Le persone non si arrabbiano quando dici il falso su di loro, ma quando gli dici la verità: forse è questo il motivo per cui il nuovo libro di Ann Coulter, Godless. The Church of Liberalism (New York, Crown Forum), che appena uscito ha raggiunto il primo posto nella classifica delle vendite su Amazon, sta facendo imbestialire i liberal americani. La furia sarcastica della biondissima autrice, ribattezzata sulla copertina del Time come Ms. Right, non risparmia infatti nessuna delle manie ideologiche dei progressisti.
La sinistra crede ad esempio che i criminali siano vittime della società, che i molestatori di bambini possano essere riabilitati, che i feti non siano persone umane, che il darwinismo sia un fatto, che il socialismo funzioni, che l’islam sia una religione di pace, che i selvaggi siano sempre buoni e vivano in armonia con la natura, che il riciclaggio sia una virtù, che la castità non lo sia, e così via. Queste dottrine sono razionalmente meno dimostrabili della storia dell’Arca di Noè, tuttavia vengono insegnate nel sistema scolastico pubblico, dal quale sono state bandite tutte le espressioni della tradizione giudaico-cristiana.
Le scuole pubbliche non possono menzionare la religione non certo perché lo vieta la Costituzione, spiega la Coulter, ma perché sono diventate le madrasse della Sinistra. Con una differenza: gli integralisti islamici che vivono negli Stati Uniti ricevono i fondi per le scuole coraniche dall’Arabia Saudita; i liberal invece costringono tutti gli americani a finanziare con le imposte le loro scuole “religiose”.
Per la Coulter l’ideologia progressista, pur facendo a meno di Dio, rappresenta infatti una vera e propria religione, con le sue sacre scritture (la sentenza Roe vs. Wade), i suoi martiri (la spia sovietica Alger Hiss o l’assassino Mumia Abu-Jamal), i suoi sacerdoti (gli insegnanti della scuola pubblica), i suoi luoghi di culto (le aule scolastiche) e la sua cosmologia (l’evoluzionismo).
In questa chiesa senzadio l’aborto rappresenta il più santo dei sacramenti: “non importa di cosa i progressisti si occupino di tanto in tanto - minare la sicurezza nazionale, aiutare i terroristi, opprimere la classe media, liberare i delinquenti violenti -, la questione irrinunciabile del loro programma, per la quale sarebbero disposti anche alla guerra, è quella dell’aborto”.
La Coulter non ha mai mezzi termini. La sua denuncia dell’ipocrisia sinistrorsa, che attacca le convinzioni morali e religiose degli avversari in quanto “non scientifiche”, è sempre serrata. I liberal infatti sono i primi a manifestare disprezzo per la scienza, quando contraddice la loro ideologia dimostrando ad esempio che il concepimento segna l’inizio di una nuova vita umana, che il nucleare e gli OGM sono sicuri, che il DDT permette di sconfiggere la malaria, che molte differenze tra l’uomo e la donna sono innate e biologiche, che l’AIDS colpisce in larga misura gli omosessuali o che la ricerca sulle cellule staminali adulte sta dando ottimi risultati.
In quest’ultimo caso ci si potrebbe chiedere come mai ai progressisti stiano tanto a cuore gli esperimenti sulle cellule staminali embrionali, che non hanno mai dato alcun frutto. Il motivo è che la ricerca sulle staminali adulte manca di un elemento decisivo: non implica la distruzione di una vita umana.
Sembra quasi che ai progressisti la scienza interessi solo quando permette loro di confezionare delle scuse per eliminare la vita umana. La loro pseudoscienza sostiene una religione alternativa secondo cui l’umanità è solo una parte, forse la più insignificante e dannosa, della natura. Per questo predicano la crescita zero della popolazione, la riduzione degli standard di vita e il vegetarianesimo. Al cuore della loro ideologia ambientalista vi è l’odio per l’umanità. “Noi invece, fedeli all’insegnamento biblico, crediamo di dover popolare la Terra finché ci sarà posto, per andare poi a colonizzare Marte”, scrive la Coulter.
L’autrice riserva le sue cannonate finali contro i custodi dell’evoluzionismo, il mito fondante dell’ideologia progressista. Questi “darwiniaci”, come li chiama, non sono seri scienziati che faticano tra tubi e provette, ma fanatici convinti che l’evoluzione debba essere vera a dispetto di tutte le testimonianze fossili di cui disponiamo dopo 150 anni di ricerche e di ogni altra prova contraria. Il loro metodo di discussione è quello di chiudere la bocca ai critici con l’aiuto di giudici compiacenti.
Il distretto scolastico di Dover, Pennsylvania, è stato condannato a pagare più di un milione di dollari di spese legali per avere cercato di introdurre l’insegnamento delle teorie del disegno intelligente nelle lezioni di biologia. Dopo una batosta del genere, chi avrà più il coraggio di criticare l’evoluzionismo nella scuola pubblica?
In realtà l’evoluzionismo interesserebbe ben poco ai progressisti, se non gli servisse per negare l’esistenza di Dio e per edificare una visione del mondo compatibile con i propri desideri: “Fai quello che vuoi: va a letto con la segretaria, uccidi la nonna malata, abortisci il figlio difettoso. Darwin dice che beneficerai l’umanità! Non sbaglierai mai se segui i tuoi istinti. Agisci e lascia che sia Madre Natura a selezionare i vincenti e i perdenti”. Non per caso Marx e Hitler adottarono esplicitamente la teoria di Darwin a sostegno delle proprie ideologie mortifere. Alla fine, conclude la Coulter, sono sempre i senzadio a eseguire i genocidi.
Un libro, come si vede chiaramente, senza peli sulla lingua, nel più puro stile coulteriano. Un pugno nello stomaco, insomma, che nel contesto esacerbato di certo mondo americano si comprende però benissimo. Da noi probabilmente meno, molto meno. Ma non è detto che sia meglio.
Guglielmo Piombini
(Il Domenicale, 28 ottobre 2006)
28 ottobre 2006
25 ottobre 2006
L'ultima perla della compagna Rosy: il quoziente familiare è contro le lavoratrici
Dopo qualche mese di governo Prodi, viene da chiedersi quale mistero si annidi nella sinistra – e in particolare nella sinistra che cerca di vendersi come cattolica e moderata – per dimostrarsi sempre, alla prova dei fatti, peggiore persino dei peggiori pregiudizi che circolano sul suo conto.
Rosy Bindi, ministro “per le politiche familiari”, nel corso di un’audizione parlamentare in Commissione Bilancio tenutasi proprio ieri, si è dichiarata apertamente contraria all’introduzione del “quoziente familiare” nel nostro sistema tributario.
Per chi non lo conoscesse, si tratta di un principio di elementare realismo ed equità, anche grazie al quale la Francia – dove è stato introdotto da molti anni – riesce ancora, nonostante la secolarizzazione e l’edonismo diffuso, a mantenere tassi di natalità decenti.
In pratica, consiste nella riduzione del reddito imponibile di ogni componente del nucleo familiare, in base ad un quoziente che dipende dal numero di persone che di quel reddito vivono.
L’effetto fiscale non è solo quello di favorire le famiglie numerose, ma anche l'attenuazione della disparità che normalmente esiste – vista la progressività delle aliquote – tra i nuclei monoreddito (dove il più delle volte, per forza di cose, il capofamiglia porta a casa uno stipendio almeno decente), rispetto a quelli in cui si lavora in due o in tre.
In queste ultime famiglie, è difatti frequente che si guadagni complessivamente di più, ma con una minore pressione fiscale, in quanto ciascun singolo stipendio, essendo più basso, sconta una minore aliquota Irpef.
Insomma, il “quoziente familiare” ha la funzione di rendere più agevole la scelta di avere figli, ed anche di crescerli con le proprie forze rinunciando a godere in famiglia di un reddito in più, senza per questo venire ulteriormente penalizzati sul piano tributario.
Il governo Berlusconi non era riuscito ad introdurlo a causa dei soliti problemi di bilancio, anche se la riforma Tremonti si era perlomeno mossa in quel senso, introducendo un sistema di deduzioni per i familiari a carico, al posto delle vecchie detrazioni puntualmente reintrodotte da Visco nello schema della finanziaria 2007 (come da noi già stigmatizzato in altro post).
Invece Rosy Bindi, sedicente cattolica, e sedicente ministra per la famiglia, ha riferito papale papale in Parlamento di essere contraria per ragioni di principio, e non tanto per esigenze di cassa.
Infatti, sue testuali parole, l’introduzione di un quoziente familiare “favorirebbe i redditi medio-alti” e “scoraggerebbe il lavoro della donna”.
E brava la nostra cattolica adulta, nonché “donna più bella che intelligente”, come ebbe a dire Vittorio Sgarbi in una memorabile battuta. La ministra tra l’altro sarebbe anche una sedicente moderata, visto che è in quota alla Margherita e non certo a Rifondazione.
Intanto, dobbiamo registrare che per l’ineffabile Rosy – così come per i comunisti duri e puri – godere di un reddito medio-alto è di per sé una colpa. I ricchi devono piangere.
A detta di colei che dovrebbe curare le “politiche familiari”, quei padri che mettono il proprio unico reddito a disposizione di tutta la famiglia, vanno penalizzati proprio per questo: il fatto di mantenere la moglie a casa, così come l’alto numero dei figli, sono visti come “indicatori di lusso” che aggravano la colpa sociale di guadagnare bene.
Ogni figlio in più sembra rappresentare un disvalore sociale da reprimere con la leva fiscale, così come avviene per il consumo di sigarette e superalcolici. Alla faccia della Costituzione che tutela la famiglia, e alla faccia della ispirazione cattolica della ministra in questione.
Ma il punto non è solo questo. Secondo la vergine di Sinalunga – come pure è stata definita la ministra, in virtù delle sue notorie opzioni personali – la scelta di metter su famiglia con un solo reddito genererebbe un’ulteriore distorsione: quella di “scoraggiare le donne lavoratrici”.
Come a dire che la donna che rimane a casa, e si affida al reddito del marito per curare meglio la crescita e l’educazione dei figli, merita essa stessa di essere penalizzata.
A quanto pare, secondo la Bindi la donna che non lavora fuori casa contribuisce di meno al bene comune, in quanto non si emancipa. E quindi sarebbe meglio per le sorti progressive dell’intera società che le donne non stiano a casa con i figli. Meglio che in ogni famiglia si lavori in due, piuttosto che dipendere tutti dal reddito di un singolo sporco maschio borghese, che solo per questo potrebbe farsi venire tentazioni patriarcali.
In altri termini, si tratta di comunismo della più bell’acqua (santa). Di pregiudizi pauperisti, veterofemministi, ed anche antifamiliari, che sono stati sconfitti in tutto il resto del mondo civile da ormai molti anni.
Ed altresì, si tratta dell’ennesima conferma che l’unico modo che la sinistra conosce di prendersi cura delle esigenze delle famiglie, è quello di andare in tasca alle medesime, per poi “redistribuire” il maltolto ai pochi nuclei familiari dei propri protetti, mediante elargizioni assistenziali.
Non stiamo commentando la solita sparata di Diliberto o di Giordano. Si tratta delle dichiarazioni rese al Parlamento da un ministro che dovrebbe essere, almeno di fronte agli elettori, espressione della parte più moderata della coalizione di governo. Che oltretutto, in quanto sedicente cattolica, dovrebbe essere anche quella più attenta alle famiglie.
Che schifo. Solo questo, sempre più, ci rimane da dire di quella gente. Che schifo.
Rosy Bindi, ministro “per le politiche familiari”, nel corso di un’audizione parlamentare in Commissione Bilancio tenutasi proprio ieri, si è dichiarata apertamente contraria all’introduzione del “quoziente familiare” nel nostro sistema tributario.
Per chi non lo conoscesse, si tratta di un principio di elementare realismo ed equità, anche grazie al quale la Francia – dove è stato introdotto da molti anni – riesce ancora, nonostante la secolarizzazione e l’edonismo diffuso, a mantenere tassi di natalità decenti.
In pratica, consiste nella riduzione del reddito imponibile di ogni componente del nucleo familiare, in base ad un quoziente che dipende dal numero di persone che di quel reddito vivono.
L’effetto fiscale non è solo quello di favorire le famiglie numerose, ma anche l'attenuazione della disparità che normalmente esiste – vista la progressività delle aliquote – tra i nuclei monoreddito (dove il più delle volte, per forza di cose, il capofamiglia porta a casa uno stipendio almeno decente), rispetto a quelli in cui si lavora in due o in tre.
In queste ultime famiglie, è difatti frequente che si guadagni complessivamente di più, ma con una minore pressione fiscale, in quanto ciascun singolo stipendio, essendo più basso, sconta una minore aliquota Irpef.
Insomma, il “quoziente familiare” ha la funzione di rendere più agevole la scelta di avere figli, ed anche di crescerli con le proprie forze rinunciando a godere in famiglia di un reddito in più, senza per questo venire ulteriormente penalizzati sul piano tributario.
Il governo Berlusconi non era riuscito ad introdurlo a causa dei soliti problemi di bilancio, anche se la riforma Tremonti si era perlomeno mossa in quel senso, introducendo un sistema di deduzioni per i familiari a carico, al posto delle vecchie detrazioni puntualmente reintrodotte da Visco nello schema della finanziaria 2007 (come da noi già stigmatizzato in altro post).
Invece Rosy Bindi, sedicente cattolica, e sedicente ministra per la famiglia, ha riferito papale papale in Parlamento di essere contraria per ragioni di principio, e non tanto per esigenze di cassa.
Infatti, sue testuali parole, l’introduzione di un quoziente familiare “favorirebbe i redditi medio-alti” e “scoraggerebbe il lavoro della donna”.
E brava la nostra cattolica adulta, nonché “donna più bella che intelligente”, come ebbe a dire Vittorio Sgarbi in una memorabile battuta. La ministra tra l’altro sarebbe anche una sedicente moderata, visto che è in quota alla Margherita e non certo a Rifondazione.
Intanto, dobbiamo registrare che per l’ineffabile Rosy – così come per i comunisti duri e puri – godere di un reddito medio-alto è di per sé una colpa. I ricchi devono piangere.
A detta di colei che dovrebbe curare le “politiche familiari”, quei padri che mettono il proprio unico reddito a disposizione di tutta la famiglia, vanno penalizzati proprio per questo: il fatto di mantenere la moglie a casa, così come l’alto numero dei figli, sono visti come “indicatori di lusso” che aggravano la colpa sociale di guadagnare bene.
Ogni figlio in più sembra rappresentare un disvalore sociale da reprimere con la leva fiscale, così come avviene per il consumo di sigarette e superalcolici. Alla faccia della Costituzione che tutela la famiglia, e alla faccia della ispirazione cattolica della ministra in questione.
Ma il punto non è solo questo. Secondo la vergine di Sinalunga – come pure è stata definita la ministra, in virtù delle sue notorie opzioni personali – la scelta di metter su famiglia con un solo reddito genererebbe un’ulteriore distorsione: quella di “scoraggiare le donne lavoratrici”.
Come a dire che la donna che rimane a casa, e si affida al reddito del marito per curare meglio la crescita e l’educazione dei figli, merita essa stessa di essere penalizzata.
A quanto pare, secondo la Bindi la donna che non lavora fuori casa contribuisce di meno al bene comune, in quanto non si emancipa. E quindi sarebbe meglio per le sorti progressive dell’intera società che le donne non stiano a casa con i figli. Meglio che in ogni famiglia si lavori in due, piuttosto che dipendere tutti dal reddito di un singolo sporco maschio borghese, che solo per questo potrebbe farsi venire tentazioni patriarcali.
In altri termini, si tratta di comunismo della più bell’acqua (santa). Di pregiudizi pauperisti, veterofemministi, ed anche antifamiliari, che sono stati sconfitti in tutto il resto del mondo civile da ormai molti anni.
Ed altresì, si tratta dell’ennesima conferma che l’unico modo che la sinistra conosce di prendersi cura delle esigenze delle famiglie, è quello di andare in tasca alle medesime, per poi “redistribuire” il maltolto ai pochi nuclei familiari dei propri protetti, mediante elargizioni assistenziali.
Non stiamo commentando la solita sparata di Diliberto o di Giordano. Si tratta delle dichiarazioni rese al Parlamento da un ministro che dovrebbe essere, almeno di fronte agli elettori, espressione della parte più moderata della coalizione di governo. Che oltretutto, in quanto sedicente cattolica, dovrebbe essere anche quella più attenta alle famiglie.
Che schifo. Solo questo, sempre più, ci rimane da dire di quella gente. Che schifo.
22 ottobre 2006
Saluti da Sodoma e Gomorra (ovvero: messaggio in bottiglia per Silvio)
Bologna rappresenta da decenni, non solo a livello simbolico, un crocevia delle ispirazioni politiche, economiche e culturali più nefaste della nostra repubblicana del nostro Paese.
Chi era già adulto negli anni settanta ricorda bene che in questa città, già sede della federazione comunista più forte di tutto l’Occidente, trovò la sua massima espressione il “modello rosso” di amministrazione degli enti locali. E ormai anche i bambini sanno che proprio a Bologna – storica sede centrale dell’Unipol e della Lega Coop – è stato perfezionato il consolidato modello di (sotto)sviluppo economico, che si fonda sul circolo vizioso di solidarietà e favori reciproci tra Stato, sindacato, partito e cooperative.
Tuttavia, per dirla con la Settimana Enigmistica, forse non tutti sanno che nel centro di Bologna, tra i portici, le chiese e i ristoranti, si trova anche il cosiddetto miglio d’oro (che meglio dovremmo definire “miglio rosso”) di Strada Maggiore.
Questa via stretta ed intasata, partendo dalle due torri, attraversa l’antichissimo borgo cittadino dove già l’Alighieri, nel De vulgari eloquentia, riteneva che si parlasse il migliore dialetto italico. Qui oggi ritroviamo nell’ordine le sedi storiche del Mulino, di Nomisma, e infine la facoltà di Scienze Politiche.
Il Mulino è la casa editrice che più di ogni altra, sul piano scientifico, ha cantato le lodi del riformismo all’emiliana. Mentre Nomisma, la società fondata da Romano Prodi le cui consulenze stramiliardarie fanno discutere fin dai tempi dell’Iri, rappresenta simbolicamente il sistema di favori e solidarietà intrecciate, su cui un intero ceto dirigente di questo Paese fino ad oggi ha prosperato all’ombra dello Stato, e contro la libera impresa.
In Strada Maggiore del resto ha sede anche la “Vantu”, la società di partecipazioni che gestisce gli affari di Angelo Rovati, il consigliere del premier (si fa per dire) che ci voleva far credere di aver ideato tutto da solo il piano di ri-statalizzazione della Telecom.
Più avanti, nella facoltà di Scienze Politiche, troviamo una sede universitaria che, per quanto appartenuta anche a Nicola Matteucci – grande intelligenza liberale appena scomparsa – e nella quale ancor oggi insegnano personalità laiche e democratiche come Angelo Panebianco, rappresenta pur sempre un importante centro di irradiazione del pensiero statalista in Italia.
Più che del pensiero, sarebbe meglio dire della prassi: proprio in questa facoltà Romano Prodi, il noto spiritista di Scandiano, l’uomo che russa da sveglio, ha ottenuto mediante un dotto studio sull’industria delle ceramiche nel modenese – al quale non risulta abbiano fatto seguito altre opere memorabili – quella cattedra che ancora oggi gli consente di farsi chiamare “il Professore”.
E nella stessa facoltà tuttora esiste un’altra cattedra di assai dubbia utilità, ma di certo stipendio pubblico, mediante la quale la moglie del nostro premier integra i dividendi della società immobiliare “Acquitania S.r.l.”.
Quest’ultima società merita qualche parola in più, nell'ambito del nostro grand tour cittadino: essa infatti ha sede sempre nel centro di Bologna, nella vicinissima via Castiglione, proprio dove ha lo studio il dottor Piero Gnudi, commercialista di fiducia del premier, che guardacaso, oltre ad essere stato consigliere e liquidatore dell’Iri, oggi è anche il presidente dell’Enel.
La Acquitania è intestata per la metà alla signora Flavia Prodi, e per l’altra metà è intrecciata con una serie di società fiduciarie che, controllandosi l’una con l’altra, per un verso o per l’altro rimandano sempre agli interessi degli amici di famiglia, tra cui il predetto Angelo Rovati ma anche Luca Cordero di Montezemolo.
Non va peraltro dimenticato che a brevissima distanza da Strada Maggiore, nella parallela via san Vitale, troviamo quell’Istituto di Scienze Religiose che – sotto la guida spirituale del fondatore don Giuseppe Dossetti – è il principale centro di irradiazione del pensiero “postconciliare”, che dagli anni sessanta ad oggi tenta di guidare in senso filocomunista la sensibilità cattolica degli italiani.
Inoltre, va detto che quest’ultima benemerita fondazione fa il paio con il più decentrato, ma sempre bolognesissimo, Istituto Gramsci dell’Emilia-Romagna, che rappresenta ancora, con il suo attivo centro studi, uno storico caposaldo del pensiero comunista in Italia e in Europa.
Sempre a poca distanza dal “miglio rosso” di Strada Maggiore, si trova la sede centrale dell’Università di Bologna. Che è l’Università di Umberto Eco, e di tanti altri numi tutelari del sinistrismo italico. E che trova il suo cuore pulsante nell’ormai irriconoscibile piazza Verdi, che con il suo sfacciato degrado rappresenta il simbolo del declino cittadino, indotto dall’amministrazione di Sergio Cofferati e dai suoi assessorati partitocratici.
Contro questi ultimi i commercianti e gli artigiani – che storicamente rappresentano, assieme ai liberi professionisti e ad alcuni imprenditori, l’unico ceto produttivo indipendente della città – sono ormai giunti dichiaratamente alla rivolta.
Insomma, nel ricostruire tutti questi intrecci del “miglio” bolognese, vien da comprendere per quale intuizione ante litteram un genio della musica come Gioacchino Rossini abbia, ancora giovanissimo, lasciato Bologna per Parigi, per poi non fare più ritorno in Patria: difatti la sua casa bolognese si trova anch’essa in Strada Maggiore, peraltro quasi all'altezza di via Gerusalemme, l'ormai nota viuzza trasversale dove il premier in carica e la sua attivissima signora mantengono tuttora la propria residenza.
Per finire il nostro grand tour, ci piace ricordare che è sempre a pochi metri dal suddescritto dedalo di strade medievali che si trova, nel vecchio ghetto ebraico, quella via Valdonica dove terroristi comunisti hanno assassinato Marco Biagi. Cioè quel professore che – tra gli attacchi della sinistra massimalista, e anche dello stesso Cofferati – ha promosso la legge che riforma in senso più liberale il mercato del lavoro in Italia.
Il potere evocativo di Bologna non è peraltro solo una questione di luoghi. Infatti, il capoluogo emiliano ha dato i natali a diverse personalità della nostra recente storia politica: i più noti sono Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, la matrice petroniana dei quali – con il suo inevitabile corredo di memorie e di amicizie – gioca probabilmente un ruolo nella genesi di quei dubbi amletici con in quali ogni tanto entrambi tentano personali smarcamenti dalle posizioni di centro-destra ai quali la politica li ha assegnati.
Se il primo difatti spesso e volentieri strizza l’occhio ai moderati di sinistra, spinto dal richiamo della foresta democristiana, il secondo ogni tanto si concede personali incursioni verso il mondo laicista, tanto ardite ed inattese da spiazzare i suoi stessi colonnelli.
Ah, a proposito di laicismo, quasi dimenticavamo di scrivere che Bologna è anche una storica capitale della fecondazione assistita, dove ha la sua clinica universitaria il professor Carlo Flamigni (già consigliere comunale di sinistra), e dove sia il tasso di denatalità che quello di aborti sono storicamente tra i più alti d’Europa e quindi del mondo intero.
Ma non solo Fini e Casini hanno avuto i natali a Bologna: Luca Cordero di Montezemolo, il mitico presidente di quasi tutto ciò che in Italia rappresenta la grande industria assistita dallo Stato, è nato in via Saragozza. Quasi all’ombra del santuario di san Luca, che dal colle protegge le sorti della città “sazia e disperata”, la Sodoma e Gomorra dei cattolici liberali italiani.
Colui che sta scrivendo questo post, che come tanti bolognesi è fuggito ad abitare sulle colline appenniniche appena fuori dalla cerchia del comune, vede dal proprio terrazzo di casa la sontuosa villa di Pianoro nella quale il nobile Monteprezzemolo tuttora risiede.
Per fortuna, a Bologna non sono nati solo i simboli dell’Italia che non ci piace.
Qui, almeno a livello simbolico, ha avuto i suoi natali anche il bipolarismo, e cioè la speranza di poter avere anche nel nostro Paese un’alternativa di governo più vicina al resto dell’Occidente. E’ stato infatti in un centro commerciale di Casalecchio di Reno, a due passi dal già citato santuario di san Luca, che in un giorno di novembre del 1993, Silvio Berlusconi – che era venuto per l’inaugurazione – preannunciò l’imminente “discesa in campo”, schierandosi a favore di Fini nelle imminenti elezioni del sindaco di Roma.
Tuttavia, oggi quell’ipermercato non è nemmeno più di proprietà dell’uomo di Arcore. Il quale, da quella volta, non ha quasi mai più parlato in pubblico a Bologna.
Forza Italia, nel capoluogo felsineo, è sempre stato un partito debole e di scarso profilo, che si puntella sull’iniziativa di gruppi vicini a Comunione e Liberazione, e – quasi a voler sottolineare che dentro le mura cittadine non c’è speranza – su consiglieri regionali provenienti dalla provincia.
Giorgio Guazzaloca, l’uomo che espugnò la fortezza rossa nel 1999, si è più volte pubblicamente vantato del fatto di avere sequestrato e messo sotto chiave i manifesti con la faccia di Berlusconi, che gli erano stati inviati per sostenere la sua campagna elettorale. Ciò in quanto era convinto, probabilmente non a torto, che se avesse lasciato che li affiggessero in giro per Bologna avrebbe perso le elezioni comunali.
Del resto, questa è la città dove negli anni ’90, quando per la prima volta Gianfranco Fini volle tenere un comizio in Piazza Maggiore, ci fu una mezza insurrezione che lo costrinse a parlare a pochi militanti, in una piazza blindata ed assediata da facinorosi. Eppure, oggi Fini a Bologna potrebbe tranquillamente parlare dove vuole, mentre Berlusconi si è sempre guardato dal farlo.
Per questo ci piacerebbe farci promotori di un invito, quasi un messaggio in bottiglia.
Dai, Silvio, lascia perdere Vicenza, e vieni qui a Bologna ad annunciare una nuova discesa in campo. Solo così riusciresti a sembrarci veramente convinto di essere ancora tu l’uomo della riscossa, e l’unica speranza politica della parte più libera e produttiva di questo Paese.
Dimostraci di non stare solo recitando una parte, e che non ti sei già perso in tatticismi, nell’attesa e nella speranza di poter individuare un successore. Che a noi, intendiamoci, andrebbe anche bene, semmai ce ne fosse uno non compromesso con la partitocrazia e il capitalismo di Stato, ma a quanto pare ancora non se ne vede l’ombra, tanto che Feltri oggi è persino arrivato a pensare a Mario Draghi o – addirittura! – al già nominato Luca di Monteprezzemolo.
Dimostraci di essere ancora quello di sempre, che non ha paura di guardare in faccia il drago statalista e comunista, e vieni qui a sfidarlo a casa sua. E portaci anche i tuoi militanti da fuori, magari dal Nord Est produttivo, che noi da soli non ce la facciamo per i motivi già sopra ampiamente illustrati.
Persino qui a Bologna - passaci il francesismo - ormai si sono incazzati tutti quanti, o almeno tutti quelli che non vivono alla greppia del partito, delle coop, dei sindacati o del pubblico impiego. Quindi forse non ti accoglieranno malissimo. Anche se tra i nostri ceti produttivi c’è tuttora poca voglia di ammettere quanto stiano loro fischiando le orecchie, nel ripensare a quella tua mitica frase sui “coglioni che voteranno contro i loro interessi”.
Se ci darai retta, a questo piccolo blog di liberali teo-con – autentiche mosche bianche nella Sodoma e Gomorra bolognese – piacerà pensare che questa città non è poi così in declino, e che c’è una luce in fondo al tunnel. E racconteremo ai nostri pochi amici che ti abbiamo invitato noi. Pensaci.
Chi era già adulto negli anni settanta ricorda bene che in questa città, già sede della federazione comunista più forte di tutto l’Occidente, trovò la sua massima espressione il “modello rosso” di amministrazione degli enti locali. E ormai anche i bambini sanno che proprio a Bologna – storica sede centrale dell’Unipol e della Lega Coop – è stato perfezionato il consolidato modello di (sotto)sviluppo economico, che si fonda sul circolo vizioso di solidarietà e favori reciproci tra Stato, sindacato, partito e cooperative.
Tuttavia, per dirla con la Settimana Enigmistica, forse non tutti sanno che nel centro di Bologna, tra i portici, le chiese e i ristoranti, si trova anche il cosiddetto miglio d’oro (che meglio dovremmo definire “miglio rosso”) di Strada Maggiore.
Questa via stretta ed intasata, partendo dalle due torri, attraversa l’antichissimo borgo cittadino dove già l’Alighieri, nel De vulgari eloquentia, riteneva che si parlasse il migliore dialetto italico. Qui oggi ritroviamo nell’ordine le sedi storiche del Mulino, di Nomisma, e infine la facoltà di Scienze Politiche.
Il Mulino è la casa editrice che più di ogni altra, sul piano scientifico, ha cantato le lodi del riformismo all’emiliana. Mentre Nomisma, la società fondata da Romano Prodi le cui consulenze stramiliardarie fanno discutere fin dai tempi dell’Iri, rappresenta simbolicamente il sistema di favori e solidarietà intrecciate, su cui un intero ceto dirigente di questo Paese fino ad oggi ha prosperato all’ombra dello Stato, e contro la libera impresa.
In Strada Maggiore del resto ha sede anche la “Vantu”, la società di partecipazioni che gestisce gli affari di Angelo Rovati, il consigliere del premier (si fa per dire) che ci voleva far credere di aver ideato tutto da solo il piano di ri-statalizzazione della Telecom.
Più avanti, nella facoltà di Scienze Politiche, troviamo una sede universitaria che, per quanto appartenuta anche a Nicola Matteucci – grande intelligenza liberale appena scomparsa – e nella quale ancor oggi insegnano personalità laiche e democratiche come Angelo Panebianco, rappresenta pur sempre un importante centro di irradiazione del pensiero statalista in Italia.
Più che del pensiero, sarebbe meglio dire della prassi: proprio in questa facoltà Romano Prodi, il noto spiritista di Scandiano, l’uomo che russa da sveglio, ha ottenuto mediante un dotto studio sull’industria delle ceramiche nel modenese – al quale non risulta abbiano fatto seguito altre opere memorabili – quella cattedra che ancora oggi gli consente di farsi chiamare “il Professore”.
E nella stessa facoltà tuttora esiste un’altra cattedra di assai dubbia utilità, ma di certo stipendio pubblico, mediante la quale la moglie del nostro premier integra i dividendi della società immobiliare “Acquitania S.r.l.”.
Quest’ultima società merita qualche parola in più, nell'ambito del nostro grand tour cittadino: essa infatti ha sede sempre nel centro di Bologna, nella vicinissima via Castiglione, proprio dove ha lo studio il dottor Piero Gnudi, commercialista di fiducia del premier, che guardacaso, oltre ad essere stato consigliere e liquidatore dell’Iri, oggi è anche il presidente dell’Enel.
La Acquitania è intestata per la metà alla signora Flavia Prodi, e per l’altra metà è intrecciata con una serie di società fiduciarie che, controllandosi l’una con l’altra, per un verso o per l’altro rimandano sempre agli interessi degli amici di famiglia, tra cui il predetto Angelo Rovati ma anche Luca Cordero di Montezemolo.
Non va peraltro dimenticato che a brevissima distanza da Strada Maggiore, nella parallela via san Vitale, troviamo quell’Istituto di Scienze Religiose che – sotto la guida spirituale del fondatore don Giuseppe Dossetti – è il principale centro di irradiazione del pensiero “postconciliare”, che dagli anni sessanta ad oggi tenta di guidare in senso filocomunista la sensibilità cattolica degli italiani.
Inoltre, va detto che quest’ultima benemerita fondazione fa il paio con il più decentrato, ma sempre bolognesissimo, Istituto Gramsci dell’Emilia-Romagna, che rappresenta ancora, con il suo attivo centro studi, uno storico caposaldo del pensiero comunista in Italia e in Europa.
Sempre a poca distanza dal “miglio rosso” di Strada Maggiore, si trova la sede centrale dell’Università di Bologna. Che è l’Università di Umberto Eco, e di tanti altri numi tutelari del sinistrismo italico. E che trova il suo cuore pulsante nell’ormai irriconoscibile piazza Verdi, che con il suo sfacciato degrado rappresenta il simbolo del declino cittadino, indotto dall’amministrazione di Sergio Cofferati e dai suoi assessorati partitocratici.
Contro questi ultimi i commercianti e gli artigiani – che storicamente rappresentano, assieme ai liberi professionisti e ad alcuni imprenditori, l’unico ceto produttivo indipendente della città – sono ormai giunti dichiaratamente alla rivolta.
Insomma, nel ricostruire tutti questi intrecci del “miglio” bolognese, vien da comprendere per quale intuizione ante litteram un genio della musica come Gioacchino Rossini abbia, ancora giovanissimo, lasciato Bologna per Parigi, per poi non fare più ritorno in Patria: difatti la sua casa bolognese si trova anch’essa in Strada Maggiore, peraltro quasi all'altezza di via Gerusalemme, l'ormai nota viuzza trasversale dove il premier in carica e la sua attivissima signora mantengono tuttora la propria residenza.
Per finire il nostro grand tour, ci piace ricordare che è sempre a pochi metri dal suddescritto dedalo di strade medievali che si trova, nel vecchio ghetto ebraico, quella via Valdonica dove terroristi comunisti hanno assassinato Marco Biagi. Cioè quel professore che – tra gli attacchi della sinistra massimalista, e anche dello stesso Cofferati – ha promosso la legge che riforma in senso più liberale il mercato del lavoro in Italia.
Il potere evocativo di Bologna non è peraltro solo una questione di luoghi. Infatti, il capoluogo emiliano ha dato i natali a diverse personalità della nostra recente storia politica: i più noti sono Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, la matrice petroniana dei quali – con il suo inevitabile corredo di memorie e di amicizie – gioca probabilmente un ruolo nella genesi di quei dubbi amletici con in quali ogni tanto entrambi tentano personali smarcamenti dalle posizioni di centro-destra ai quali la politica li ha assegnati.
Se il primo difatti spesso e volentieri strizza l’occhio ai moderati di sinistra, spinto dal richiamo della foresta democristiana, il secondo ogni tanto si concede personali incursioni verso il mondo laicista, tanto ardite ed inattese da spiazzare i suoi stessi colonnelli.
Ah, a proposito di laicismo, quasi dimenticavamo di scrivere che Bologna è anche una storica capitale della fecondazione assistita, dove ha la sua clinica universitaria il professor Carlo Flamigni (già consigliere comunale di sinistra), e dove sia il tasso di denatalità che quello di aborti sono storicamente tra i più alti d’Europa e quindi del mondo intero.
Ma non solo Fini e Casini hanno avuto i natali a Bologna: Luca Cordero di Montezemolo, il mitico presidente di quasi tutto ciò che in Italia rappresenta la grande industria assistita dallo Stato, è nato in via Saragozza. Quasi all’ombra del santuario di san Luca, che dal colle protegge le sorti della città “sazia e disperata”, la Sodoma e Gomorra dei cattolici liberali italiani.
Colui che sta scrivendo questo post, che come tanti bolognesi è fuggito ad abitare sulle colline appenniniche appena fuori dalla cerchia del comune, vede dal proprio terrazzo di casa la sontuosa villa di Pianoro nella quale il nobile Monteprezzemolo tuttora risiede.
Per fortuna, a Bologna non sono nati solo i simboli dell’Italia che non ci piace.
Qui, almeno a livello simbolico, ha avuto i suoi natali anche il bipolarismo, e cioè la speranza di poter avere anche nel nostro Paese un’alternativa di governo più vicina al resto dell’Occidente. E’ stato infatti in un centro commerciale di Casalecchio di Reno, a due passi dal già citato santuario di san Luca, che in un giorno di novembre del 1993, Silvio Berlusconi – che era venuto per l’inaugurazione – preannunciò l’imminente “discesa in campo”, schierandosi a favore di Fini nelle imminenti elezioni del sindaco di Roma.
Tuttavia, oggi quell’ipermercato non è nemmeno più di proprietà dell’uomo di Arcore. Il quale, da quella volta, non ha quasi mai più parlato in pubblico a Bologna.
Forza Italia, nel capoluogo felsineo, è sempre stato un partito debole e di scarso profilo, che si puntella sull’iniziativa di gruppi vicini a Comunione e Liberazione, e – quasi a voler sottolineare che dentro le mura cittadine non c’è speranza – su consiglieri regionali provenienti dalla provincia.
Giorgio Guazzaloca, l’uomo che espugnò la fortezza rossa nel 1999, si è più volte pubblicamente vantato del fatto di avere sequestrato e messo sotto chiave i manifesti con la faccia di Berlusconi, che gli erano stati inviati per sostenere la sua campagna elettorale. Ciò in quanto era convinto, probabilmente non a torto, che se avesse lasciato che li affiggessero in giro per Bologna avrebbe perso le elezioni comunali.
Del resto, questa è la città dove negli anni ’90, quando per la prima volta Gianfranco Fini volle tenere un comizio in Piazza Maggiore, ci fu una mezza insurrezione che lo costrinse a parlare a pochi militanti, in una piazza blindata ed assediata da facinorosi. Eppure, oggi Fini a Bologna potrebbe tranquillamente parlare dove vuole, mentre Berlusconi si è sempre guardato dal farlo.
Per questo ci piacerebbe farci promotori di un invito, quasi un messaggio in bottiglia.
Dai, Silvio, lascia perdere Vicenza, e vieni qui a Bologna ad annunciare una nuova discesa in campo. Solo così riusciresti a sembrarci veramente convinto di essere ancora tu l’uomo della riscossa, e l’unica speranza politica della parte più libera e produttiva di questo Paese.
Dimostraci di non stare solo recitando una parte, e che non ti sei già perso in tatticismi, nell’attesa e nella speranza di poter individuare un successore. Che a noi, intendiamoci, andrebbe anche bene, semmai ce ne fosse uno non compromesso con la partitocrazia e il capitalismo di Stato, ma a quanto pare ancora non se ne vede l’ombra, tanto che Feltri oggi è persino arrivato a pensare a Mario Draghi o – addirittura! – al già nominato Luca di Monteprezzemolo.
Dimostraci di essere ancora quello di sempre, che non ha paura di guardare in faccia il drago statalista e comunista, e vieni qui a sfidarlo a casa sua. E portaci anche i tuoi militanti da fuori, magari dal Nord Est produttivo, che noi da soli non ce la facciamo per i motivi già sopra ampiamente illustrati.
Persino qui a Bologna - passaci il francesismo - ormai si sono incazzati tutti quanti, o almeno tutti quelli che non vivono alla greppia del partito, delle coop, dei sindacati o del pubblico impiego. Quindi forse non ti accoglieranno malissimo. Anche se tra i nostri ceti produttivi c’è tuttora poca voglia di ammettere quanto stiano loro fischiando le orecchie, nel ripensare a quella tua mitica frase sui “coglioni che voteranno contro i loro interessi”.
Se ci darai retta, a questo piccolo blog di liberali teo-con – autentiche mosche bianche nella Sodoma e Gomorra bolognese – piacerà pensare che questa città non è poi così in declino, e che c’è una luce in fondo al tunnel. E racconteremo ai nostri pochi amici che ti abbiamo invitato noi. Pensaci.
21 ottobre 2006
A proposito di Pansa e dell'aria che si respira (ancora) in Emilia
La contestazione subita da Giampaolo Pansa nei giorni scorsi a Reggio Emilia, durante la presentazione del suo ultimo libro “La grande bugia”, non deve sorprendere. Anzi, avrebbe dovuto sorprendere se fosse filato tutto liscio. In Emilia Romagna grava ancora una pesante cappa di odio ideologico verso l’avversario politico e chi, ritenuto amico (come Pansa), se ne strafrega di tutto e intende semplicemente dare una mano per ristabilire la verità.
Le righe che seguono non sono altro che la cronaca di una vicenda, avvenuta all’inizio del 2004 in occasione dell’uscita dell’altro best seller “Il sangue dei vinti”, che vide per protagonista proprio chi scrive. Protagonista involontario, sia chiaro. Tra l’altro, per una curiosa coincidenza, ricompare il capoluogo reggiano. Si tratta di un’altra prova di come da queste parti, dopo sessant’anni dai fatti, resti in chi li ha vissuti un terrore profondo che è diventato tutt’uno con le proprie ossa, il proprio sangue, il proprio cervello. Ma è anche la dimostrazione di come la voglia di verità prima o poi sia destinata a riemergere con forza. Quella voglia di verità che è alla base del grande successo che ha accompagnato i libri di Pansa in questi ultimi anni. Ecco ciò che mi accadde.
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“Don Domenico Gianni venne ucciso il 24 aprile 1945 da alcuni partigiani a Calderara di Reno, alle porte di Bologna. Era stato prelevato nella sua canonica, nella frazione di San Vitale. Il suo corpo venne abbandonato a pochi passi dal cimitero. Le ragioni dell’assassinio? Le racconta Giampaolo Pansa nel suo ormai notissimo libro 'Il sangue dei vinti' (pagina 286): “…lo accusavano di un’azione nefanda, durante un rastrellamento sul finire del 1944: l’aver indicato ai tedeschi le persone da catturare. Ma era un tragico equivoco. Don Gianni era stato costretto a salire sulla camionetta di un ufficiale delle SS e a girare per le strade del paese. Qualcuno lo vide e cominciò a dire che il prete era una spia dei nazisti. L’arcivescovo di Bologna, il cardinale Nasalli Rocca, gli consigliò di lasciare San Vitale e di riparare a Bologna. Il parroco obbedì. Poi, il giorno dopo la liberazione (che avvenne il 21 aprile), ritenne di dover ritornare alla canonica. Non aveva fatto nulla di male. E voleva ristabilire la verità dei fatti. Ma appena arrivò, lo presero e lo uccisero”.
Io ho 38 anni, non ho vissuto quella stagione di sangue ma abito a un centinaio di metri da dove venne eseguita l’esecuzione. Leggendo le righe di Pansa è stato come prendere un pugno nello stomaco, improvviso e fortissimo. Ho iniziato una mia piccola indagine parlando con parroci e persone del posto. Ma sono pochissimi, ormai, coloro che rammentano la vicenda di don Gianni. Una storia come tante per quei tempi, si potrà pensare. Non è vero. Questa, come tutte le altre ad essa simili, è una storia speciale. E lo sarà fintanto che le istituzioni (cioè noi tutti) non avranno fatto qualcosa per ridare dignità agli assassinati dal furore ideologico, ai martiri della nostra alba democratica”.
Ciò che avete appena letto è il testo di una lettera che il quotidiano “Il Resto del Carlino” pubblicò a mia firma i primi giorni del 2004. Ma ciò che è ancora più interessante raccontare, e che forse descrive meglio di qualsiasi analisi storico-sociologica il clima di paura che ancora opprime la mente dei protagonisti di quei fatti, quei pochi rimasti in vita, è ciò che successe qualche giorno dopo.
Una sera ricevetti una telefonata. “Lei è Girotti, quello che ha scritto di don Gianni sul Carlino?” mi fa una voce un po’ tremante e senza particolari accenti. “Sì, lei chi è?”. “Non ha importanza, per ora. Sono un testimone di quei fatti, li ho vissuti direttamente. Da troppo tempo mi porto un peso sulla coscienza, ora me ne voglio liberare. Ci possiamo incontrare?”. “Certo – rispondo -. Ma come faccio a riconoscerla?”. “Che ne dice se ci vediamo a Calderara lunedì, alle 8.30, sotto il monumento ai partigiani in piazza della Resistenza (una sorta di contrappasso, nda)? Io arriverò con un quotidiano sotto braccio e lei farà altrettanto. Sarà il modo per riconoscerci”. “Bene – faccio io -. A lunedì”. A quell’incontro, stile guerra di spie a Berlino anni ’60, andai e vi trovai il mio misterioso interlocutore. Altri non era che il chierichetto di don Gianni, che all’epoca viveva con la famiglia proprio in alcuni locali della canonica presi in affitto. Qualche sera dopo venne a casa mia e in circa tre ore mi raccontò per filo e per segno come andarono le cose. La base della squadraccia di partigiani era a Lippo, altra frazione di Calderara, ed era capitanata da una donna, morta di pazzia non molti anni dopo, pare a Reggio Emilia. Gli altri componenti erano tutti uomini ben noti in paese. La donna riteneva don Gianni una spia dei tedeschi, lo accusava di aver fatto fucilare il suo fidanzato, anch’egli partigiano. “Non era vero nulla” mi disse il testimone. “La diceria nacque solo perché i nazisti avevano costretto più volte don Gianni a girare per il paese su un loro mezzo. Ma il parroco non riferì mai nulla”. Il 21 aprile, la banda irruppe nella canonica e sequestrò don Gianni. Lo tenne segregato in una porcilaia che era nei pressi per un paio di giorni, giusto il tempo di mettere in scena un processo farsa. Processo che si concluse con la sua condanna a morte, che venne eseguita il 24, con contorno di sevizie invereconde.
Le righe che seguono non sono altro che la cronaca di una vicenda, avvenuta all’inizio del 2004 in occasione dell’uscita dell’altro best seller “Il sangue dei vinti”, che vide per protagonista proprio chi scrive. Protagonista involontario, sia chiaro. Tra l’altro, per una curiosa coincidenza, ricompare il capoluogo reggiano. Si tratta di un’altra prova di come da queste parti, dopo sessant’anni dai fatti, resti in chi li ha vissuti un terrore profondo che è diventato tutt’uno con le proprie ossa, il proprio sangue, il proprio cervello. Ma è anche la dimostrazione di come la voglia di verità prima o poi sia destinata a riemergere con forza. Quella voglia di verità che è alla base del grande successo che ha accompagnato i libri di Pansa in questi ultimi anni. Ecco ciò che mi accadde.
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“Don Domenico Gianni venne ucciso il 24 aprile 1945 da alcuni partigiani a Calderara di Reno, alle porte di Bologna. Era stato prelevato nella sua canonica, nella frazione di San Vitale. Il suo corpo venne abbandonato a pochi passi dal cimitero. Le ragioni dell’assassinio? Le racconta Giampaolo Pansa nel suo ormai notissimo libro 'Il sangue dei vinti' (pagina 286): “…lo accusavano di un’azione nefanda, durante un rastrellamento sul finire del 1944: l’aver indicato ai tedeschi le persone da catturare. Ma era un tragico equivoco. Don Gianni era stato costretto a salire sulla camionetta di un ufficiale delle SS e a girare per le strade del paese. Qualcuno lo vide e cominciò a dire che il prete era una spia dei nazisti. L’arcivescovo di Bologna, il cardinale Nasalli Rocca, gli consigliò di lasciare San Vitale e di riparare a Bologna. Il parroco obbedì. Poi, il giorno dopo la liberazione (che avvenne il 21 aprile), ritenne di dover ritornare alla canonica. Non aveva fatto nulla di male. E voleva ristabilire la verità dei fatti. Ma appena arrivò, lo presero e lo uccisero”.
Io ho 38 anni, non ho vissuto quella stagione di sangue ma abito a un centinaio di metri da dove venne eseguita l’esecuzione. Leggendo le righe di Pansa è stato come prendere un pugno nello stomaco, improvviso e fortissimo. Ho iniziato una mia piccola indagine parlando con parroci e persone del posto. Ma sono pochissimi, ormai, coloro che rammentano la vicenda di don Gianni. Una storia come tante per quei tempi, si potrà pensare. Non è vero. Questa, come tutte le altre ad essa simili, è una storia speciale. E lo sarà fintanto che le istituzioni (cioè noi tutti) non avranno fatto qualcosa per ridare dignità agli assassinati dal furore ideologico, ai martiri della nostra alba democratica”.
Ciò che avete appena letto è il testo di una lettera che il quotidiano “Il Resto del Carlino” pubblicò a mia firma i primi giorni del 2004. Ma ciò che è ancora più interessante raccontare, e che forse descrive meglio di qualsiasi analisi storico-sociologica il clima di paura che ancora opprime la mente dei protagonisti di quei fatti, quei pochi rimasti in vita, è ciò che successe qualche giorno dopo.
Una sera ricevetti una telefonata. “Lei è Girotti, quello che ha scritto di don Gianni sul Carlino?” mi fa una voce un po’ tremante e senza particolari accenti. “Sì, lei chi è?”. “Non ha importanza, per ora. Sono un testimone di quei fatti, li ho vissuti direttamente. Da troppo tempo mi porto un peso sulla coscienza, ora me ne voglio liberare. Ci possiamo incontrare?”. “Certo – rispondo -. Ma come faccio a riconoscerla?”. “Che ne dice se ci vediamo a Calderara lunedì, alle 8.30, sotto il monumento ai partigiani in piazza della Resistenza (una sorta di contrappasso, nda)? Io arriverò con un quotidiano sotto braccio e lei farà altrettanto. Sarà il modo per riconoscerci”. “Bene – faccio io -. A lunedì”. A quell’incontro, stile guerra di spie a Berlino anni ’60, andai e vi trovai il mio misterioso interlocutore. Altri non era che il chierichetto di don Gianni, che all’epoca viveva con la famiglia proprio in alcuni locali della canonica presi in affitto. Qualche sera dopo venne a casa mia e in circa tre ore mi raccontò per filo e per segno come andarono le cose. La base della squadraccia di partigiani era a Lippo, altra frazione di Calderara, ed era capitanata da una donna, morta di pazzia non molti anni dopo, pare a Reggio Emilia. Gli altri componenti erano tutti uomini ben noti in paese. La donna riteneva don Gianni una spia dei tedeschi, lo accusava di aver fatto fucilare il suo fidanzato, anch’egli partigiano. “Non era vero nulla” mi disse il testimone. “La diceria nacque solo perché i nazisti avevano costretto più volte don Gianni a girare per il paese su un loro mezzo. Ma il parroco non riferì mai nulla”. Il 21 aprile, la banda irruppe nella canonica e sequestrò don Gianni. Lo tenne segregato in una porcilaia che era nei pressi per un paio di giorni, giusto il tempo di mettere in scena un processo farsa. Processo che si concluse con la sua condanna a morte, che venne eseguita il 24, con contorno di sevizie invereconde.
09 ottobre 2006
Bologna in piazza contro Cofferati: diamoci appuntamento
La notizia, di per sé, si riduce a poche righe. Mercoledì 11 ottobre, a Bologna, si svolgerà una manifestazione di protesta contro Cofferati. Il corteo prenderà il via da piazza VIII Agosto, attorno alle 19.30, e dopo aver sfilato lungo la centralissima via Indipendenza si concluderà accanto alla statua del Nettuno. Più o meno alle 21 ci sarà il rompete le righe.
L’iniziativa è stata voluta da due associazioni di commercianti bolognesi, per una volta alleate: l’Ascom, di area moderata, e la Confesercenti, tradizionalmente vicina ai Ds. Le ragioni sono tante: dagli orari di chiusura dei negozi, che l’amministrazione comunale vorrebbe anticipare per combattere il fracasso nelle ore più antelucane – in pratica, si vorrebbe combattere la maleducazione col deserto serale - ai dehors (per chi non è di Bologna, è inutile che mi metta a spiegare il motivo del contendere).
Ma soprattutto i commercianti non ne possono più del degrado che ha colpito il capoluogo emilia-romagnolo da quando Cofferati ha vinto le elezioni, due anni e mezzo fa. A dir la verità l’insofferenza per un sindaco che si sta rivelando di gran lunga inferiore alle aspettative, il cui unico pregio è quello di godere di buona stampa (non è poco), è comune a molti cittadini. Basta farsi un giro per la città – centro storico o periferia, poco cambia – per capire la gravità del problema. Escrementi, sporcizia di ogni tipo, gente che urina al primo angolo di strada non sono spettacoli inconsueti.
Per non ricordare la lunga scia di violenze che negli ultimi mesi ha colpito soprattutto le donne, dentro e fuori casa. Ieri, poi, nel corso di un evento musicale, a Cofferati sono piovuti addosso molti fischi da un gruppo di giovani, ovviamente innervositi dalla sua intenzione di imporre il coprifuoco. Insomma, chi ama ancora Bologna ha il dovere di manifestare la propria insoddisfazione. Per questo lanciamo questo messaggio nella rete rivolgendoci a tutti i bolognesi della città, della provincia, a coloro che magari saranno di passaggio, ai loro amici, ai loro parenti, agli amici degli amici.
L’11 ottobre diamoci appuntamento in piazza. Noi amiamo la nostra città perché la nostra città è la nostra vita, il nostro passato presente e futuro, perché la nostra città sono i nostri valori e le nostre tradizioni. Chi la sta sfruttando per questioni di visibilità nazionale, sappia che i bolognesi tengono alta la guardia, come si dice in questi casi. O almeno dimostriamolo.
L’iniziativa è stata voluta da due associazioni di commercianti bolognesi, per una volta alleate: l’Ascom, di area moderata, e la Confesercenti, tradizionalmente vicina ai Ds. Le ragioni sono tante: dagli orari di chiusura dei negozi, che l’amministrazione comunale vorrebbe anticipare per combattere il fracasso nelle ore più antelucane – in pratica, si vorrebbe combattere la maleducazione col deserto serale - ai dehors (per chi non è di Bologna, è inutile che mi metta a spiegare il motivo del contendere).
Ma soprattutto i commercianti non ne possono più del degrado che ha colpito il capoluogo emilia-romagnolo da quando Cofferati ha vinto le elezioni, due anni e mezzo fa. A dir la verità l’insofferenza per un sindaco che si sta rivelando di gran lunga inferiore alle aspettative, il cui unico pregio è quello di godere di buona stampa (non è poco), è comune a molti cittadini. Basta farsi un giro per la città – centro storico o periferia, poco cambia – per capire la gravità del problema. Escrementi, sporcizia di ogni tipo, gente che urina al primo angolo di strada non sono spettacoli inconsueti.
Per non ricordare la lunga scia di violenze che negli ultimi mesi ha colpito soprattutto le donne, dentro e fuori casa. Ieri, poi, nel corso di un evento musicale, a Cofferati sono piovuti addosso molti fischi da un gruppo di giovani, ovviamente innervositi dalla sua intenzione di imporre il coprifuoco. Insomma, chi ama ancora Bologna ha il dovere di manifestare la propria insoddisfazione. Per questo lanciamo questo messaggio nella rete rivolgendoci a tutti i bolognesi della città, della provincia, a coloro che magari saranno di passaggio, ai loro amici, ai loro parenti, agli amici degli amici.
L’11 ottobre diamoci appuntamento in piazza. Noi amiamo la nostra città perché la nostra città è la nostra vita, il nostro passato presente e futuro, perché la nostra città sono i nostri valori e le nostre tradizioni. Chi la sta sfruttando per questioni di visibilità nazionale, sappia che i bolognesi tengono alta la guardia, come si dice in questi casi. O almeno dimostriamolo.
07 ottobre 2006
Che fine farà l'arte europea nell'Eurabia del futuro?
In Germania è stato cancellato l’Idomeneo di Mozart perché avrebbe potuto offendere i musulmani, e non si è trattato del primo caso di autocensura. Secondo diversi commentatori, fatti come questi sembrano confermare che gli islamici, pur costituendo solo il 5-10 % della popolazione dei paesi europei, stanno riuscendo in maniera strisciante ad imporre anche in Europa le regole della dhimmitudine in vigore nei loro paesi.
Viene dunque da chiedersi: se questo è il primo passo, cosa chiederanno quando tra qualche decennio, per effetto delle dinamiche immigratorie e demografiche, avranno raggiunto il 20-30% della popolazione? La risposta sembra ovvia: la distruzione, la cancellazione o la rimozione di tutte le più meravigliose espressioni artistiche e intellettuali che hanno fatto la gloria della civiltà europea.
E’ evidente, infatti, che una cultura che vieta ogni raffigurazione degli esseri viventi non tollererà in alcun modo la presenza nelle nostre città dei capolavori dell’arte medievale, rinascimentale o barocca. Inoltre gli islamici hanno sempre guardato con sospetto all’invenzione della stampa, e non ha mai avuto un buon rapporto con i libri, perché per loro solo un libro ha valore: basti pensare che in un anno si traducono in Spagna più libri esteri di quanti se ne siano tradotti nel mondo islamico negli ultimi undici secoli!
Qualche giorno fa Emin Alici, il rettore dell’università turca Eylül, ha dichiarato nel corso di un meeting del Partito Popolare Republicano di opposizione, che avrebbe preferito che l’Anatolia non fosse mai diventata una terra musulmana: parole che il giornale Zaman ha considerato “insultanti” per l’Islam. Alici ha detto che l’Islam è la causa dell’attuale arretratezza dell’Anatolia: “La stampa è stata inventata alla metà del Quattrocento, e si è rapidamente diffusa in tutta l’Europa. Noi siamo stati in grado di utilizzare questa tecnologia solo 250 anni dopo. I non musulmani usarono fin da subito la stampa, e si sono sviluppati. Avrei preferito che l’Anatolia in quel tempo non fosse stata musulmana”.
Si aggiunga che il mondo islamico, come ricorda Bernard Lewis, non ha mai mostrato alcun interesse per la musica europea: persino la musica classica non ha attecchito minimamente (a differenza che in altre parti del mondo, come in Cina o in Giappone, dove è molto apprezzata). L’ayatollah Khomeini, ad esempio, ha pronunciato parole di fuoco contro tutta la nostra musica.
Tony Blankley, nel libro The West’s Last Chance (la cui traduzione uscirà nel 2007 per l’editore Rubbettino), ha previsto che gli islamici d’Europa, attraverso violente proteste di piazza e fatwe contro “l’arte infedele e immorale”, costringeranno prima o poi gli europei a disfarsi del proprio patrimonio artistico. Alcune parti di esso potranno essere messe in salvo negli Stati Uniti, ma molte altre verranno distrutte, proprio come i grandi buddha demoliti dai talebani afghani.
In questa situazione, colpiscono le parole dello scrittore spagnolo Sebastian Vilar Rodrigez, il quale ha scritto che l’Europa si è suicidata culturalmente ad Auschwitz. Nel XX secolo, infatti, gli europei hanno cancellato dal faccia del vecchio continente 6 milioni di ebrei; dopodichè, schiacciati dal senso di colpa e per dimostrare di non essere più “razzisti”, hanno spalancato le porte a 20 milioni di musulmani.
Dal punto di vista culturale questa è stata una perdita forse irreparabile, perché si è privata dell’apporto del popolo più incredibilmente creativo della terra (basti pensare che gli ebrei, pur essendo solo lo 0,02 % della popolazione mondiale, hanno vinto il 20 per cento dei premi Nobel, e analoghe percentuali da primato raggiungono in quasi tutti i campi della cultura e del commercio!) per far posto ad una popolazione ostile, ingrata, arretrata e aggressiva.
Il conto, salatissimo, lo pagheranno le prossime generazioni di Europei.
Viene dunque da chiedersi: se questo è il primo passo, cosa chiederanno quando tra qualche decennio, per effetto delle dinamiche immigratorie e demografiche, avranno raggiunto il 20-30% della popolazione? La risposta sembra ovvia: la distruzione, la cancellazione o la rimozione di tutte le più meravigliose espressioni artistiche e intellettuali che hanno fatto la gloria della civiltà europea.
E’ evidente, infatti, che una cultura che vieta ogni raffigurazione degli esseri viventi non tollererà in alcun modo la presenza nelle nostre città dei capolavori dell’arte medievale, rinascimentale o barocca. Inoltre gli islamici hanno sempre guardato con sospetto all’invenzione della stampa, e non ha mai avuto un buon rapporto con i libri, perché per loro solo un libro ha valore: basti pensare che in un anno si traducono in Spagna più libri esteri di quanti se ne siano tradotti nel mondo islamico negli ultimi undici secoli!
Qualche giorno fa Emin Alici, il rettore dell’università turca Eylül, ha dichiarato nel corso di un meeting del Partito Popolare Republicano di opposizione, che avrebbe preferito che l’Anatolia non fosse mai diventata una terra musulmana: parole che il giornale Zaman ha considerato “insultanti” per l’Islam. Alici ha detto che l’Islam è la causa dell’attuale arretratezza dell’Anatolia: “La stampa è stata inventata alla metà del Quattrocento, e si è rapidamente diffusa in tutta l’Europa. Noi siamo stati in grado di utilizzare questa tecnologia solo 250 anni dopo. I non musulmani usarono fin da subito la stampa, e si sono sviluppati. Avrei preferito che l’Anatolia in quel tempo non fosse stata musulmana”.
Si aggiunga che il mondo islamico, come ricorda Bernard Lewis, non ha mai mostrato alcun interesse per la musica europea: persino la musica classica non ha attecchito minimamente (a differenza che in altre parti del mondo, come in Cina o in Giappone, dove è molto apprezzata). L’ayatollah Khomeini, ad esempio, ha pronunciato parole di fuoco contro tutta la nostra musica.
Tony Blankley, nel libro The West’s Last Chance (la cui traduzione uscirà nel 2007 per l’editore Rubbettino), ha previsto che gli islamici d’Europa, attraverso violente proteste di piazza e fatwe contro “l’arte infedele e immorale”, costringeranno prima o poi gli europei a disfarsi del proprio patrimonio artistico. Alcune parti di esso potranno essere messe in salvo negli Stati Uniti, ma molte altre verranno distrutte, proprio come i grandi buddha demoliti dai talebani afghani.
In questa situazione, colpiscono le parole dello scrittore spagnolo Sebastian Vilar Rodrigez, il quale ha scritto che l’Europa si è suicidata culturalmente ad Auschwitz. Nel XX secolo, infatti, gli europei hanno cancellato dal faccia del vecchio continente 6 milioni di ebrei; dopodichè, schiacciati dal senso di colpa e per dimostrare di non essere più “razzisti”, hanno spalancato le porte a 20 milioni di musulmani.
Dal punto di vista culturale questa è stata una perdita forse irreparabile, perché si è privata dell’apporto del popolo più incredibilmente creativo della terra (basti pensare che gli ebrei, pur essendo solo lo 0,02 % della popolazione mondiale, hanno vinto il 20 per cento dei premi Nobel, e analoghe percentuali da primato raggiungono in quasi tutti i campi della cultura e del commercio!) per far posto ad una popolazione ostile, ingrata, arretrata e aggressiva.
Il conto, salatissimo, lo pagheranno le prossime generazioni di Europei.
Se Silvio vuol diventare Pier
Vediamo se abbiamo capito bene. Berlusconi ha detto no all’ipotesi di scendere in piazza contro il circo Prodi. Finendo per andare a braccetto con Casini, restio alla manifestazione fin dal primo momento. Quel Casini che dal giorno dopo le elezioni di aprile ripete come un pappagallo che la leadership del centrodestra non è scontata. Oggi, poi, che un sondaggio pubblicato da Libero dà l’Udc al 7,5 per cento, il “ragazzo” non si tiene più. Peraltro non è la prima volta che il capo di Forza Italia segue le orme di Pier, lanciandosi in repentine marce indietro giusto all’indomani di propositi ben più bellicosi (missione in Libano, per esempio). Sembra quasi che Berlusconi sia stato colpito dalla sindrome di Stoccolma: più Casini lo bastona e più lui gli corre dietro.
Sulla protesta anti-finanziaria, si sostiene che ricompatterebbe la maggioranza. Quindi lasciamola perdere. Ora, qualcuno ci spieghi perché quando il popolo dei sindacati sfilava contro l’esecutivo di centrodestra, era quest’ultimo a doversi sentire in difficoltà; mentre quando a ipotizzare il ricorso alla piazza è la Casa delle Libertà, allora bisogna stare attenti perché a beneficiarne potrebbe essere la sinistra. Insomma, l’elettorato della CdL farebbe bene a non farsi vedere in giro. A prescindere. Cosa è successo dai tempi della prima traversata nel deserto e dai milioni di moderati (già allora incazzati) che presidiavano le città italiane contro il governo Prodi del ‘96? Siamo forse diventati impresentabili? Ci vestiamo male? Puzziamo? O magari sputiamo per terra?
E poi: se prestiamo un briciolo di fede alle intenzioni di voto, sono bastati due mesi per far pendere l’ago della bilancia in favore di Berlusconi e compagnia. La maggioranza, a nostro avviso, ha tutto il diritto di manifestare contro la minoranza. Ha il diritto di alzare la voce, di urlare. In poche parole, ha il diritto di provare a mandare a casa il Pinocchio reggiano (piano a considerarlo bolognese. Chi scrive è di Bologna e vorrebbe mantenere le distanze). E a Silvio diciamo che se segue Casini lungo la strada del dialogo con il centrosinistra, non solo delude il suo popolo che lo vorrebbe rivedere alla testa di una grande manifestazione per la libertà. Ma addirittura rischia di suicidarsi perché comunque regala tempo in più a Prodi. E il tempo logora chi il potere non ce l’ha.
Ma forse il centrodestra, e cioè Berlusconi, non pensa di essere preparato a una campagna elettorale il prossimo anno. Tra le beghe della coalizione e quelle interne al suo partito, non gli possiamo dare torto. Il punto, però, non è sapere se siamo o non siamo pronti a ritornare al governo. Il punto è essere consapevoli di avere di fronte una maggioranza di centrosinistra totalmente inadeguata a governare l’Italia. E prima la si caccia e meglio è per tutti. E’ una questione di priorità. Eppoi un Berlusconi che si incasina casinizzandosi è uno spettacolo che non vorremmo vedere.
Sulla protesta anti-finanziaria, si sostiene che ricompatterebbe la maggioranza. Quindi lasciamola perdere. Ora, qualcuno ci spieghi perché quando il popolo dei sindacati sfilava contro l’esecutivo di centrodestra, era quest’ultimo a doversi sentire in difficoltà; mentre quando a ipotizzare il ricorso alla piazza è la Casa delle Libertà, allora bisogna stare attenti perché a beneficiarne potrebbe essere la sinistra. Insomma, l’elettorato della CdL farebbe bene a non farsi vedere in giro. A prescindere. Cosa è successo dai tempi della prima traversata nel deserto e dai milioni di moderati (già allora incazzati) che presidiavano le città italiane contro il governo Prodi del ‘96? Siamo forse diventati impresentabili? Ci vestiamo male? Puzziamo? O magari sputiamo per terra?
E poi: se prestiamo un briciolo di fede alle intenzioni di voto, sono bastati due mesi per far pendere l’ago della bilancia in favore di Berlusconi e compagnia. La maggioranza, a nostro avviso, ha tutto il diritto di manifestare contro la minoranza. Ha il diritto di alzare la voce, di urlare. In poche parole, ha il diritto di provare a mandare a casa il Pinocchio reggiano (piano a considerarlo bolognese. Chi scrive è di Bologna e vorrebbe mantenere le distanze). E a Silvio diciamo che se segue Casini lungo la strada del dialogo con il centrosinistra, non solo delude il suo popolo che lo vorrebbe rivedere alla testa di una grande manifestazione per la libertà. Ma addirittura rischia di suicidarsi perché comunque regala tempo in più a Prodi. E il tempo logora chi il potere non ce l’ha.
Ma forse il centrodestra, e cioè Berlusconi, non pensa di essere preparato a una campagna elettorale il prossimo anno. Tra le beghe della coalizione e quelle interne al suo partito, non gli possiamo dare torto. Il punto, però, non è sapere se siamo o non siamo pronti a ritornare al governo. Il punto è essere consapevoli di avere di fronte una maggioranza di centrosinistra totalmente inadeguata a governare l’Italia. E prima la si caccia e meglio è per tutti. E’ una questione di priorità. Eppoi un Berlusconi che si incasina casinizzandosi è uno spettacolo che non vorremmo vedere.
04 ottobre 2006
Finanziaria 2007: aggressione al padre
Uno studio del Sole 24 Ore ha finalmente confermato quello che ai padri di famiglia era risultato chiaro fin dall’inizio: la finanziaria presentata dal governo Prodi rappresenta un’aggressione non solo del ceto medio, ma soprattutto della famiglia, specie se numerosa, e ancor più se monoreddito.
Cioè, colpisce soprattutto la famiglia che si fonda sul lavoro di un padre.
La controriforma delle aliquote Irpef si è infatti combinata con quella degli sgravi per i carichi di famiglia.
La propaganda di regime sta cercando di fare credere che si sia trattato di un’operazione di riequilibrio, e si aggrappa alle tabelle sulle singole posizioni reddituali, che comincerebbero ad essere seriamente penalizzate solo dai 50-60 mila euro annui in su, mentre i redditi inferiori – che sono la grande maggioranza – in media porterebbero a casa qualche decina di euro di minore imposta.
Andrebbe subito osservato che nella realtà sociale ogni reddito non serve quasi mai a fare vivere una sola persona: esistono ancora famiglie dove la moglie non lavora fuori casa, e magari si è scelto di essere generosi nel numero dei figli. Qui vi è un padre che è praticamente obbligato a portare a casa un reddito abbastanza buono, senza che si possa parlare di ricchezza.
Anche prima della finanziaria di Visco e Padoa-Schioppa il padre di famiglia era di gran lunga il cittadino più tartassato dalle imposte dirette.
Nemmeno il governo Berlusconi era stato in grado di introdurre nel nostro sistema tributario il cosiddetto “quoziente familiare”, ovvero gli altri meccanismi in uso nella maggior parte dei paesi occidentali, che consentono di abbattere il reddito imponibile della famiglia sulla base del numero di persone che di quel reddito vive.
Ma ora, con la finanziaria in esame, si è voluti tornare al vecchio sistema sovietizzante delle “detrazioni” per coniuge e figli a carico.
Vale a dire alla previsione di una somma fissa, lorda, sempre uguale e sostanziamente irrisoria, da detrarre dall’imposta già calcolata.
Come se moglie e figli di un operaio dovessero costare esattamente come quelli di un professionista, secondo un criterio classista ormai abbandonato da tutto il mondo civile.
E senza tenere in alcun conto il fatto che nelle famiglie di basso-medio livello reddituale in genere si lavora almeno in due, e quindi l’aliquota media che grava sul nucleo familiare è più bassa di quella di una famiglia monoreddito.
Il governo precedente, accorgendosi di questa disparità, aveva sostituito il vecchio criterio con un sistema di “deduzioni”, cioè con una riduzione della base imponibile, che risparmiava i redditi dei capifamiglia in maniera proporzionale.
Ora tale sistema è stato spazzato via, e come se non bastasse la nuova finanziaria, sempre sul presupposto veterocomunista per cui più uno guadagna e più lo Stato lo deve bastonare, ha reso decrescente la detrazione per carichi di famiglia, fino ad annullarsi già a partire dai 55 mila euro di reddito annuo.
Nella pratica, dunque, una detrazione già irrisoria finirà per annullarsi per una parte considerevole dei padri di famiglia monoreddito.
Gli assegni familiari, essendo riservati solo ai lavoratori dipendenti a basso reddito, possono compensare in misura minima questo meccanismo infernale, e servono solo a rendere la stangata più dura per chi lavora e produce in proprio, senza poter portare se stesso e la famiglia ad abbeverarsi a qualche greppia di Stato o di sindacato.
Morale: il Sole 24 Ore ha pubblicato un grafico che rivela che con lo schema della finanziaria 2007 già a partire dai 30 mila euro di reddito annuo (alla faccia della manovra che colpiva “solo i ricchi”) più uno ha figli, più viene penalizzato.
Curiosamente, se mantiene a carico solo il coniuge, oppure se suddivide con quest’ultimo l’onere di un figlio, fino ai 30-35 mila euro di reddito il singolo contribuente ancora ci guadagna.
Ma se a suo tempo aveva deciso di tenere la moglie a casa, già sulla soglia dei 30 mila euro annui – che sono notoriamente un reddito con il quale non si può vivere decentemente in tre o quattro – il povero padre di famiglia comincia inesorabilmente a rimetterci.
E ci rimette sempre più, quanti più figli ha deciso di donare alla Patria.
Non stiamo parlando dei soliti 50, 80 o al massimo 150 euro all’anno di Irpef in più o in meno: per le famiglie con due figli a carico, la stangata sarà già superiore agli 800 euro all’anno, qualora il padre monoreddito guadagni sui 50 mila euro all’anno, che per un nucleo di questo tipo rappresentano niente più che la soglia di sopravvivenza.
Se invece il figlio a carico è uno solo, la maggiore Irpef prevista per il suddetto scaglione di reddito è solo tra i 620 e i 680 euro circa.
Insomma, il nuovo sistema produce un singolare effetto di regressività, per cui in una famiglia monoreddito più sono i figli e più il babbo paga, anziché il contrario.
Dunque, ripetiamo, è la solita aggressione alla famiglia e soprattutto al padre di famiglia, trattato come una vacca da mungere tanto più pesantemente quanto più generosamente abbia messo il suo reddito a disposizione della moglie e dei figli.
Ma il problema è più esteso, e non si limita alla pur scandalosamente iniqua manovra fiscale del governo Prodi.
Si tratta di un fenomeno sociale che sta modificando nel profondo il rapporto padri-figli: chiunque può osservare come i figli di oggi, anche a trent’anni e passa, dipendano economicamente sempre più dalla famiglia d’origine.
Sono un numero enorme, specie al Sud, i giovani ormai giunti alle soglie della quarantina che non riuscirebbero a vivere da soli senza chiedere regolarmente soldi ai loro padri.
I quali ultimi, molto spesso, sono pensionati d’oro che percepiscono dal welfare dissennato degli anni ‘60-’80 quello che i suddetti loro figli possono solo sognarsi, per quando andranno in pensione a loro volta, semmai ci andranno.
Settori sempre più ampi del nostro Paese vivono, più che sul reddito di chi lavora, sulle rendite del patrimonio della generazione precedente: moltissime giovani famiglie, se non avessero la fortuna di vivere in una casa messa a disposizione dai genitori, e magari di percepire qualche affitto, ovvero i frutti di un più o meno sostanzioso capitale risparmiato da chi ancora poteva, non riuscirebbero mai a tirare avanti coi soli proventi del proprio lavoro.
Perchè la generazione precedente, quella di chi aveva vent’anni nel fatidico ‘68, è stata l’ultima che ha potuto permettersi di costruire solo col proprio reddito qualche fonte di rendita da lasciare ai figli: negli anni sessanta del secolo scorso un’abitazione costava in media 60-70 mensilità di uno stipendio, e c’erano molte più possibilità di ottenere un mutuo per comperarla, in quanto era relativamente più facile trovarsi un lavoro sicuro con uno stipendio stabile.
Oggi invece un’abitazione decente di mensilità ne costerebbe almeno 250, ed essendoci sempre meno stipendi sicuri, è anche più difficile per i giovani ottenere un mutuo garantito dai propri emolumenti.
Quando diventano padri a loro volta, i trentenni di oggi sanno già che difficilmente nella loro vita riusciranno a guadagnare più dei loro vecchi, e quindi si trovano costretti a scegliere tra il fare meno figli e il sottoporli ad un futuro di minor benessere.
Anche questo, oltre all’edonismo diffuso, scoraggia tanti giovani dal mettere su famiglia.
Per la prima volta da centinaia di anni l’Europa sta vedendo crescere una generazione di figli che ha prospettive di crescita economica minori di quella della generazione precedente: nemmeno le grandi guerre del secolo scorso – che sterminavano padri e figli, ma che almeno si concludevano con un ciclo di ricostruzione – sono riuscite a creare la depressione economica che oggi sta creando l’aggressione fiscale.
La quale ultima, a sua volta, è il frutto del dissennato welfare costruito dai nostri padri nel postsessantotto.
Per non parlare dell’enorme incidenza che ha sui consumi di una singola famiglia il solo fatto di voler mettere al mondo una persona in più del solito figlio unico.
Chi non vive da single, e nemmeno si limita a convivere con un altro single, ha sempre più bisogno di poter contare su una minima base patrimoniale che riesca a garantire al nucleo familiare quello per cui non bastano i soli redditi da lavoro.
Mettere su famiglia - ad esempio - comporta la necessità di una prima casa più grande.
Ma per la politica tributaria delle sinistre le dimensioni dell’abitazione non sono altro che un indice di ricchezza, sulla quale incrementare il prelievo fiscale mediante le revisioni degli estimi catastali da cui dipendono l’Ici, la tassa sui rifiuti urbani, ed altri indicatori.
Solo per questo si può affermare con certezza che spostare il peso della leva fiscale dal reddito al patrimonio - prassi considerata deleteria, oltre che immorale, da tutti gli economisti seri - significa aggredire prima di tutto la famiglia, e quindi il futuro della società.
La Francia, che è il paese in Europa che pratica la politica fiscale più generosa per i carichi di famiglia, con grandi agevolazioni per chi mette al mondo dei figli, è anche l’unico paese europeo che – immigrazione a parte - ancora riesce a mantenere un decente tasso di riproduzione, perchè sfiora quei 2,2 figli a coppia che i demografi ritengono indispensabile per mantenere stabile la popolazione.
I tassi demografici piu bassi d’Europa invece li abbiamo in Spagna e in Italia.
Dovremmo tutti riflettere su questo.
Dovrebbero farlo specialmente quei padri che mantengono da soli la famiglia, tenendo alta l’indignazione e la protesta per quanto sta accadendo con questa finanziaria, che oltretutto è in controtendenza rispetto alle politiche fiscali degli ultimi anni di tutti i paesi occidentali.
Tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, in particolare i cattolici, occorre anche cominciare a diffondere il senso etico della resistenza fiscale.
La morale cattolica giustifica detta resistenza laddove si tratti di difendere da una palese aggressione, oltre che il proprio lavoro e la proprietà, anche le persone che ci sono affidate. In quanto l’eccessiva fiscalità non colpisce mai solo i singoli, ma coinvolge sempre le famiglie e l’insieme del corpo sociale.
Si era già ipotizzata in ambienti cattolici la legittimità etica di un tasso di resistenza al prelievo diretto, variabile dal 10 al 25% a seconda della base reddituale imponibile e del numero di figli da difendere.
Forse la percentuale andrà sempre più rivista.
Non è un’esigenza dalla quale siano esclusi i lavoratori dipendenti di reddito medio e medio-alto, altra categoria penalizzata da questa finanziaria: infatti è urgente diffondere, contro la propaganda dei sindacati socialcomunisti che da sempre cercano di piazzare un cuneo morale tra la pretesa virtù dei propri protetti e la propensione ad evadere dei lavoratori autonomi, la consapevolezza di come non sia affatto vero che solo chi lavora in proprio possa evadere il fisco (rectius: resistervi), e lo faccia.
I lavoratori dipendenti, specie giovani, che accettano di lavorare con un semplice contratto a progetto (ex co.co.co.) ovvero di trascorrere mezze giornate lavorative in nero, conferiscono al datore di lavoro un risparmio – tra contributi, Irap, oneri accessori – che può essere anche del 35-40%, e quindi può far ritornare nelle tasche del lavoratore un maggior stipendio completamente esente da ritenute.
Del resto, i contributi che vanno all’Inps per i lavoratori parasubordinati, sempre più difficilmente torneranno indietro sotto forma di pensione, per un lavoratore che oggi ha meno di quarant’anni.
Senza contare che quelli che hanno la possibilità di fare lavori in nero, nella maggior parte dei casi non ne avrebbero mai nemmeno lontanamente avuta l’occasione se avessero preteso la piena regolarizzazione fiscale.
A ciò si aggiunga che il risparmio effettivo che un privato che paghi in contanti può ottenere da un professionista, da un artigiano o comunque da un prestatore autonomo di beni e servizi, per sottrarre la singola transazione al peso della mannaia fiscale, può essere parimenti di circa il 35-40%.
Ora, se la manovra fiscale del governo Prodi andrà a buon fine, sarà difficile ottenere un risultato di effettiva resistenza fiscale solo sulla base di una semplice rimodulazione delle fatture emesse ai privati, ovvero degli scontrini fiscali rilasciati dagli esercizi commerciali.
Infatti, gli studi di settore su professionisti, commercianti, artigiani, che probabilmente verranno inaspriti, potrebbero portare alla presunzione di maggiori redditi anche molto maggiori di quella percentuale che effettivamente i lavoratori autonomi già ora riescono a sottrarre all’aggressione.
L’aumento della pressione fiscale, inoltre, comporterà anche un sensibile aumento dei prezzi al consumo di beni e servizi.
Soprattutto, il prevedibile inasprimento ulteriore delle imposte sui consumi e sulla casa comporterà per le famiglie anche un aumento della tassazione indiretta, che sarà difficile arginare solo incrementando la resistenza fiscale rispetto alle imposte dirette sul reddito e all’Iva.
E’ quindi probabile che occorrerà trovare sistemi ulteriori: le nuove norme sulla anagrafe tributaria e sulla restrizione all’uso del contante, che oltretutto stanno comportando maggiori costi per i cittadini dei quali beneficeranno solo le banche e le multinazionali dell’informatica, probabilmente ci indurranno ad arrivare ad una sorta di sciopero del bancomat.
Vale a dire che per salvare l’economia stiamo rischiando di dover regredire al medioevo, quando si teneva ben nascosta la borsa con le monete, e i contadini dovevano nascondere ai gabellieri persino le provviste dell’orto, per non dare a vedere che se la passavano relativamente bene e che magari potevano anche permettersi di prendere gente a giornata.
Bisognerà in altri termini riabituarsi a girare con molti soldi in tasca, e a tenerne ampie scorte sotto il materasso: infatti, tra meno di un paio d’anni – se non cambierà il regime – tutte le transazioni superiori ai 100 euro dovranno essere pagate con mezzi elettronici o con assegno non trasferibile.
Tanto che già ora gli artigiani, i commercianti e i professionisti non possono più permettersi di tenere troppi soldi in banca, perchè col nuovo sistema di anagrafe tributaria – il cosiddetto “grande fratello fiscale” – verrà loro controllato persino quanti giorni di ferie all’anno possono permettersi in pensione o in albergo, e quante volte al mese vanno in pizzeria o al ristorante.
Se non si inverte la rotta, tra un po’ questa esigenza del ritorno al contante sarà sentita da tutti. E’ quindi meglio cominciare ad attrezzarsi.
Cioè, colpisce soprattutto la famiglia che si fonda sul lavoro di un padre.
La controriforma delle aliquote Irpef si è infatti combinata con quella degli sgravi per i carichi di famiglia.
La propaganda di regime sta cercando di fare credere che si sia trattato di un’operazione di riequilibrio, e si aggrappa alle tabelle sulle singole posizioni reddituali, che comincerebbero ad essere seriamente penalizzate solo dai 50-60 mila euro annui in su, mentre i redditi inferiori – che sono la grande maggioranza – in media porterebbero a casa qualche decina di euro di minore imposta.
Andrebbe subito osservato che nella realtà sociale ogni reddito non serve quasi mai a fare vivere una sola persona: esistono ancora famiglie dove la moglie non lavora fuori casa, e magari si è scelto di essere generosi nel numero dei figli. Qui vi è un padre che è praticamente obbligato a portare a casa un reddito abbastanza buono, senza che si possa parlare di ricchezza.
Anche prima della finanziaria di Visco e Padoa-Schioppa il padre di famiglia era di gran lunga il cittadino più tartassato dalle imposte dirette.
Nemmeno il governo Berlusconi era stato in grado di introdurre nel nostro sistema tributario il cosiddetto “quoziente familiare”, ovvero gli altri meccanismi in uso nella maggior parte dei paesi occidentali, che consentono di abbattere il reddito imponibile della famiglia sulla base del numero di persone che di quel reddito vive.
Ma ora, con la finanziaria in esame, si è voluti tornare al vecchio sistema sovietizzante delle “detrazioni” per coniuge e figli a carico.
Vale a dire alla previsione di una somma fissa, lorda, sempre uguale e sostanziamente irrisoria, da detrarre dall’imposta già calcolata.
Come se moglie e figli di un operaio dovessero costare esattamente come quelli di un professionista, secondo un criterio classista ormai abbandonato da tutto il mondo civile.
E senza tenere in alcun conto il fatto che nelle famiglie di basso-medio livello reddituale in genere si lavora almeno in due, e quindi l’aliquota media che grava sul nucleo familiare è più bassa di quella di una famiglia monoreddito.
Il governo precedente, accorgendosi di questa disparità, aveva sostituito il vecchio criterio con un sistema di “deduzioni”, cioè con una riduzione della base imponibile, che risparmiava i redditi dei capifamiglia in maniera proporzionale.
Ora tale sistema è stato spazzato via, e come se non bastasse la nuova finanziaria, sempre sul presupposto veterocomunista per cui più uno guadagna e più lo Stato lo deve bastonare, ha reso decrescente la detrazione per carichi di famiglia, fino ad annullarsi già a partire dai 55 mila euro di reddito annuo.
Nella pratica, dunque, una detrazione già irrisoria finirà per annullarsi per una parte considerevole dei padri di famiglia monoreddito.
Gli assegni familiari, essendo riservati solo ai lavoratori dipendenti a basso reddito, possono compensare in misura minima questo meccanismo infernale, e servono solo a rendere la stangata più dura per chi lavora e produce in proprio, senza poter portare se stesso e la famiglia ad abbeverarsi a qualche greppia di Stato o di sindacato.
Morale: il Sole 24 Ore ha pubblicato un grafico che rivela che con lo schema della finanziaria 2007 già a partire dai 30 mila euro di reddito annuo (alla faccia della manovra che colpiva “solo i ricchi”) più uno ha figli, più viene penalizzato.
Curiosamente, se mantiene a carico solo il coniuge, oppure se suddivide con quest’ultimo l’onere di un figlio, fino ai 30-35 mila euro di reddito il singolo contribuente ancora ci guadagna.
Ma se a suo tempo aveva deciso di tenere la moglie a casa, già sulla soglia dei 30 mila euro annui – che sono notoriamente un reddito con il quale non si può vivere decentemente in tre o quattro – il povero padre di famiglia comincia inesorabilmente a rimetterci.
E ci rimette sempre più, quanti più figli ha deciso di donare alla Patria.
Non stiamo parlando dei soliti 50, 80 o al massimo 150 euro all’anno di Irpef in più o in meno: per le famiglie con due figli a carico, la stangata sarà già superiore agli 800 euro all’anno, qualora il padre monoreddito guadagni sui 50 mila euro all’anno, che per un nucleo di questo tipo rappresentano niente più che la soglia di sopravvivenza.
Se invece il figlio a carico è uno solo, la maggiore Irpef prevista per il suddetto scaglione di reddito è solo tra i 620 e i 680 euro circa.
Insomma, il nuovo sistema produce un singolare effetto di regressività, per cui in una famiglia monoreddito più sono i figli e più il babbo paga, anziché il contrario.
Dunque, ripetiamo, è la solita aggressione alla famiglia e soprattutto al padre di famiglia, trattato come una vacca da mungere tanto più pesantemente quanto più generosamente abbia messo il suo reddito a disposizione della moglie e dei figli.
Ma il problema è più esteso, e non si limita alla pur scandalosamente iniqua manovra fiscale del governo Prodi.
Si tratta di un fenomeno sociale che sta modificando nel profondo il rapporto padri-figli: chiunque può osservare come i figli di oggi, anche a trent’anni e passa, dipendano economicamente sempre più dalla famiglia d’origine.
Sono un numero enorme, specie al Sud, i giovani ormai giunti alle soglie della quarantina che non riuscirebbero a vivere da soli senza chiedere regolarmente soldi ai loro padri.
I quali ultimi, molto spesso, sono pensionati d’oro che percepiscono dal welfare dissennato degli anni ‘60-’80 quello che i suddetti loro figli possono solo sognarsi, per quando andranno in pensione a loro volta, semmai ci andranno.
Settori sempre più ampi del nostro Paese vivono, più che sul reddito di chi lavora, sulle rendite del patrimonio della generazione precedente: moltissime giovani famiglie, se non avessero la fortuna di vivere in una casa messa a disposizione dai genitori, e magari di percepire qualche affitto, ovvero i frutti di un più o meno sostanzioso capitale risparmiato da chi ancora poteva, non riuscirebbero mai a tirare avanti coi soli proventi del proprio lavoro.
Perchè la generazione precedente, quella di chi aveva vent’anni nel fatidico ‘68, è stata l’ultima che ha potuto permettersi di costruire solo col proprio reddito qualche fonte di rendita da lasciare ai figli: negli anni sessanta del secolo scorso un’abitazione costava in media 60-70 mensilità di uno stipendio, e c’erano molte più possibilità di ottenere un mutuo per comperarla, in quanto era relativamente più facile trovarsi un lavoro sicuro con uno stipendio stabile.
Oggi invece un’abitazione decente di mensilità ne costerebbe almeno 250, ed essendoci sempre meno stipendi sicuri, è anche più difficile per i giovani ottenere un mutuo garantito dai propri emolumenti.
Quando diventano padri a loro volta, i trentenni di oggi sanno già che difficilmente nella loro vita riusciranno a guadagnare più dei loro vecchi, e quindi si trovano costretti a scegliere tra il fare meno figli e il sottoporli ad un futuro di minor benessere.
Anche questo, oltre all’edonismo diffuso, scoraggia tanti giovani dal mettere su famiglia.
Per la prima volta da centinaia di anni l’Europa sta vedendo crescere una generazione di figli che ha prospettive di crescita economica minori di quella della generazione precedente: nemmeno le grandi guerre del secolo scorso – che sterminavano padri e figli, ma che almeno si concludevano con un ciclo di ricostruzione – sono riuscite a creare la depressione economica che oggi sta creando l’aggressione fiscale.
La quale ultima, a sua volta, è il frutto del dissennato welfare costruito dai nostri padri nel postsessantotto.
Per non parlare dell’enorme incidenza che ha sui consumi di una singola famiglia il solo fatto di voler mettere al mondo una persona in più del solito figlio unico.
Chi non vive da single, e nemmeno si limita a convivere con un altro single, ha sempre più bisogno di poter contare su una minima base patrimoniale che riesca a garantire al nucleo familiare quello per cui non bastano i soli redditi da lavoro.
Mettere su famiglia - ad esempio - comporta la necessità di una prima casa più grande.
Ma per la politica tributaria delle sinistre le dimensioni dell’abitazione non sono altro che un indice di ricchezza, sulla quale incrementare il prelievo fiscale mediante le revisioni degli estimi catastali da cui dipendono l’Ici, la tassa sui rifiuti urbani, ed altri indicatori.
Solo per questo si può affermare con certezza che spostare il peso della leva fiscale dal reddito al patrimonio - prassi considerata deleteria, oltre che immorale, da tutti gli economisti seri - significa aggredire prima di tutto la famiglia, e quindi il futuro della società.
La Francia, che è il paese in Europa che pratica la politica fiscale più generosa per i carichi di famiglia, con grandi agevolazioni per chi mette al mondo dei figli, è anche l’unico paese europeo che – immigrazione a parte - ancora riesce a mantenere un decente tasso di riproduzione, perchè sfiora quei 2,2 figli a coppia che i demografi ritengono indispensabile per mantenere stabile la popolazione.
I tassi demografici piu bassi d’Europa invece li abbiamo in Spagna e in Italia.
Dovremmo tutti riflettere su questo.
Dovrebbero farlo specialmente quei padri che mantengono da soli la famiglia, tenendo alta l’indignazione e la protesta per quanto sta accadendo con questa finanziaria, che oltretutto è in controtendenza rispetto alle politiche fiscali degli ultimi anni di tutti i paesi occidentali.
Tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, in particolare i cattolici, occorre anche cominciare a diffondere il senso etico della resistenza fiscale.
La morale cattolica giustifica detta resistenza laddove si tratti di difendere da una palese aggressione, oltre che il proprio lavoro e la proprietà, anche le persone che ci sono affidate. In quanto l’eccessiva fiscalità non colpisce mai solo i singoli, ma coinvolge sempre le famiglie e l’insieme del corpo sociale.
Si era già ipotizzata in ambienti cattolici la legittimità etica di un tasso di resistenza al prelievo diretto, variabile dal 10 al 25% a seconda della base reddituale imponibile e del numero di figli da difendere.
Forse la percentuale andrà sempre più rivista.
Non è un’esigenza dalla quale siano esclusi i lavoratori dipendenti di reddito medio e medio-alto, altra categoria penalizzata da questa finanziaria: infatti è urgente diffondere, contro la propaganda dei sindacati socialcomunisti che da sempre cercano di piazzare un cuneo morale tra la pretesa virtù dei propri protetti e la propensione ad evadere dei lavoratori autonomi, la consapevolezza di come non sia affatto vero che solo chi lavora in proprio possa evadere il fisco (rectius: resistervi), e lo faccia.
I lavoratori dipendenti, specie giovani, che accettano di lavorare con un semplice contratto a progetto (ex co.co.co.) ovvero di trascorrere mezze giornate lavorative in nero, conferiscono al datore di lavoro un risparmio – tra contributi, Irap, oneri accessori – che può essere anche del 35-40%, e quindi può far ritornare nelle tasche del lavoratore un maggior stipendio completamente esente da ritenute.
Del resto, i contributi che vanno all’Inps per i lavoratori parasubordinati, sempre più difficilmente torneranno indietro sotto forma di pensione, per un lavoratore che oggi ha meno di quarant’anni.
Senza contare che quelli che hanno la possibilità di fare lavori in nero, nella maggior parte dei casi non ne avrebbero mai nemmeno lontanamente avuta l’occasione se avessero preteso la piena regolarizzazione fiscale.
A ciò si aggiunga che il risparmio effettivo che un privato che paghi in contanti può ottenere da un professionista, da un artigiano o comunque da un prestatore autonomo di beni e servizi, per sottrarre la singola transazione al peso della mannaia fiscale, può essere parimenti di circa il 35-40%.
Ora, se la manovra fiscale del governo Prodi andrà a buon fine, sarà difficile ottenere un risultato di effettiva resistenza fiscale solo sulla base di una semplice rimodulazione delle fatture emesse ai privati, ovvero degli scontrini fiscali rilasciati dagli esercizi commerciali.
Infatti, gli studi di settore su professionisti, commercianti, artigiani, che probabilmente verranno inaspriti, potrebbero portare alla presunzione di maggiori redditi anche molto maggiori di quella percentuale che effettivamente i lavoratori autonomi già ora riescono a sottrarre all’aggressione.
L’aumento della pressione fiscale, inoltre, comporterà anche un sensibile aumento dei prezzi al consumo di beni e servizi.
Soprattutto, il prevedibile inasprimento ulteriore delle imposte sui consumi e sulla casa comporterà per le famiglie anche un aumento della tassazione indiretta, che sarà difficile arginare solo incrementando la resistenza fiscale rispetto alle imposte dirette sul reddito e all’Iva.
E’ quindi probabile che occorrerà trovare sistemi ulteriori: le nuove norme sulla anagrafe tributaria e sulla restrizione all’uso del contante, che oltretutto stanno comportando maggiori costi per i cittadini dei quali beneficeranno solo le banche e le multinazionali dell’informatica, probabilmente ci indurranno ad arrivare ad una sorta di sciopero del bancomat.
Vale a dire che per salvare l’economia stiamo rischiando di dover regredire al medioevo, quando si teneva ben nascosta la borsa con le monete, e i contadini dovevano nascondere ai gabellieri persino le provviste dell’orto, per non dare a vedere che se la passavano relativamente bene e che magari potevano anche permettersi di prendere gente a giornata.
Bisognerà in altri termini riabituarsi a girare con molti soldi in tasca, e a tenerne ampie scorte sotto il materasso: infatti, tra meno di un paio d’anni – se non cambierà il regime – tutte le transazioni superiori ai 100 euro dovranno essere pagate con mezzi elettronici o con assegno non trasferibile.
Tanto che già ora gli artigiani, i commercianti e i professionisti non possono più permettersi di tenere troppi soldi in banca, perchè col nuovo sistema di anagrafe tributaria – il cosiddetto “grande fratello fiscale” – verrà loro controllato persino quanti giorni di ferie all’anno possono permettersi in pensione o in albergo, e quante volte al mese vanno in pizzeria o al ristorante.
Se non si inverte la rotta, tra un po’ questa esigenza del ritorno al contante sarà sentita da tutti. E’ quindi meglio cominciare ad attrezzarsi.
02 ottobre 2006
ANCHE I MODERATI, PRIMA O POI, SI DEVONO INCAZZARE
Dopo la vigliaccata prodiana ai danni di Benedetto XVI, minacciato di morte dai fondamentalisti islamici (“Difendere il Papa? Ma se ha le sue guardie…”), dopo le bugie condite di sorrisetti di scherno del bofonchiante presidente del consiglio durante il dibattito a Montecitorio sulla questione Telecom, e dopo una legge finanziaria vendicativa oltre che fautrice di ulteriori divisioni nel Paese, i moderati che hanno deciso di non portare il cervello all’ammasso – e dunque coloro che non si riconoscono nel centrosinistra – si devono interrogare su che cosa significhi il moderatismo oggi.
Perché se pensano di cacciare una maggioranza arlecchinesca, e sotto tanti aspetti anche pericolosa per l’Italia (si rifletta soltanto sulle nefandezze combinate in politica estera), come quella che governa da qualche mese, ricorrendo esclusivamente alla forza del ragionamento e delle proposte, allora staranno freschi.
Questi sono tempi non di azione bensì di reazione, ed è su questo terreno – a loro naturalmente e storicamente estraneo - che i moderati si trovano in difficoltà. Una difficoltà che è anche una sfida, da raccogliere affrontare e vincere. La loro natura va violentata per un bene superiore. Insomma, i moderati si devono trasformare in movimentisti, diciamo pure in estremisti della libertà.
Guardarci negli occhi e stupirci tra noi per la distanza siderale dal semplice buonsenso con cui l’Unione gestisce il potere, peraltro a poche settimane dall’entrata a regime del governo Prodi, e pensando agli ampi margini di peggioramento che esso ha, servirà soltanto ad assistere passivamente al sacco politico, culturale ed economico dell’Italia.
Siamo retoricamente catastrofisti? Per cortesia, andatevi a leggere le cronache delle ultime settimane e avrete la risposta. Prodi si è dimostrato molto più dannoso di quanto potessimo legittimamente immaginare.
La moderazione, allora, può riacquistare forza e ragione a condizione che i suoi seguaci abbiano ben chiaro cosa stanno rischiando di perdere: la loro autonomia, il diritto di lavorare e fare sacrifici per se stessi, per le loro famiglie, per i valori in cui credono. Si beva, almeno un po’, il calice (non sappiamo quanto amaro) del giacobinismo.
Come? Non pensiamo ai girotondi, forma evoluta di una protesta “intellettuale” per la quale non abbiamo il fisico del ruolo e neppure quel tanto di puzza sotto il naso di chi legge l’Espresso. No, questo no: al primo girotondo, ci prenderebbero per ubriachi da osteria. Ma una sanguigna e popolaresca manifestazione di piazza, assolutamente sì. Ne sentiamo il bisogno come l’aria che respiriamo. Muoviamoci, scriviamo ai partiti della Casa delle Libertà, parliamo con coloro che ne fanno parte. Gli attributi vanno tirati fuori qui e ora.
Perché se pensano di cacciare una maggioranza arlecchinesca, e sotto tanti aspetti anche pericolosa per l’Italia (si rifletta soltanto sulle nefandezze combinate in politica estera), come quella che governa da qualche mese, ricorrendo esclusivamente alla forza del ragionamento e delle proposte, allora staranno freschi.
Questi sono tempi non di azione bensì di reazione, ed è su questo terreno – a loro naturalmente e storicamente estraneo - che i moderati si trovano in difficoltà. Una difficoltà che è anche una sfida, da raccogliere affrontare e vincere. La loro natura va violentata per un bene superiore. Insomma, i moderati si devono trasformare in movimentisti, diciamo pure in estremisti della libertà.
Guardarci negli occhi e stupirci tra noi per la distanza siderale dal semplice buonsenso con cui l’Unione gestisce il potere, peraltro a poche settimane dall’entrata a regime del governo Prodi, e pensando agli ampi margini di peggioramento che esso ha, servirà soltanto ad assistere passivamente al sacco politico, culturale ed economico dell’Italia.
Siamo retoricamente catastrofisti? Per cortesia, andatevi a leggere le cronache delle ultime settimane e avrete la risposta. Prodi si è dimostrato molto più dannoso di quanto potessimo legittimamente immaginare.
La moderazione, allora, può riacquistare forza e ragione a condizione che i suoi seguaci abbiano ben chiaro cosa stanno rischiando di perdere: la loro autonomia, il diritto di lavorare e fare sacrifici per se stessi, per le loro famiglie, per i valori in cui credono. Si beva, almeno un po’, il calice (non sappiamo quanto amaro) del giacobinismo.
Come? Non pensiamo ai girotondi, forma evoluta di una protesta “intellettuale” per la quale non abbiamo il fisico del ruolo e neppure quel tanto di puzza sotto il naso di chi legge l’Espresso. No, questo no: al primo girotondo, ci prenderebbero per ubriachi da osteria. Ma una sanguigna e popolaresca manifestazione di piazza, assolutamente sì. Ne sentiamo il bisogno come l’aria che respiriamo. Muoviamoci, scriviamo ai partiti della Casa delle Libertà, parliamo con coloro che ne fanno parte. Gli attributi vanno tirati fuori qui e ora.
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