunque il merito di “fotografare”, di porla sul tavolo della politica e del Paese. Ora il Cavaliere ci riprova, innovando negli uomini (o per meglio dire, nelle donne). E capisce che il suo vecchio partito, così come la vecchia coalizione di centrodestra, usurata dai conflitti interni, non è più capace di dare le risposte che la gente pretende.

Come è suo costume, salta a piè pari la politica politicante e parla direttamente al signor Rossi e alla signora Maria. Sintomatico il primo impegno che ha urlato, lanciando la nuova idea: quello di mandare a casa i vecchi parrucconi, consentendo a tutti di eleggere i propri dirigenti. Parrucconi che anche Forza Italia aveva e continua ad avere.

Colonnelli senza consenso, lontanissimi dalla base che la base vuole ripudiare. Un partito consunto dai conflitti interni, sempre più profondi e sempre più devastanti. Un partito che, appunto, ha perso per strada lo spirito che lo aveva animato all’inizio. Se da Fini è arrivato il gelo e dalla Lega un fermo disinteresse, l’Udc pare andarci più cauta. Ma la bomba è appena deflagrata. Ci ricordiamo cosa dicevano tutti tredici anni fa dopo l’annuncio della nascita di Forza Italia?

Graziano Girotti
(L'opinione, 20 novembre 2007)

09 novembre 2007

In morte di Enzo Biagi. Sessanta minuti di applausi a Blondet

Vorrei fare anche qui un ricordo di Enzo Biagi.

L'altro giorno ho sentito per caso, in automobile, un giornale radio mattutino della Rai, proprio mentre dava per la prima volta la notizia della morte: subito dopo sono partiti due coccodrilli - come si dice in gergo - che erano già stati evidentemente preparati almeno dal giorno prima.
Uno era un'intervista a Paolo Mieli, che a quanto pare aveva dato per morto il Venerato Maestro prima ancora che ci lasciasse sul serio.

Tutte le mezze tacche del giornalismo in questi giorni hanno sgomitato per avere la possibilità di scrivere due righe di proprio ricordo, solo per fare capire al lettore che conoscevano bene Enzo Biagi, e quindi sottintendere che sono veri giornalisti anche loro.

Bene, vorrei farlo anch'io su questo blog. Perchè non ho sempre fatto l'avvocato, come alcuni dei nostri venticinque lettori sapranno. Sono stato anch'io un giornalista, quando ero più giovane.
A venticinque anni, appunto, ho lavorato per il Corriere della Sera e poi per l'Europeo (gruppo RCS).

Essendo io giovane, e nemmeno con il contratto da redattore (ma anche se l'avessi avuto avrebbe fatto lo stesso), quando l'Europeo metteva in pagina qualche servizio su argomenti di costume, a volte toccava a me fare il giro delle telefonate ai vari Vip, per chiedere una dichiarazione in materia e poi fare l'articolo con il "pastone" dei vari pareri.

Era un po' una prassi di tutti i periodici, a quell'epoca. E per chi doveva redigerla, uno dei lavori più umilianti che ci siano.

Un giorno salta fuori una notizia che riguardava la bestemmia.
Non ricordo di preciso di cosa si trattasse, forse qualche Vip che aveva bestemmiato in Tv o qualche prete che aveva lanciato iniziative particolari contro la blasfemia.

Allora comincio il giro delle telefonate.
Poichè erano i primi anni '90, faccio prima Vittorio Sgarbi, poi don Baget Bozzo, poi Lina Sotis, poi provo con l'Alba Parietti, e poi con qualcun altro che non ricordo.
Ho sempre avuto in simpatia Sgarbi ed era il mio preferito per queste cose, proprio perchè non solo era il più disponibile, ma era anche bravissimo ad inventarsi su due piedi - senza nemmeno pensarci - una risposta intelligente per una qualunque domanda idiota.

Poi mi passa davanti la caporedattrice che aveva commissionato il pastone e mi chiede: hai chiesto a Biagi? E' un tuo conterraneo e mi pare che sia anche credente.

Ma dove lo vado a pescare, alla Rai? Chiedo io. E lei: vedo se ho il numero, la RCS (cioe' l'editore comune) gli passa un ufficio tutto suo, è probabile che lo trovi li'.

Lo chiamo, devo insistere per farmelo passare, nonostante avessi ben specificato che chiamavo per conto di una testata dello stesso editore che ci pagava tutti, lui, me e la segretaria con cui stavo parlando (non ho detto testualmente così ma quasi), e in questo modo riesco ad avercelo al telefono.

Gli spiego la cosa, e gli faccio capire che consideravo anch'io insopportabile la prassi di quelle dichiarazioni di costume che i settimanali chiedono ai Vip, ma facevo appello al suo senso di solidarietà per un giovane collega, che si trovava costretto dal comune editore a fare il pezzo.
E poi gli avevo chiesto un parere sulla bestemmia, mica di bestemmiare lui.

Mi ha trattato malissimo.

Ora che è morto, mi segnalano l'articolo che segue, di Maurizio Blondet, un giornalista che dalle parti del Filo a Piombo non condividiamo particolarmente su molte cose, ma su qualche altra sì.
Però, se ieri a Pianaccio i suoi compaesani montanari lo hanno salutato con "O Bella Ciao", io - da bolognese di città, appena un po' in collina - vorrei congedarmi da Enzo Biagi con questo articolo.
Salutando le opinioni di Blondet esattamente come i colleghi di Fantozzi salutarono la sua famosa dichiarazione sulla Corazzata Potemkin.

Anche se a qualcuno sembrerà una bestemmia.


Morte del venerato maestro
Maurizio Blondet
08/11/2007

Tutto il coro italico ha cantato le lodi per Enzo Biagi. Nemmeno una stecca, non una nota dissonante. Uomo libero, bravo, buono, eccezionale, santo subito.
Sapete cosa vuol dire?
Che l'Italia non ha preso atto - il solito ritardo culturale - del più grande passo avanti della sociologia italiana dopo Pareto, confermando ancora una volta il disprezzo in cui tiene i suoi scienziati e scopritori.

Intendo parlare della scoperta di Edmondo Berselli, giornalista a tempo perso (su Repubblica, l'Espresso), ma socio-comico di valore assoluto: il quale ha definito le tre categorie in cui si dividono in Italia le personalità di qualche emergenza mediatica, siano intellettuali, artisti, letterati o politici. E' una scoperta fondamentale, pari solo a quella della tripartizione funzionale nelle società arcaiche indo-europee definita da Dumézil. Anche Berselli ha definito una tripartizione che inaugura, di fatto, la nuova sociologia: la «Sociologia delle Mezze Tacche».

Egli divide la società dei salotti che contano in tre categorie ascendenti:1) Belle Promesse 2) Soliti Stronzi 3) Venerati Maestri.
E' uno schema che, come la tavola periodica degli elementi di Mendeleyef, consente di portare un limpido ordine nel caos apparente della società italiota.
Tutto si riduce allo sforzo di passare da Bella Promessa (per un'opera prima o un film) a Venerato Maestro, evitando il passaggio alla categoria 2.
Fate un nome a caso: Nanni Moretti? Bella Promessa, ma già trascolora a Solito Stronzo.
Non sarà mai Venerato Maestro.
Baricco? Bella Promessa ieri, Solito Stronzo in atto. Camilleri? Venerato Maestro, anche se Solito Stronzo a tutto tondo.
Ecco, avete capito lo schema, ora potete applicarlo da soli. Facile e geniale.

Se Berselli non fosse così misconosciuto e la sua Teoria generale della Mezza Tacca fosse più diffusa, oggi ci saremmo risparmiate le lodi più sperticate rivolte al defunto.
Tutti hanno trattato Biagi da Venerabile Maestro, ma sapendo che in realtà era - e ormai da decenni - il Solito Stronzo.
Avidissimo, senza cuore (letteralmente: l'organo era stato sostituito da tubi di teflon, miracolo della cardiochirurgia) e perciò reso un non-morto, recitava da finto buono.
In realtà, era un'azienda, anzi una piantagione sudista: aveva al suo servizio uno stuolo di negri, intesi come giornalisti anonimi che scrivevano i libri suoi. Libri che lui firmava, dopo averci incastonato, manco fossero rubini e perle, qualcuno dei suoi ripetitivi luoghi comuni - una quindicina in tutto - che ne garantivano il successo.Esempio: «Una volta intervistai Heminghway e gli chiesi se era credente. 'A volte, di notte', rispose».

Era lo stile Biagi, e nulla ha più successo presso le dattilografe di un libro che dice quello che già avete sentito mille volte. Il guaio è che Biagi pretendeva di incastonare quei suoi grumi anche nei fondi che esigeva - da Mieli - fossero messi in prima pagina, e sul Corriere.
Imbarazzante: di fatto era sempre lo stesso fondo, un fondo di magazzino risalente agli anni '50 e riciclato come spiegazione di ogni fenomeno avvenuto da allora: fosse la discesa in campo di Berlusconi, l'11 settembre o l'invasione dell'Iraq, saltava sempre fuori la storia di Heminghway.

Ma Biagi doveva essere accontentato. Un uomo potente e bilioso, vendicativo - ci sono redattori del Corriere, costretti a passare i suoi pezzi, che si ricordano ancora coi sudori freddi, come li trattava quando osavano telefonargli per dire che una sua parola non si capiva (scriveva a mano).
Il fatto è che al Corriere era tornato Montanelli, e il buonissimo Biagi non tollerava che Indro andasse in prima, e lui no. Il tipico Solito Stronzo.
Scomparso Montanelli, si placò.Forse anche l'idraulica al teflon cominciava a cedere. Ma ormai era passato alla categoria superiore: il Venerato Maestro.

Il motivo lo sapete: perché Berlusconi lo aveva «cacciato dalla RAI», con quello che nella leggenda passa come «decreto bulgaro». Infatti, come avete sentito tutti fino all'indigestione, l'episodio è stato evocato mille volte: non era più Enzo Biagi il miliardario, era il nuovo Giacomo Matteotti assassinato dai fascisti.
E' infatti la sinistra a decretare quello status: la famosa egemonia culturale.
Persino Montanelli, detestato destrorso bersaglio delle BR, divenne di colpo Venerato Maestro quando cominciò a insultare Berlusconi.

Da anni ormai è questo l'esame decisivo che apre la porta del mausoleo ideale (ricalcato su quello che a Mosca conserva il pupazzetto dipinto di Lenin): essere contro Berlusconi, avergli tirato dei colpi bassi.
Ciampi il banchiere è Venerato Maestro. La Levi Montalcini, Venerata Maestra. Il professor Veronesi, il chirurgo dei ricchi? Venerato Maestro da quando si prospetta una sua entrata in un qualunque governo di sinistra.
Persino la mummia di Andreotti, l'ex Belzebù, è sul punto di assurgere a Venerato Maestro, da quando vota come senatore a vita tenendo in vita Teflon Prodi.

Naturalmente ci sono dei limiti all'egemonia culturale e al suo potere: benchè votino come si deve, un paio di senatori a vita come Emilio Colombo Cocaina e Oscar Luigi Scalfaro l'ipocrita, come Venerati Maestri sono improponibili.
La loro natura di Solito Stronzo è troppo evidente ad occhio nudo.Quanto a Cossiga, le sinistre hanno aggiunto troppe K nel suo nome odiato («Kossiga» con le due SS runiche) per poterlo promuovere. Inoltre, è troppo imprevedibile: il Venerato Maestro deve avere soprattutto una qualità: restare immobile e muto nella gloria che lo circonfonde, appunto come Lenin nel mausoleo.

Vi sono stati altri tempi, in cui - come ricorda Berselli nella sua opera fondamentale («Venerati Maestri - Operetta immorale sugli intelligenti d'Italia», Mondadori) - il potere dell'egemonia culturale non aveva questi limiti.
Norberto Bobbio era una nullità morale e intellettuale palese (un solo libro di Marcello Veneziani, per dire, lo supera di una ventina di volte), ma si riuscì ancora a farne un Venerato Maestro.
E Alberto Moravia?Qualche romanzo potabile all'inizio (nello stato di Bella Promessa) e poi un'incresciosa longevità come banalissimo Solito Stronzo, sfiatato, banale, consunto da quella sua lubricità decrepita.
Eppure rimase Venerato Maestro fino all'ultimo respiro. Era il dittatore delle lettere italiote.
Non si poteva non intervistarlo in ginocchio, chiedere il suo parere con infinito rispetto. E pagargli parcelle colossali per i suoi responsi o collaborazioni all'Espresso.

S'intende che da quando è morto, l'intera opera letteraria di Moravia è caduta nel dimenticatoio, la sua stessa memoria è cancellata: con sollievo, anche a sinistra si sa che non è più necessario citare né leggere quel Solito Stronzo. Lo stesso è accaduto a Bobbio: già due mesi dopo il trapasso nessuno lo citava più. Chiuso. Fine.
E' servito finchè è servito, l'abbiamo dovuto sopportare: si passi ad altro.

Bisogna dire che questa fabbrica di glorie, il PCI l'ha ereditata dalla solida tradizione italiana massonico-risorgimentale. Benedetto Croce (1866-1952) fu il più ingombrante Venerato Maestro della sua epoca, per mezzo secolo. Persino Antonio Gramsci - che come pensatore era più vispo - dovette fare i conti con la cosiddetta «ipoteca crociana», persino Togliatti.
Non c'era scampo: per un secolo, o si era crociani o anti-crociani. In cosa consistesse l'ipoteca crociana è un mistero, che non vale la pena di rivelare ai più giovani, perché tale ipoteca è scomparsa senza lasciar traccia.
Faccio solo notare che in Europa, i filosofi coetanei o di poco posteriori non hanno mai sentito il bisogno di citare Croce una volta: e parlo di Ortega y Gasset (1883-1956), di Heidegger (1889-1976), di Von Hayek (1899-1992) e von Mises (1881-1973).
Tutti costoro non sentirono mai il bisogno di confrontare il loro pensiero con quello di Croce, né di ricavare da lui - sia pure per contrastarlo - qualche apporto intellettuale.
E sì che per decenni Croce si catalogò come «filosofo del liberalismo»: almeno von Mises ed Hayek, che del liberalismo sono i padri, avrebbero dovuto accorgersene.

Un motivo ci sarà.In Europa si sapeva benissimo che Croce era un onorato Solito Stronzo, riciclatore infinito di un hegelismo di seconda mano, liberale per nulla.
Solo in Italia l'ipoteca crociana rimase «incontournable», un macigno sulla strada con cui «si dovevano fare i conti» e da infliggere come «filosofia italiana» unica a generazioni di liceali insieme a Carducci (altro Venerato Maestro oggi perfettamente contournable).
Per dire, era in circolazione allora Vilfredo Pareto, e ancora oggi lo si legge, si trova citato all'estero. Ma lui non divenne mai un Venerato Maestro - non era utilizzabile a sinistra come utile idiota, né recuperabile come «eredità paretiana» troppo elitaria - e dovette andare a insegnare in Svizzera.

Perché questo è l'effetto della creazione italiota di Venerati Maestri, bloccare le idee, le ricerche e le personalità nuove, irrigidire la celebrata «cultura italiana» nel déjà vu e nella laica liturgia santificante. Serve a mummificare in alto, e a sopprimere e soffocare di sotto, a troncare la discussione pubblica.
Solo quando Atropo taglia il filo della vita di un Venerato Maestro - di solito dotato di deplorevole salute senile, cosa non rara tra i fannulloni pantofolai - si respira per un po' e si comincia a curiosare delle novità estere da recuperare fuori tempo massimo: che so, Cèline, Dumézil appunto, Carl Schmitt…
Ma subito viene creato un altro Venerato Maestro, e si torna sotto il tallone dell'Accademia dei panzoni, quella che Leopardi chiamò «Lega dei Birbanti», ossia in italiano moderno la comunella dei farabutti intellettuali di potere.

A volte, la mummificazione è avvenuta con rapidità miracolosa.Piero Gobetti, liberale giacobino autoritario piemontese (solo da noi i liberali erano autoritari) passò dalla condizione di Bella Promessa a quella di Venerabile Maestro a 25 anni, età a in cui dei fascisti lo bastonarono a morte, poveretto.
Norberto Bobbio ha campato alla grande come «erede di Gobetti», dato che il poveretto non era più in grado di diseredarlo. Quella eredità massonica risorgimentale funziona ancora mica male.
Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e Solito Stronzo fin dai suoi esordi nel giornalismo sciacallesco, è riuscito a farsi Venerato Maestro da solo, grazie ai suoi sproloqui interminabili con cui riempie la prima, ma anche le pagine interne di Repubblica, dove talora si degna di dare alcuni consigli a Dio.
E Venerato Maestro lo è, ma solo per i terrorizzati redattori del suo giornale, costretti per dovere d'ufficio ad arrivare fino in fondo ai suoi chilometrici rigaggi, e a reprimere il sibilo: «Il Solito Stronzo».

Bella forza però, il giornale è suo, e possiede pure un 200 miliardi e passa di patrimonio.
Ferrara è già Venerato Maestro, almeno per una scolta di cattolici tradizionalisti, che lo ingaggiano per farsi recitare le sue omelie contro l'Islamofascismo, ma sappiamo chi lo spalleggia. Oggi, mentre impera il comunismo nella forma debole e in TV, la creazione di Venerati Maestri diventa insieme più veloce ma più superficiale: effetto dell'età della riproduzione tecnica e del lavoro a catena.
Roberto Benigni, che ha fatto sempre ridere poco e ha terminato le sue quattro battutacce da Fiera del Bovino Maremmano, è già sul punto di diventare Venerato Maestro.
Non glielo si può negare, ha voluto bene a Berlinguer.Inoltre il furbastro s'è messo a recitare Dante: colpo basso ben noto all'avanspettacolo anni '30, quando se il comico incassava troppi fischi, l'impresario faceva entrare la soubrette avvolta nuda nel tricolore a cantare «Adua è liberata», e giù applausi.
Il guaio è che Benigni spiega Dante come se Dante fosse lui: è da lì che si vede che è rimasto il Solito Stronzo.

Ma la sinistra s'accontenta. Per esempio, guardate Fassino.
L'Unione Europea lo manda a fare lo «special envoy» per la Birmania. E', guarda caso, lo stesso tipo di posto (solo un po' più basso) dato dai poteri globali a Tony Blair, ora capo del Quartetto per la Palestina.
E' un premio che si dà per servizi resi a scapito del proprio futuro: a Blair, perché dopo l'Iraq in Inghilterra nessuno lo voterà mai più, a Fassino, per aver consegnato l'elettorato del PCI - elettori robotici, sicuri, automatici - all'ammasso globale dei «partiti democratici» che anche da noi si stanno creando onde scontrarsi per finta con lo speculare «partito conservatore».
Ma quella sinecura è anche una pista di lancio per future carriere: guardate Al Gore, sembrava finito, ed è saltato su come Venerato.

Dipende da Fassino. Può diventare una «riserva della repubblica» come Amato, da mettere al governo quando servirà a Goldman Sachs, oppure - se insenilisce abbastanza - Venerato Maestro, a suo tempo però.
Oppure guardate Veltroni: Bella Promessa praticamente dalla nascita e in piena carriera. Se riesce a sopravvivere ai tenaci sforzi di Prodi e dei suoi dossettiani di trasformarlo subito nel Solito Stronzo, un giorno diverrà sicuramente - appena lo benedirà l'arteriosclerosi - un Venerato Maestro, e potrà recensire i film da cineforum su L'Espresso.
Ma non si può non vedere che la sua posizione è altamente rischiosa: già va troppo in TV a difendersi, già è troppo cortese verso Casini, il Solito Stronzo.

Effettivamente c'è il rischio che la fabbrica giri troppo vorticosamente, e quindi a vuoto. Fabio Fazio l'anonimo in carriera garantita, nel programma consegnatogli dal Partito, intervista solo Venerati Maestri in servizio o in riserva. Biagi l'ha intervistato, ed ora chi resta?
Anche per questo forse il pianto è stato così corale: dove sei, Venerato Maestro? Ora ci restano solo Gino Strada e il giudice Caselli.

E' dura.

Maurizio Blondet

26 ottobre 2007

Forza Italia e i suoi marchesi

Avremmo una domanda per l’onorevole Sandro Bondi, coordinatore nazionale di Forza Italia: perché lo statuto del partito introduce differenze settecentesche fra i soci quando costoro sono chiamati a votare in uno dei congressi locali che si stanno celebrando su tutto il territorio nazionale?

Traduciamo. Se vi capita di essere iscritti al partito, al momento delle assise congressuali sappiate che il vostro voto non ha lo stesso peso di quello espresso da qualche esponente con cariche elettive negli enti locali. Insomma: il consigliere comunale, per esempio, vale cinque volte la vostra preferenza, il consigliere regionale addirittura venticinque. Che è come dire che il primo viene ritenuto cinque volte più intelligente di voi a prescindere e il secondo, sempre a prescindere, venticinque volte.

Ora, c’è qualcosa che ci sfugge. Se stessimo parlando di un qualche partito di canuti nostalgici della Real Casa, o addirittura del Re Sole, non avremmo nessun problema a ritenere del tutto normale quella norma: sarebbe in linea con l’idea di fondo che richiama da vicino la famosa massima del marchese del Grillo: “Io so’ io e voi nun siete un c…”. E di conseguenza nella scala gerarchica del partito, più sei vicino alla vetta e più conti perché significa che sei gradito al Signore tuo Dio. Il punto è che Forza Italia, fin dal momento della sua fondazione, è stata presentata e si è affermata come formazione catalizzatrice di tutti i liberali autentici, escludendo pertanto quelli di risulta o camuffati. Per la verità, qualcuno pure di questi.

Ma lasciamo perdere. Resta il fatto che uno statuto inquinato da pratiche asburgiche offre la sgradevole sensazione di un partito che mentre predica all’esterno libertà e democrazia, poi quando si tratta di mettere ordine in casa propria decide di ricorrere ad altri metodi, un po’ più spicci. Anche perché diffondere la mentalità dell’oligarca fa correre serissimi rischi alla credibilità che il semplice socio riconosce nel partito.

Senza contare episodi che si rivelano un vero e proprio schiaffo in faccia al principio che a governare deve essere la maggioranza. Al congresso cittadino di Bologna, per esempio, lo sfidante aveva vinto la competizione contro il coordinatore uscente. Risultato? Quest’ultimo è stato riconfermato grazie ai suffragi giunti da una larga parte degli eletti. Insomma, chi guida il partito sotto le Due Torri lo fa avendo contro più della metà dei voti della base. Legittimo: lo prevede lo statuto. Ma questo è funzionale a rendere Forza Italia più solida e “attraente”? Noi abbiamo molti dubbi.

A dir la verità, forse una certa coerenza c’è. Non è un caso che quando torna in discussione la legge elettorale, da Forza Italia giunga sempre puntuale lo stop alla reintroduzione delle preferenze. Come dire: lasciate decidere a noi da Roma chi è meritevole di essere eletto al Parlamento e chi no. Così come a livello locale si lascia nelle mani di pochi il diritto di appoggiare la spada sulla spalla del prescelto che in questo modo viene decretato cavaliere. E poi ti soprendi se l’unico e inimatibile Cavaliere vuole disfarsi della sua creatura?

Graziano Girotti
(L'Opinione, 26 ottobre 2007)

24 ottobre 2007

La campagna razzista della Regione Toscana

E’ ufficiale, sono razzisti.
Lo sono i responsabili della Regione Toscana, e quelli del Ministero delle Pari Opportunità che hanno patrocinato l’iniziativa, che oltretutto è stata pagata con soldi pubblici, e quindi nostri.

L’immagine del neonato con il braccialetto che lo cataloga come gay – oltretutto sinistramente evocativa delle campagne naziste sull’eugenetica, e della loro abitudine di marchiare con un distintivo ebrei, zingari e appunto omosessuali – non può avere altra spiegazione.
Del resto, lo dice anche lo slogan che appare sul fotomontaggio: “l’orientamento sessuale non è una scelta”.
Sono razzisti, e adesso spieghiamo il perchè anche se dovrebbe essere evidente, almeno a quelli che non hanno la capacità di intendere completamente obnubilata dal politicamente corretto.

Se l’omosessualità non è una condizione che si possa scegliere, in quanto ci si ritroverebbe così fin dalla nascita, che altro può essere se non un fattore genetico? Noi non vediamo altre interpretazioni possibili: secondo la Regione Toscana e il ministero della sig.ra Pollastrini dovrebbe essere impossibile uscire da questo destino binario che ci accomunerebbe tutti.
Saremmo dunque tutti etero o gay, esattamente come tutti siamo maschi o femmine, bianchi o colored, alti o bassi.

Magari per lorsignori non avviene la stessa cosa quanto al fatto di essere magri o grassi, in quanto altrimenti non ce la starebbero scassando così tanto con le loro campagne salutiste. Anche se, per quanto ne sapevamo, finora non era affatto strano sentir dire che anche l’obesità ha una matrice genetica, e nessuno se ne era mai scandalizzato.

Ci rimangono però molti dubbi.
Ammettiamo per un attimo che questa idea sull’omosessualità, peraltro non nuova, ma che ora viene rilanciata alla grande da parte di lorsignori, sia vera.
Se le cose stanno davvero così, allora cosa ci impedisce di considerare geneticamente innati anche altri aspetti della personalità, come ad esempio – vediamo, così a caso – l’intelligenza, la propensione a delinquere, o anche solo il fatto di avere idee di destra o di sinistra?

D’altronde, il fatto stesso di aver votato per Berlusconi era già stato definito da altri intellettuali del medesimo giro di quelli della Regione Toscana come il segno di una “diversità antropologica”. Quindi, nemmeno il fatto che lorsignori siano razzisti a ben vedere è una novità, e anzi può darsi che pure questo aspetto del loro modo di essere derivi dal loro corredo genetico sinistroide.
Anzi, può anche darsi che i compagni toscani si siano improvvisamente accorti che James Watson – lo scopritore del Dna, che recentemente ha preso posizione su una pretesa derivazione genetica del livello di intelligenza dei negri – in fondo non avesse tutti i torti.

Comunque, non sarebbe nemmeno quello il problema. Prendiamo atto che loro la pensano così.
Ma allora, di che si lamentano? Di che si lamenta la Rita Levi Montalcini, che ha paragonato James Watson a Storace proprio per dare dei razzisti ad entrambi?
Del resto l’esimio scienziato e premio Nobel – lui, sia chiaro, non l’ex governatore del Lazio – tempo fa si era distinto proprio per avere espresso opinioni simili sulle donne. Non vediamo dunque per quale motivo, visto che adesso i sinistri del nuovo Pd sembrano pensarla allo stesso modo rispetto agli omosessuali, in certe occasioni continuino a fare tanto casino.

Oltretutto, tempo fa, anche sul versante destro della blogosfera italiana era sorta una feroce polemica contro un numero del “Domenicale”, che era stato (falsamente) accusato di aver addirittura sostenuto che l’omosessualità sarebbe una malattia.
Ci spieghino dunque questi nostri amici di parte politica, e dunque, a quanto pare, forse anche di condizione genetica: se l’orientamento sessuale non è una scelta – lo dice quello stesso manifesto – dal momento che quando si è gay lo si è fin dalla culla, come suggerisce il braccialetto, cosa ci impedisce di considerare l’omosessualità alla stessa stregua, diciamolo sempre per fare un esempio, della sindrome di Down?
Okay, ci rendiamo conto che può essere discutibile che sia una malattia anche quella. Però, quando a qualcuno scappa detta una simile affermazione, di solito non succede niente.

In ogni caso, in realtà, sappiate che non esiste nessuno studio scientifico serio che possa dimostrare la natura genetica della propensione verso l’omosessualità. Non esiste nulla di nulla di questo genere, anche se viene dato per scontato da molti, cari razzisti del piffero.
E semmai si dovesse un giorno arrivare a conclusioni del genere, sarà per lo stesso motivo per cui James Watson già oggi sembra pensare che un giorno – una volta definita la mappatura del Dna umano – sarà possibile dimostrare che i bianchi sarebbero (almeno mediamente) più intelligenti dei neri.

Comunque, anche quando ciò dovesse succedere – si dice tra una decina d’anni o giù di lì – noi non avremo avuto alcun bisogno dei progressi della genetica per concludere che quelli di sinistra sono, almeno nella media, più razzisti degli altri. E anche più imbecilli.
Infatti, a dire il vero, ce ne eravamo accorti già da molto tempo.

20 ottobre 2007

La frode di Rigoberta Menchù


Dopo il crollo del comunismo la sinistra occidentale è riuscita a conservare la propria egemonia culturale riconvertendosi dal marxismo al multiculturalismo. La sinistra multiculturalista non concentra più le sue critiche sulle strutture economiche della società capitalistica, come prescriveva il marxismo classico. Quasi nessuno oggi ha più il coraggio di chiedere l’abolizione della proprietà privata o la collettivizzazione dei mezzi di produzione. L’attacco prende invece di mira invece le “sovrastrutture” culturali della società, secondo la lezione di Antonio Gramsci e della Scuola di Francoforte.

Dietro una facciata relativista, il multiculturalismo combatte tutto ciò che appartiene al passato storico dell’Europa. Quest’odio profondo per il nostro retaggio religioso e culturale, motivato da un intenso sentimento di rivalsa, si manifesta con l’esaltazione acritica di tutte le culture estranee all’Occidente, comprese le più aberranti, e con il desiderio frenetico di ripopolare il vecchio continente con immigrati extraeuropei anche apertamente ostili.

Questa premessa serve a spiegare il senso di una delle operazioni propagandistiche più riuscite alla sinistra internazionale negli ultimi decenni: la creazione del mito di Rigoberta Menchú, l’indigena guatemalteca di etnia maya vincitrice nel 1992, a soli trentatre anni, del premio Nobel per la Pace. La fama della Menchú si deve al libro di memorie scritto nel 1983 dall’antropologa Elisabeth Burgos Debray, l’ex moglie del famoso rivoluzionario francese Régis Debray, la quale nel 1982 trascorse otto giorni nel suo appartamento parigino sollecitando e registrando il lungo racconto di Rigoberta (l’edizione italiana, pubblicata dalla casa editrice Giunti di Firenze con il titolo Mi chiamo Rigoberta Menchú, è del 1987).

Il successo nelle librerie, nelle scuole e nelle università fu immediato, e fece della Menchú il simbolo degli indigeni dell’emisfero occidentale depredati e oppressi dai conquistatori europei. Come povera donna indios, la Menchú era un’icona perfetta del multiculturalismo perché riassumeva in sé tutte le caratteristiche più apprezzate dalle ideologie alla moda tra gli intellettuali progressisti.

Verso la metà degli anni Novanta cominciarono però a sorgere i primi dubbi sulla veridicità del suo racconto, anche perché sembrava strano che una contadina illetterata dell’America Centrale usasse con tanta disinvoltura il tipico frasario marxista dei radical-chic occidentali. L’antropologo americano David Stoll fece delle accurate verifiche sul campo e nel 1999 pubblicò i risultati delle sue ricerche, che smascheravano cumuli di menzogne presenti nella testimonianza della Menchú.

L’editore e giornalista libertario Leonardo Facco, esperto del mondo latinoamericano, ripercorre i retroscena di questo clamoroso inganno in un libro agile ed efficace appena pubblicato dall’editore Rubbettino di Soveria Mannelli: Si chiama Rigoberta Menchú. Un controverso premio Nobel (78 pp., € 10,00). La famiglia della Menchú, ricorda Facco, non era affatto povera, perché suo padre possedeva quasi tremila ettari di terra coltivabile; le dispute per questo terreno non nascevano dai tentativi di esproprio da parte dei ricchi proprietari terrieri discendenti dei conquistadores, ma da squallide beghe famigliari; suo padre non venne bruciato vivo dai militari all’interno dell’ambasciata di Spagna, ma rimase vittima di un incendio causato dalle bottiglie molotov dei dimostranti; anche le uccisioni della madre, di tre fratelli e del nipotino compiute dalla polizia sono un’invenzione; la Menchú sostiene di essere rimasta analfabeta fino all’età adulta, ma risulta che abbia frequentato per otto mesi all’anno un ottimo collegio religioso privato; questo fatto rendeva impossibile la sua partecipazione alle attività politiche e insurrezionali descritte nel libro.

Non c’è da meravigliarsi che in Guatemala la Menchú non sia mai stata popolare come all’estero. I suoi concittadini sanno benissimo che le storie che racconta al pubblico occidentale sono piene di falsità e di esagerazioni. Alle recenti elezioni presidenziali, che si sono svolte il 9 Settembre 2007, la “portavoce del popolo oppresso” ha rimediato infatti un misero 3,05 % dei voti, nel silenzio imbarazzato degli organi d’informazione che hanno cercato di dare il minor risalto possibile alla notizia.

La Menchú si difende dalle denunce di frode accusando David Stoll di “razzismo”, rispondendo elusivamente a tutte le obiezioni specifiche, e contestando la trascrizione di Elisabeth Burgos, con la quale è in lite per i diritti d’autore del libro. Gli intellettuali di sinistra continuano ad esaltarla perché “qualche inesattezza nel racconto non inficia la bontà della sua causa”, e il comitato per il Nobel si è rifiutato di ritirarle il premio. Come scrive Romano Bracalini nella prefazione del libro di Leonardo Facco, la menzogna è sempre stata un portato della dottrina totalitaria ed il comunismo ne ha fatta un’arte insuperata. Rigoberta Menchú viene dalla medesima scuola d’impostura.

Guglielmo Piombini

(Il Domenicale, 20 ottobre 2007)

15 ottobre 2007

L'Ici nella Finanziaria 2008: nuova aggressione al padre di famiglia

Dal blog: Studio legale Fiorin

E’ difficile commentare già ora la Finanziaria 2008, vista la debolezza politica del governo Prodi nei confronti delle istanze dell’estrema sinistra.

Proprio in questi giorni tale debolezza – che già è costata al Paese somme enormi, in termini di spesa pubblica e quindi di pressione sui contribuenti – si è manifestata per l’ennesima volta con le modifiche unilaterali proposte dall’esecutivo sul cosiddetto “pacchetto welfare”.
Con ogni probabilità, dunque, il disegno della legge finanziaria verrà stravolto più volte durante il cammino parlamentare, soprattutto per quanto riguarda le pur scarse promesse di tregua fiscale.

Già ora, tuttavia, a leggere i progetti del governo si profila una nuova aggressione nei confronti delle famiglie, e in particolare di quelle che vivono del lavoro di un padre.
Infatti, ricorderete che da parte del Ministro dell’economia era stato inizialmente promesso a tutti i cittadini – per venire incontro alle pressioni dei “moderati” della compagine governativa – un aumento della detrazione già ora applicabile sull’Ici gravante sulla prima casa. Quest’ultima sarebbe pertanto dovuta passare ad un massimo di 290 euro.

Il tentativo di Padoa Schioppa era chiaramente quello di indorare la pillola della probabile imminente nuova revisione degli estimi catastali, e quindi della nuova stangata patrimoniale sui proprietari di immobili.
Un tentativo maldestro e micragnoso, non solo in quanto non ne è mai stata ben definita l’entità, ma soprattutto in quanto il presunto sgravio dovrebbe essere modulato sulla base del reddito dei proprietari.

L’esperienza della finanziaria precedente ci insegna che è proprio in questi demagogici tentativi di agganciare le riduzioni di imposta al reddito del singolo (tantopiù se si tratta, come nella fattispecie, di un’imposta patrimoniale) che si nasconde la fregatura per le famiglie.
Anche stavolta, infatti, pare che la prima tipologia di contribuente che verrà sbeffeggiata dal progetto governativo sarà quella del padre di famiglia, e ancor più quella del padre separato.

Ciò in quanto, almeno stando a quel che si è appreso fino ad ora, la detrazione dovrebbe spettare solo ai proprietari di prima casa con redditi inferiori a 50 mila euro annui, senza tenere in minima considerazione il loro stato di famiglia.
Così, un padre che mantiene una più o meno numerosa prole il più delle volte sarà escluso dalla detrazione. Infatti, nella realtà sociale che il Ministro dell’economia ha più volte dimostrato di ignorare, è assai difficile che un contribuente di questo tipo possa permettersi un reddito inferiore, specie se – oltre all’onere del mantenimento dei figli più o meno “bamboccioni” – si è assunto anche quello di tenere a casa la moglie.

Solo se la fiducia di un simile nucleo familiare nei confronti del futuro, al tempo dell’acquisto della prima casa, fosse arrivata al punto tale di cointestarsi la stessa tra i due coniugi, la nuova detrazione si potrà applicare. Ma solo sul 50% di proprietà della moglie casalinga.
Nel caso che invece la signora lavori anch’essa fuori casa, magari grazie al fatto di non avere figli piccoli da accudire, l’aumento di detrazione si potrà applicare per intero e sul reddito di entrambi.
Ciò anche se le entrate familiari complessive dovessero superare di gran lunga i 50 mila euro, come avviene nella maggioranza delle famiglie dove i coniugi lavorano tutti e due, purchè tale soglia reddituale non sia oltrepassata da ciascuno dei proprietari dell’abitazione, considerato singolarmente.

La beffa dunque sarà ancora una volta a carico delle famiglie monoreddito, e ancor più di quelle numerose, le stesse che già erano state pesantemente penalizzate dalla Finanziaria 2007.
Oltre a ciò, si consideri che questi contribuenti già sono storicamente gravati dal fattore per cui l’Ici, di fatto, viene calcolata sulle dimensioni dell’abitazione, che nel loro caso è solitamente più grande di quella delle coppie senza figli o con un figlio solo, e ancor più degli appartamenti dei singles, senza che questo dipenda da una particolare propensione al lusso dei loro allegri e numerosi nuclei familiari.

Ma anche i padri separati non hanno di che stare allegri: se, come in realtà accade nella gran parte delle situazioni, l’abitazione familiare era stata assegnata da parte del Tribunale alla loro moglie e ai figli minori, la nuova detrazione spetterà solo a quest’ultima, indipendentemente dalla proprietà dell’immobile. Il caso infatti è stato espressamente previsto in questi termini nel progetto del governo.

Vale a dire che, anche qualora l’abitazione familiare fosse cointestata ai due coniugi separati, la moglie assegnataria pagherà l’Ici al 50%, ma godendo per se stessa dell’intera detrazione.
Invece, il padre che è dovuto uscire di casa al momento della separazione dovrà pagare per intero l’Ici sul suo residuo 50%, senza godere per nulla dell'aumento di detrazione. Ciò anche se il suo reddito fosse inferiore ai fatidici 50 mila euro annui.

Infatti, in queste ultime situazioni si deve presumere che l’abitazione dove continuano a vivere moglie e figli non sia più la “prima casa” del padre separato. Nonostante che il resto della sua ex-famiglia continui ad usufruirne, di solito grazie anche ai suoi assegni di mantenimento.
Inoltre, come da noi denunciato a suo tempo in questo blog, già con la scorsa Finanziaria 2007 i predetti assegni erano diventati indeducibili per il coniuge erogante, in un gran numero di casi.

Rosy Bindi, sedicente ministra per la famiglia, dovrebbe avere di che riflettere su questi dati, visto che le maggiori pressioni per un aumento degli sgravi sull’Ici provenivano oltretutto da quello che, almeno prima della nascita del PD, era proprio il suo partito.
Ma probabilmente la ministra non lo farà, visto che ha più volte dichiarato apertamente di essere contraria a favorire le famiglie monoreddito, in quanto nelle stesse - per definizione - la moglie non lavora, e questo a suo dire è un retaggio del passato da superare.

Ancora una volta, spetterà quindi alle famiglie “vere” che abitano il nostro Paese – che nella stragrande maggioranza dei casi sono proprietarie della casa dove vivono, e di questi tempi già faticano non poco ad affrontare la crescita dei tassi sui mutui – fare sapere al ministro Bindi, e a tutto il governo, che ne pensano della loro politica fiscale.
Sperando che ve ne sia occasione presto, o meglio prima che sia troppo tardi.

13 ottobre 2007

Il 20 ottobre va in piazza la sinistra reazionaria

Dopo la vittoria del sì al referendum tra i lavoratori sul protocollo del welfare, il 20 ottobre si annuncia come l’ennesima data molto importante nei delicati equilibri all’interno della sinistra. Per quel giorno, infatti, è in programma una grande manifestazione dell’ala più antagonista dell’Unione sui temi dello stato sociale e del precariato. Ma in mattinata, sempre nella capitale, è previsto un altro appuntamento. Il convegno organizzato dall’associazione Giovane Italia, presieduta da Stefania Craxi, dedicata al filo conduttore che lega il pacchetto Treu alla legge Biagi: “come dare valore al lavoro”. Con il professor Giuliano Cazzola, noto economista ed editorialista di diverse testate, che introdurrà i lavori, abbiamo fatto il punto della situazione.

Intanto, professore, ci illustra le ragioni della vostra iniziativa, che peraltro vedrà la presenza di studiosi e politici di alto livello?
“L'idea è nata per mettere in campo in quel giorno un'iniziativa alternativa a quella della sinistra reazionaria. Certo, la loro sarà una prova di forza molto superiore alla nostra. Loro si giocano una partita all'interno della sinistra. Hanno risorse, appoggi sindacali. Loro esibiranno i muscoli. Noi
cercheremo di usare il cervello. E saremo il punto di riferimento di gran parte di quelle forze politiche e sindacali che, a prescindere dallo schieramento di appartenza, stanno dalla parte dell'innovazione e del cambiamento del mercato del lavoro. Noi difenderemo tutta la legislazione
innovativa: dal Pacchetto Treu del 1997 alla legge Biagi del 2003”.

Ormai “precariato” è diventata una parola d’ordine, uno slogan quasi sempre usato a sproposito. Ma chi sono oggi i veri precari? E soprattutto quali sono le responsabilità della legge Biagi su questo terreno?
“A considerare le statistiche la parte più consistente è quella del lavoro dipendente a termine che nel 2006 erano 2.222.000 (2.300.000 circa nel 2007). I Contratti a termine sono regolati da un decreto legislativo del 2001 che ha recepito, attraverso un avviso comune delle parti sociali, una
direttiva europea. La legge Biagi non ha quindi nessuna responsabilità. Il medesimo rilievo vale per le collaborazioni (stimate in 404.000). La legge Biagi ha cercato di colpire le collaborazioni fasulle, stabilendo che esse siano trasformate in contratti a tempo indeterminato. Poi ci sono i prestatori occasionali (93.000) e gli autonomi con partita IVA (365.000). In Italia gli occupati sono quasi 23 milioni. A proposito di parole d’ordine, a volte assistiamo a vere e proprie scivolate…”.

Vale a dire?
“In un documento che possiedo si legge che il SIM (Stato imperialista delle multinazionali) è caratterizzato da: a) una diminuzione continua di salariati con occupazione stabile; b) un aumento dell'esercito di riserva cioè salariati privi di occupazione stabile; c) un aumento di emarginati. Si tratta di un documento dell'aprile 1975 elaborato dalla Direzione strategica delle Br. Scusandoci per l'evidente forzatura, (absit iniuria verbis) confrontiamo tale analisi con un'altra assai più recente, di soli pochi anni fa: il mercato del lavoro - si dice - è caratterizzato da: "una condizione di precarietà nel lavoro che genera precarietà sociale; una riduzione della coesione sociale e un aumento dell'illegalità; un impoverimento del lavoro dipendente privato e delle pubbliche amministrazioni; un depauperamento delle competenze e delle professionalità; una riduzione degli strumenti e dei luoghi del sapere e della formazione strettamente connessi ad un lavoro di qualità". E' la tesi n. 5 dell'ultimo Congresso della Cgil. Analisi simili e considerazioni analoghe si trovano anche nel mega-programma dell'Unione, quella summa di sciagure che è evocata quotidianamente dalla sinistra reazionaria per mettere in grave imbarazzo le componenti in doppiopetto e moderate della maggioranza. Il trait d'union è il precariato, una problematica che lo stesso Walter Veltroni (che pur ha avuto un atteggiamento corretto nei confronti di Biagi e della legge che porta il suo nome), ha dovuto assumere nel suo discorso d'investitura, indicando nella lotta al precariato il principale terreno d'impegno del Partito democratico. Ma la sinistra, anche nelle sue componenti più moderate, paga - sono parole di Nicola Rossi - nella passata legislatura. L'enfasi posta per motivi elettorali sul fenomeno del c.d. precariato, allo scopo di sfruttare le incertezze insite in ogni fase di transizione, ha finito per trasformare in una grande questione nazionale un problema importante e serio del mercato del lavoro, comune a tutti i paesi europei e legato a cambiamenti di carattere strutturale dell'economia, un problema tutto sommato riguardante però una minoranza della forza lavoro. A determinare questa situazione ha concorso una campagna mediatica forsennata, abilmente orchestrata dai corifei della sinistra. Tanto che di occupazione (per definizione sempre ) ormai si discute agitando luoghi comuni come una clava, sparando numeri a casaccio sulle dimensioni del precariato ed incolpando la più recente legislazione del lavoro (la legge Biagi in particolare) di ogni possibile nefandezza”.

Quale valutazione dà del governo Prodi sul tema delle politiche per il lavoro, anche alla luce della Finanziaria 2008?
“E' un discorso sospeso. Bisogna vedere come finirà la vicenda dell'accordo del 23 luglio che - pur sbagliando in molti aspetti - non stravolge le legge Biagi”.

Da osservatore della politica, crede a una possibile imminente caduta del governo proprio sulla manovra appena approvata?
“Me lo auguro. Ma credo che questo governo avrà vita più lunga. Del resto l'opposizione è fortissima ma afona e inadeguata. Berlusconi si limita a citare dei sondaggi e ad annunciare passaggi di campo dalla maggioranza. Il centro destra ipotizza uno show down nei prossimi mesi ma fa molto poco per dare la spallata nelle piazze e in Parlamento”.

Graziano Girotti
(L'Opinione, 12 ottobre 2007)

L'epitaffio per l'Europa di Walter Laqueur

La denatalità associata all’immigrazione fuori controllo potrebbe segnare la fine della civiltà europea, avverte lo storico Walter Laqueur, autore di fondamentali studi sull’Europa del dopoguerra, l’antisemitismo e il terrorismo, nel suo nuovo libro The Last Days of Europe: Epitaph for an Old Continent, appena pubblicato dalla casa editrice Thomas Dunne di New York (p. 256, $ 25,95). In questo suo amaro epitaffio sul destino del vecchio continente, Laqueur spiega che la persistente stagnazione dell’economia, il prolungato calo delle nascite e la mancata integrazione dell’immigrazione musulmana rappresentano i sintomi di una grave crisi, che potrebbe mettere a rischio l’identità storica del vecchio continente.


Un’analisi di questo genere sarebbe apparsa, fino a pochi anni fa, come una provocazione. All’inizio del nuovo millennio gli intellettuali più ascoltati indicavano nell’Europa la potenza guida del XXI secolo. L’Unione Europea, secondo questa visione, avrebbe assunto la leadership mondiale non con la forza militare, ma grazie al “potere trasformativo” del suo superiore sistema sociale, che il resto del mondo avrebbe imitato. Molti studiosi americani, come Jeremy Rifkin, Paul Krugman, Charles Kupchan, Tony Judt o Mark Leonard (quest’ultimo autore nel 2005 di un libro intitolato proprio Why Europe Will Run the 21st Century) esortavano gli Stati Uniti a correggere i propri difetti prendendo l’Unione Europea come modello.


Questa opinione era condivisa dalla maggioranza dei dirigenti politici europei. Nel marzo del 2000 i primi ministri dei governi europei si incontrarono a Lisbona per discutere delle strategie per i prossimi dieci anni. Il consenso generale era che l’Europa sarebbe diventata l’economia più competitiva e dinamica del mondo. Fra tante previsioni trionfalistiche, non venne detta una parola sulla grave situazione demografica e sulle tensioni crescenti con le comunità dei musulmani immigrati.


Walter Laqueur si chiede come siano potute nascere quelle allucinazioni. Col passar del tempo il welfare state europeo è diventato sempre più costoso, la tassazione sempre più elevata, l’economia sempre più regolamentata. L’invecchiamento della popolazione e il calo della forza-lavoro giovanile suonano come una condanna a morte per il gravoso sistema assistenziale europeo. Oggi appare chiaro che l’Europa non ha alcuna possibilità di competere con gli Stati Uniti sul piano economico o geopolitico, e che fatica persino a reggere la concorrenza della Cina e dell’India.


Fin dalla fine degli anni Ottanta gli esperti in demografia, come i francesi Alfred Sauvy e Jean-Claude Chesnais o il tedesco Herwig Birg, avevano suonato l’allarme, spiegando che l’Europa non stava riproducendosi a sufficienza. I loro avvertimenti però non vennero mai presi seriamente in considerazione dalle classi politiche, perché gli effetti negativi del calo demografico si sentono nel lungo periodo, ma gli uomini politici raramente guardano al di là dei quattro o cinque anni che li separano dalle elezioni successive. Eppure, osserva Laqueur, una semplice passeggiata per le città europee dà subito l’idea di quanti bambini in meno di un tempo ci siano.


Al calo delle nascite si aggiunge l’arrivo di una massiccia immigrazione che sta cambiando il volto del paesaggio urbano. Un turista che tornasse a visitare le capitali europee dopo un’assenza di trent’anni, scrive Laqueur, farebbe fatica a riconoscere gli stessi luoghi. Intere aree di Londra, Parigi o Berlino oggi si presentano ai visitatori con l’aspetto, i suoni e gli odori simili a quelli del Cairo, di Karachi o di Dacca: moschee e minareti, donne vestite con l’hijab, macellai halal, ristoranti kebab, Aladin cafè e Marhaba minimarket.


Anche in passato nelle città europee c’erano delle zone abitate da ebrei o da lavoratori ospiti. Gli immigrati di un tempo però si contavano in qualche decina di migliaia, non in milioni di persone. Non usufruivano come oggi di generosi sussidi e servizi sociali, e per questa ragione facevano ogni sforzo per integrarsi nella società ospitante. Adesso invece molti immigrati, soprattutto musulmani, si auto-segregano volontariamente in comunità separate, e non socializzano con i vicini tedeschi, inglesi o francesi. I predicatori gli insegnano che i loro valori e le loro tradizioni sono di gran lunga superiori a quelli degli infedeli, e che ogni contatto con loro è indesiderabile.


Negli europei cresce il timore di ritrovarsi stranieri nella propria terra, e che ormai sia troppo tardi per fermare questo processo. Già nel 2004 a Bruxelles più del 55 per cento dei neonati erano figli di immigrati; nella regione tedesca della Ruhr entro pochi anni più della metà delle classi d’età sotto i trent’anni saranno di origine etnica non tedesca; fra cinquant’anni gli Stati Uniti avranno più di 400 milioni di abitanti, mentre la popolazione dell’Unione Europea potrebbe essere meno numerosa di quella del Pakistan o della Nigeria. Chi lavorerà nelle fabbriche dell’Europa priva della sua gioventù? Chi servirà negli eserciti europei, gli ultraquarantenni?


La spiacevole verità, scrive Laqueur, è che l’Europa non sta diventando una superpotenza, ma si trova nel bel mezzo di una crisi esistenziale. La posta in gioco non è il ruolo egemonico mondiale, ma la sopravvivenza. Prima della fine del secolo alcune aree del continente potrebbero diventare dei parchi a tema per i turisti provenienti da altri continenti. Le guide gli mostreranno i monumenti dicendo: “Signore e signori, state ammirando ciò che resta di una civiltà altamente sviluppata che un tempo dominò il mondo, e che ci diede le cattedrali, Shakespeare, Beethoven e tante altre cose meravigliose”. Il declino del vecchio continente, anche se irreversibile, potrebbe però essere graduale, e non c’è ragione di pensare ad un collasso improvviso. Il dibattito dovrebbe concentrarsi sull’individuazione delle tradizioni e dei valori europei che possono ancora essere salvati. L’età delle illusioni, conclude Laqueur, è finita.


Guglielmo Piombini


(Il Foglio, 29 settembre 2007)

06 ottobre 2007

Un Grillo in gonnella

Ma sì, diciamolo: è lei il Grillo del centrodestra. Anzi, di più: il vero autentico Grillo della scena politica non è Beppe bensì quella Michelona rosso-crinita che ha conquistato il cuore politico di Silvio. Anche perché, avendo come concorrente il poeta mistico Sandro Bondi, capirete che non c’è gara.

E’ lei che sta raccogliendo il voto in libera uscita di quegli elettori di centrodestra delusi dall’esperienza di governo della Casa delle Libertà, o di coloro che ricoprendo incarichi importanti in Forza Italia sono entrati in rotta di collisione con la dirigenza del partito (basta guardare cosa sta succedendo in Piemonte). Persone che non voterebbero mai a sinistra ma che stavano per decidere di non votare più centrodestra. Fino al suo avvento.

Gli assi nella manica di Michela Vittoria Bram-Grilla, che oggi tiene l’assemblea nazionale dei Circoli della Libertà, sono due, a parte le autoreggenti sulle quali peraltro ci auguriamo tramonti presto il sole del marketing. Come scriveva il nostro giornale all’indomani del raid grillesco a Bologna, il comico genovese sta lavorando per Berlusconi.

Perché è proprio l’ex presidente del Consiglio, nonostante tutto, a offrire le maggiori garanzie alla cosiddetta antipolitica: lui resta nella percezione della gente comune un antipolitico che ha la ventura di frequentare i palazzi romani. Dalla sortita sotto le Due Torri nel segno del “Vaffa”, stando almeno ai sondaggi più recenti, l’ex CdL ha guadagnato altri punti di vantaggio su quel caravanserraglio disunito dell’Unione.

Dunque, da un lato MVB può contare su meriti che non sono suoi approfittando del carisma di Silvio e dell’autolesionismo di sinistra. Dall’altro, però, avendo lavorato sodo in questi mesi, ha messo in piedi una organizzazione già ben strutturata il cui compito sarà proprio quello di tenere agganciata a destra la protesta di destra, geneticamente lontana dagli insulti e dalle chiacchiere fine a se stesse. Alla fine, parliamoci chiaro, quella della Brambilla è una autentica operazione liberale che si prefigge l’obiettivo di far tornare protagonista la gente comune.

Sogni? Vedremo. Anche Forza Italia doveva trasformarsi in un partito liberale di massa e si è visto che cosa è successo. Certo, come per Grillo anche per la Brambilla ora comincia la prova della verità. Ma a differenza del guitto, Michela Vittoria un piccolo esercito ce l’ha già. E quel che più conta non vive come malcelata contraddizione sputare contro i partiti per poi puntare a costituirne uno nuovo.

La giornata romana potrà servire intanto a toccare con mano le truppe effettive della Rossa, perché senza di quelle non si va da nessuna parte. E in secondo luogo a mettere meglio a fuoco gli obiettivi politici di un movimento che, almeno potenzialmente, potrebbe consentire al centrodestra di assestare il colpo da ko a un Partito democratico nato gà con molte rughe.

Graziano Girotti
(L'Opinione, 6 ottobre 2007)

02 ottobre 2007

Il rave devasta Bologna. E Cofferati fa l'offeso

La solita Street Parade, i soliti danni, i soliti cittadini infuriati. Il rave della settimana scorsa, quella sorta di osceno serpentone lungo le vie della città fatto di ragazzi “fatti”, cani malnutriti, musica ad altissimo volume e spinelli, non ha riservato particolari soprese. Anzi, a dir la verità un successo lo ha ottenuto: far litigare il sindaco con questore e prefetto, accusati neppure tanto velatamente di non aver saputo impedire la violazione dei divieti posti al percorso.

Quando Romano Prodi afferma che gli italiani non sono poi tanto diversi dalla classe politica che si sono scelti, ad osservare i no-global in piazza si ha la sensazione che abbia ragione. Almeno questa volta. Il popolo dei collettivi si è strafregato di quanto imposto dalle forze dell’ordine e ha fatto quello che ha voluto. Il bello e soprattutto il cattivo tempo. I bolognesi sono rimasti a guardare inorriditi, chiedendosi se in città le istituzioni contassero ancora qualcosa oppure se il casino anarcoide di ragazzotti nullafacenti e inebetiti dalla droga avesse preso il potere.

Quando il sindaco, risentito perché Grimaldi e Cirillo non si erano dimostrati all’altezza delle promesse fatte, annuncia che non si farà più vedere alle riunioni del Comitato per la sicurezza, provoca un moto di risate difficilmente controllabile. Caro Cinese, vorremmo dirgli, nel momento in cui si è trattato di mettere in saccoccia i voti di quei “fanciulli in fiore”, non mi pare che lei si sia dimostrato particolarmente schizzinoso. Se li è presi con grande soddisfazione e anche grazie ai loro consensi oggi siede a Palazzo d’Accursio.

Lei è il primo responsabile di quanto è accaduto e di quanto accadrà ancora. Non so se lo ha notato, e se in questi anni gli è sfuggito ci permetta di farglielo osservare. La cultura dell’irresponsabilità e del menefreghismo verso le istituzioni è parte integrante di una fetta consistente di quella sinistra in cui lei si riconosce da sempre. Una sinistra che non può e non vuole prendere le distanze da chi ritiene lo Stato e tutti i suoi simboli qualcosa da sfregiare. Sempre e comunque. A prescindere. E per favore ci risparmi la sceneggiata della sua arrabbiatura.

Di più: la smetta di annunciare che si farà risarcire i danni dai lord che li hanno commessi. Perché c’è un dettaglio che lei fa finta di trascurare pur di conquistare l’ennesima citazione sulla stampa: i no-global non hanno i soldi per pagare. E allora come la mettiamo? Noi un’idea ce la siamo fatta. Bologna è arrivata al punto massimo di debolezza, oltre il quale c’è il coma irreversibile. Le tante chiacchiere fatte prima del rave, tese a mostrare un improbabile pugno di ferro, si sono perse nel vento non appena sono state messe alla prova. E allora riconosciamolo: siamo una città da Far West dove le persone perbene si trovano sempre più a disagio.

A questo punto, caro sindaco, si scelga una veste più appropriata. Quella dello sceriffo ha dimostrato di non saperla portare. Provi quella del becchino.

26 settembre 2007

Il catasto ai Comuni? Una stangata fiscale. Ma nessuno lo dice

Sui giornaloni non se ne parla. Ovvio, sono tutti schierati per il professore dai grandi occhiali e i suoi tirapiedi. Sui quotidiani berlusconiani o di area, idem. Ma in quel caso incide l’ignoranza su certi temi tecnici mista a colpevole disattenzione. In ogni caso, potremmo essere alla vigilia di una stangata fiscale dalle proporzioni epiche.

Entro il 3 ottobre ogni Comune deve deliberare l’adesione al nuovo catasto. E nuovo catasto significa che la sua gestione non sarà più nelle mani dello Stato, come è stato fino ad ora, ma appunto rientra tra le competenze delle amministrazioni comunali. Un cambiamento che se ne porta dietro un altro. Dal momento del passaggio in poi l’immobile verrà considerato a fini fiscali non in base al reddito che genera, come accade peraltro in tutti i paesi civili e autenticamente liberali, bensì in considerazione del suo valore patrimoniale.

La conseguenza è molto semplice e allo stesso tempo drammatica. Visto che l’Ici, e cioè l’imposta comunale sugli immobili, viene calcolata sul valore catastale del bene; e visto che questo valore, con le nuove norme, è destinato a spiccare il volo, ecco che le associazioni dei proprietari sono imbufalite. In particolare, quella principale – la Confedilizia -, prevede un incremento dell’imposta di tre volte. Sì, l’Ici rischia di triplicare.

Perché tutto questo? Lo Stato sta riducendo sempre di più i finanziamenti alla periferia e dunque ecco trovato lo stratagemma. Si permette ai Comuni di fungere da controllori e controllati: oltre a decidere l’aliquota dell’Ici, come è già nei loro poteri, d’ora in poi si sceglieranno pure gli estimi catastali sui quali l’aliquota incide. Insomma, faranno tutto loro. A qualcuno interessa?

Di seguito riporto il testo di una intervista con la presidente della Confedilia Emilia Romagna, Elisabetta Brunelli Monzani, che ho curato per il quotidiano L’Opinione di una settimana fa. Nel servizio ci si riferisce a Bologna. Ma il discorso vale per tutte le città e i paesi.

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E' molto probabile che il prossimo 3 ottobre i proprietari immobiliari bolognesi non lo dimenticheranno tanto presto. Anzi, non lo dimenticheranno più. Entro quella data, infatti, la giunta Cofferati dovrà adottare il nuovo catasto. E i dolori che si preannunciano saranno lancinanti per tutti. “Si tratta di un catasto-truffa contro il quale ricorreremo al Tar”. Va giù dura la battagliera presidente della Confedilizia Emilia-Romagna, Elisabetta Brunelli Monzani, avvocato di professione e consigliera comunale di opposizione nelle file de “La tua Bologna”.

Si spieghi, Brunelli Monzani.
“Semplice. Il nuovo catasto patrimoniale ha come unico obiettivo quello di fare cassa, il cui peggior difetto è il calcolo dei redditi ottenuto applicando surrettiziamente valori patrimoniali ai saggi di fruttuosità fissati convenzionalmente a livello centrale. Si prevede la messa a regime di un censimento del valore delle case anziché dei normali canoni di locazione ritraibili da un immobile in un regolare libero mercato”.

Tradotto per il volgo?
“Succederà che l'Ici si troverà ad avere una nuova base imponibile triplicata rispetto all'attuale e la medesima operazione avverrebbe per tutte le altre imposte (registro, eccetera) commisurate al valore catastale degli immobili. Per le imposte sui redditi, invece, i valori censiti verrebbero tradotti in redditi che non avrebbero alcuna aderenza alla realtà”.

E la truffa?
“Questa operazione disincentiverà la grande maggioranza dei proprietari ad investire nel settore e aumenteranno i canoni di locazione. Le conseguenze sarebbero disastrose, foriere di tassazioni vertiginose per il Comune di Bologna che diverrebbe paradossalmente controllato e controllore di se stesso. Per questo motivo la Confedilizia promuoverà ricorso al Tar”.

Proposte alternative?
“Oggi non mancano di certo gli alloggi di edilizia economica e popolare il cui numero sarebbe più che sufficiente solo che fosse ben governato. Al contrario, oltre il 50% di questi immobili è complessivamente occupato da abusivi, senza titolo e morosi. Fino al momento in cui il metodo sarà quello di tassare il valore degli immobili (addirittura ora pensando alla costituzione del catasto patrimoniale) e non per quello che effettivamente rendono, saranno vani gli sforzi di creare un vero mercato dell'affitto a prezzi per chiunque accessibili”.

Quindi?
“La vera rivoluzione da percorrere nell'interesse di tutti i cittadini sarebbe quella di costituire un catasto probatorio, che associ le finalità fiscali con quelle di assicurare la certezza dei rapporti giuridici e dei diritti del Servizio Pubblicità Immobiliare. Inoltre, e soprattutto, bisognerebbe distribuire, a chi ne ha davvero bisogno, buoni affitto spendibili sul libero mercato affiancandoli con un effettivo sostegno ai contratti agevolati nonché ai contratti transitori e per studenti universitari. Insomma, bisogna cambiare metodo”.

18 settembre 2007

Grillo lavora per Berlusconi

Tanto rumore per nulla. Alla fine l’antipolitica di Grillo scopre che deve fare politica per tentare di dare corso alle promesse fatte di fronte a decine di migliaia di persone incavolate nere. Del resto, non c’erano alternative. Se vuoi cambiare le cose o imbracci le armi ed entri in clandestinità, oppure ti metti a competere con chi sul mercato del consenso c’è già puntando a rubargliene un po’. Ma se scegli la seconda strada, allora non fai che legittimare i vecchi partiti che solo qualche giorno prima avevi descritto come ricettacoli di ogni male.

Insomma, sbatti il muso contro una contraddizione grande come una casa. Mandandoti a quel paese da solo. La parabola del comico genovese somiglia molto da vicino a quella seguita dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, anch’egli salutato come moralizzatore del costume politico di casa nostra e dal quale si attendevano rivoluzioni palingenetiche al momento dell’abbandono della toga. Poi cosa è successo? Chiusa la porta al centrodestra, Tonino ha accettato la candidatura al Mugello dei Ds per arrivare a fondare una sua formazione politica. E oggi fa il ministro di un governo contro il quale si indirizzano gli strali dello stesso Grillo. Per di più occupandosi di infrastrutture delle quali dimostra di capirne il giusto.

Insomma, la decisione di fondare liste civiche nei paesi e nelle città con il bollino del V-Day per garantirne la rintracciabilità (manco fosse una fiorentina da fare alla griglia), acquieta l’onda di protesta e la riconduce a una dimensione molto meno alternativa di quando era esplosa. Aprendo un’autostrada a Berlusconi e al centrodestra. Sì, perché se Grillo può pescare soprattutto a sinistra, anche a causa di un governo che è il vero responsabile della rabbia della gente comune, chi se non Silvio incarna e fa da catalizzatore per chi vuole il cambiamento?

Ed ecco che rispunta la Brambilla con i suoi Circoli della Libertà, a proposito dei quali il leader del centrodestra si è affrettato a dire che non si trasformeranno mai in un partito. O meglio, non lo diventeranno a breve. Lo ha detto un po’ per tranquillizzare i feudatari che hanno in mano Forza Italia (che comunque continua a controllare un bel 30 per cento dei voti) e un po’ perché ci crede sul serio, dimostrandosi in questo migliore stratega del Grillo populista.

Se vuoi renderti credibile agli occhi di chi considera la politica tutta marcia, non devi diventare un partito e non lo devi neppure sembrare. E con questo è servito anche Giampaolo Pansa, che da elettore di sinistra si chiede cosa aspetti Silvio a mettere le mani sull’antipolitica. Lo sta già facendo. Altrimenti perché Bondi e compagnia sarebbero stati colti da profonde crisi di identità?

Graziano Girotti
(L'opinione, 18 settembre 2007)

15 settembre 2007

Altro che pauperismo, l'economia di mercato nasce francescana

Murray N. Rothbard Integrando l'economia austriaca misesiana, la filosofia giusnaturalista tomista e lockiana e l'anarchismo politico degli individualisti americani dell'Ottocento, Murray N. Rothbard (1926-1995) ha costruito un grandioso sistema teorico, al quale deve la fama di massimo pensatore libertarian del Novecento. Meno approfondito però è stato un altro aspetto del suo pensiero, i cui semi erano già presenti fin dall'inizio della sua storia intellettuale ma che è giunto a maturazione solo negli ultimi anni della sua vita: l'apprezzamento per il Cristianesimo e in particolare per la cultura cattolica. Rothbard, ebreo e agnostico, pur senza battezzarsi o convertirsi arrivò al termine del suo percorso intellettuale a considerarsi "un ardente sostenitore del Cristianesimo" e ad aderire ad una visione culturale latu sensu cattolica.

Il Medio Evo, culla della moderna economia

Nel primo volume della sua monumentale storia del pensiero economico (Economic Thought Before Adam Smith), uscita postuma nel 1995, Rothbard rivaluta il Medioevo cattolico come un periodo ricco e creativo della storia europea, soprattutto grazie al fatto che quell'ingombrante istituzione che è lo Stato moderno non aveva ancora avuto modo di crescere e svilupparsi. Sulla base di alcuni studi revisionisti di Joseph Schumpeter e di altri meno noti economisti, Rothbard sviluppa una concezione della storia del pensiero economico opposta a quella ortodossa. Nel tipico manuale di storia del pensiero economico, infatti, i filosofi scolastici vengono trattati bruscamente come retrogradi pensatori legati alla mentalità medievale; dopo aver menzionato i mercantilisti e i fisiocrati, i "testi canonici" d'economia passano direttamente ai celebrati "fondatori" della scienza economica, Adam Smith (1723-90) e David Ricardo (1772-1823).

Per Rothbard invece la teoria e la pratica del libero mercato sono germogliate, ben prima di Adam Smith, nel mondo cattolico e non in quello protestante. Lungi dall'essere dei mistici che non capivano nulla d'economia, per Rothbard i filosofi scolastici erano degli economisti di notevole valore, che anticiparono alcune acquisizioni teoriche fondamentali come la concezione soggettiva del valore, arrivando quasi a delineare il concetto di "utilità marginale". Alberto Magno (1193-1280) e il suo grande allievo San Tommaso d'Aquino (1225-1274), così come gli scolastici successivi, pensavano infatti che il giusto prezzo di un bene non dipendesse da qualche sua qualità intrinseca, ma fosse quello determinato dalla communis opinio o dalla commune estimatione, cioè dal mercato.

L'ammirazione di Rothbard va in particolare a due francescani: al provenzale Pietro Giovanni Olivi (1248-1298), il vero scopritore della teoria soggettiva del valore; e a San Bernardino di Siena (1380-1444), il quale, oltre a fornire una magistrale analisi delle virtù e della funzione dell'imprenditore, riportò in auge, dopo circa due secoli, la teoria soggettiva del valore sviluppata da Olivi. Rothbard elogia poi i tardoscolastici della Scuola di Salamanca del sedicesimo secolo per la loro brillante difesa della proprietà privata, per le acute analisi dei fenomeni di mercato e monetari, per la dura critica dell'intervento del governo nell'economia.

L'allontanamento di Smith e Ricardo

Al contrario, Smith e Ricardo si allontanarono dalle acquisizioni teoriche soggettiviste degli scolastici per adottare un concetto oggettivo del valore, come la teoria del valore-lavoro, che portò la scienza economica su una strada completamente sbagliata per più di un secolo, fino a quando Carl Menger e i marginalisti austriaci di fine Ottocento la rimetteranno sulla giusta carreggiata. L'erronea teoria inglese del valore-lavoro, secondo cui il valore dei beni è determinato dal lavoro in essi incorporato, ha prodotto per Rothbard numerose conseguenze negative, spianando la strada alle teorie socialiste di Karl Marx e ad altre forme di interventismo statale. Non è un caso, nota Rothbard, che nel diciottesimo e diciannovesimo secolo i più convinti fautori del liberismo economico non fossero inglesi protestanti, ma francesi influenzati dal cattolicesimo come Richard Cantillon, François Quesnay e i fisiocrati, Etienne de Condillac, Jacques Turgot, Jean-Baptiste Say, Charles Comte, Charles Dunoyer, Augustine Thierry, Frèdéric Bastiat, Gustave de Molinari.


L'alleanza tra protestanti e assolutisti

Purtroppo nel sedicesimo secolo la grande tradizione scolastica era entrata in declino, a causa del contemporaneo attacco proveniente da due campi differenti ma oggettivamente alleati: i riformatori protestanti da un lato e gli apologeti dell'assolutismo dall'altro. Alla radice della religione cattolica, spiega Rothbard, vi è infatti la convinzione che Dio possa essere percepito non solo mediante la fede, ma attraverso tutte le facoltà dell'uomo, compresi i sensi e la ragione. Il protestantesimo, specialmente quello calvinista, pone invece Dio completamente fuori dalla portata delle facoltà umane. Per i protestanti l'uomo è troppo corrotto perché possa fidarsi della sua ragione o dei suoi sensi nella ricerca delle leggi naturali, e deve pertanto affidarsi alla rivelazione e all'arbitraria volontà di Dio. In questo modo, dice Rothbard, i protestanti non avevano a disposizione nessuno standard di norme etiche per valutare e criticare l'azione dei governanti, e per questo motivo fornirono poca difesa contro la marea montante dell'assolutismo statale moderno.

Se il protestantesimo aprì la strada allo Stato assoluto, i teorici secolaristi del Cinque-Seicento si impegnarono esplicitamente in sua difesa, con l'obiettivo di svincolare la vita politica da tutti quegli impacci morali che impedivano all'azione dello Stato di svolgersi liberamente. Senza più la critica giusnaturalista dello Stato, i nuovi teorici laici come Jean Bodin abbracciarono la legge positiva dello Stato come l'unico criterio politico ammissibile. Rothbard paragona quindi i protestanti antiscolastici che esaltarono la volontà arbitraria di Dio come unico fondamento dell'etica ai teorici dell'assolutismo che, allo stesso modo, elevarono l'arbitraria volontà del governante allo status di incontestabile e assoluta "sovranità".

La critica dei gesuiti

Rothbard ricorda che furono i gesuiti i primi a notare questo stretto collegamento tra i leader protestanti come Lutero e gli amorali teorici della politica come Machiavelli: i due veri e propri padri fondatori del moderno Stato secolarizzato. Entrambi, rifiutando per differenti ragioni la legge naturale elaborata dalla scolastica cattolica come base morale della politica, si sbarazzarono degli unici criteri sviluppati nei secoli per valutare e condannare le azioni dei governanti. Non il papato, ma lo Stato rappresentava per Lutero lo strumento di Dio, e pertanto i sudditi gli dovevano la più assoluta obbedienza. Per Machiavelli invece occorreva abbandonare ogni tentativo di giudicare la politica o il governo sul metro dell'etica cristiana, dato che quest'ultima andava subordinata all'imperativo supremo del mantenimento e dell'espansione dello Stato. Per questo motivo si è parlato di una "inconsapevole collaborazione" di Machiavelli e Lutero per l'emancipazione dello Stato, che darà modo a Thomas Hobbes di formulare un sistema politico che è insieme perfettamente machiavellico e perfettamente protestante.

Il luogo comune del Calvinismo come “motore economico”

Rothbard ritiene inoltre che la famosa tesi di Max Weber, che attribuisce la nascita del capitalismo al concetto calvinista di "chiamata", malgrado le sue fruttuose intuizioni debba essere respinta. Il capitalismo moderno, infatti, non inizia con la rivoluzione industriale del diciottesimo e diciannovesimo secolo, ma nel Medioevo e in particolare nei comuni cattolici dell'Italia centro-settentrionale, come dimostrato dal fatto che qui vennero inventate le nuove tecniche finanziarie e commerciali quali la banca e l'impresa, la lettera di cambio, la ragioneria, la partita doppia: novità che i teologi scolastici cercarono via via di comprendere e giustificare.

Rothbard ricorda che la prima classica formula pro-capitalista, "In nome di Dio e del profitto", si ritrova in un libro contabile fiorentino del 1253, e che ancora nel Cinquecento la cattolica città di Anversa era il maggior centro commerciale e finanziario.

Inoltre il più importante banchiere e finanziere dell'epoca era Jacob Fugger, un buon cattolico della Germania del sud; egli lavorò per tutta la vita, rifiutò di ritirarsi e annunciò che avrebbe continuato a far denaro fino a quando avesse potuto: un primo esempio, osserva Rothbard, di weberiana "etica protestante" in un solido cattolico! Per Rothbard, Weber avrebbe dovuto invertire i rapporti causali: fu lo sviluppo del capitalismo che portò il calvinismo ad accomodarsi ad esso, piuttosto che il contrario; ne è prova il fatto che solo il tardo calvinismo, specificamente puritano, sviluppò la versione weberiana della "vocazione" e dell'ascesi mondana.

Una conferma dagli studi recenti

Questa tesi di Rothbard sul ruolo avuto dalla scolastica medievale nella preparazione dello spirito capitalistico ha trovato conferma negli studi recenti di Michael Novak e di Rodney Stark. Ma va ricordato che anche il noto sociologo tedesco Werner Sombart era giunto alla medesima conclusione. In un suo libro del 1913, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, sviluppò queste illuminanti considerazioni:

"Qualunque sia la causa che ha condotto spontaneamente alla elaborazione di un razionalismo economico, non si potrà porre in dubbio che esso abbia trovato un potente appoggio nel dogma della Chiesa, che tendeva a realizzare nel complesso dell'esistenza umana quanto il capitalismo doveva attuare nella vita economica. San Tommaso sapeva che chi vive in castità e con moderazione soccombe più difficilmente al peccato di sperperare, e si rivela anche in altri modi migliore amministratore. Ma oltre alla prodigalità, la morale cristiana combatte anche altri nemici della concezione borghese della vita. Soprattutto l'ozio, che anche per lei è "il principio di ogni vizio". Accanto all'industriosità e alla parsimonia gli scolastici insegnarono anche una terza virtù borghese: il decoro, l'onestà o onorabilità. Io credo che dobbiamo all'opera educativa della Chiesa una considerevole quantità di quell'elemento che, sotto la forma della solidità commerciale, è parte tanto importante dello spirito capitalistico. Quando si leggano con attenzione gli scritti degli scolastici, soprattutto quell'opera meravigliosa del grandissimo Tommaso d'Aquino, che nella sua monumentalità fu raggiunta soltanto dalle creazioni di Dante e di Michelangelo, si riceve l'impressione che essi ebbero a cuore, più di questa educazione della borghesia all'onorabilità, un'altra opera educativa: quella che tendeva a fare dei loro contemporanei uomini retti, coraggiosi, intelligenti ed energici. Nulla condannano con maggior veemenza della fiacchezza spirituale e morale. Un concorso a premi che ponesse la domanda: "Come posso fare del signore impulsivo e gaudente da una parte e dall'operaio ottuso e fiacco dall'altra, un imprenditore capitalistico?" non avrebbe potuto trovare una risposta migliore di quella già contenuta nella morale dei tomisti. Le opinioni qui espresse sono nettamente opposte a quelle prevalenti sulla posizione della dottrina ecclesiastica rispetto alle esigenze del sorgente capitalismo".

A dispetto di ogni concezione materialistica della storia, queste ricerche sembrano dimostrare che le istituzioni capitalistiche (diritti di proprietà, contratti, imprese, libertà individuale, governo limitato) che hanno fatto grande la civiltà occidentale sono emerse spontaneamente dal basso quando sul piano della cultura si sono diffusi e affermati determinati precetti morali, come la responsabilità individuale, lo sforzo e l'impegno personale, l'affidabilità, la fedeltà, l'onestà, la prudenza, la lungimiranza, l'autodisciplina morale: in sintesi, i valori della tradizione morale giudaico-cristiana elogiati da Murray N. Rothbard.

Guglielmo Piombini

(Pepe, n. 21/2007)