21 ottobre 2006

A proposito di Pansa e dell'aria che si respira (ancora) in Emilia

La contestazione subita da Giampaolo Pansa nei giorni scorsi a Reggio Emilia, durante la presentazione del suo ultimo libro “La grande bugia”, non deve sorprendere. Anzi, avrebbe dovuto sorprendere se fosse filato tutto liscio. In Emilia Romagna grava ancora una pesante cappa di odio ideologico verso l’avversario politico e chi, ritenuto amico (come Pansa), se ne strafrega di tutto e intende semplicemente dare una mano per ristabilire la verità.
Le righe che seguono non sono altro che la cronaca di una vicenda, avvenuta all’inizio del 2004 in occasione dell’uscita dell’altro best seller “Il sangue dei vinti”, che vide per protagonista proprio chi scrive. Protagonista involontario, sia chiaro. Tra l’altro, per una curiosa coincidenza, ricompare il capoluogo reggiano. Si tratta di un’altra prova di come da queste parti, dopo sessant’anni dai fatti, resti in chi li ha vissuti un terrore profondo che è diventato tutt’uno con le proprie ossa, il proprio sangue, il proprio cervello. Ma è anche la dimostrazione di come la voglia di verità prima o poi sia destinata a riemergere con forza. Quella voglia di verità che è alla base del grande successo che ha accompagnato i libri di Pansa in questi ultimi anni. Ecco ciò che mi accadde.

-------------------------------------------------------------------------------------

“Don Domenico Gianni venne ucciso il 24 aprile 1945 da alcuni partigiani a Calderara di Reno, alle porte di Bologna. Era stato prelevato nella sua canonica, nella frazione di San Vitale. Il suo corpo venne abbandonato a pochi passi dal cimitero. Le ragioni dell’assassinio? Le racconta Giampaolo Pansa nel suo ormai notissimo libro 'Il sangue dei vinti' (pagina 286): “…lo accusavano di un’azione nefanda, durante un rastrellamento sul finire del 1944: l’aver indicato ai tedeschi le persone da catturare. Ma era un tragico equivoco. Don Gianni era stato costretto a salire sulla camionetta di un ufficiale delle SS e a girare per le strade del paese. Qualcuno lo vide e cominciò a dire che il prete era una spia dei nazisti. L’arcivescovo di Bologna, il cardinale Nasalli Rocca, gli consigliò di lasciare San Vitale e di riparare a Bologna. Il parroco obbedì. Poi, il giorno dopo la liberazione (che avvenne il 21 aprile), ritenne di dover ritornare alla canonica. Non aveva fatto nulla di male. E voleva ristabilire la verità dei fatti. Ma appena arrivò, lo presero e lo uccisero”.
Io ho 38 anni, non ho vissuto quella stagione di sangue ma abito a un centinaio di metri da dove venne eseguita l’esecuzione. Leggendo le righe di Pansa è stato come prendere un pugno nello stomaco, improvviso e fortissimo. Ho iniziato una mia piccola indagine parlando con parroci e persone del posto. Ma sono pochissimi, ormai, coloro che rammentano la vicenda di don Gianni. Una storia come tante per quei tempi, si potrà pensare. Non è vero. Questa, come tutte le altre ad essa simili, è una storia speciale. E lo sarà fintanto che le istituzioni (cioè noi tutti) non avranno fatto qualcosa per ridare dignità agli assassinati dal furore ideologico, ai martiri della nostra alba democratica”.

Ciò che avete appena letto è il testo di una lettera che il quotidiano “Il Resto del Carlino” pubblicò a mia firma i primi giorni del 2004. Ma ciò che è ancora più interessante raccontare, e che forse descrive meglio di qualsiasi analisi storico-sociologica il clima di paura che ancora opprime la mente dei protagonisti di quei fatti, quei pochi rimasti in vita, è ciò che successe qualche giorno dopo.

Una sera ricevetti una telefonata. “Lei è Girotti, quello che ha scritto di don Gianni sul Carlino?” mi fa una voce un po’ tremante e senza particolari accenti. “Sì, lei chi è?”. “Non ha importanza, per ora. Sono un testimone di quei fatti, li ho vissuti direttamente. Da troppo tempo mi porto un peso sulla coscienza, ora me ne voglio liberare. Ci possiamo incontrare?”. “Certo – rispondo -. Ma come faccio a riconoscerla?”. “Che ne dice se ci vediamo a Calderara lunedì, alle 8.30, sotto il monumento ai partigiani in piazza della Resistenza (una sorta di contrappasso, nda)? Io arriverò con un quotidiano sotto braccio e lei farà altrettanto. Sarà il modo per riconoscerci”. “Bene – faccio io -. A lunedì”. A quell’incontro, stile guerra di spie a Berlino anni ’60, andai e vi trovai il mio misterioso interlocutore. Altri non era che il chierichetto di don Gianni, che all’epoca viveva con la famiglia proprio in alcuni locali della canonica presi in affitto. Qualche sera dopo venne a casa mia e in circa tre ore mi raccontò per filo e per segno come andarono le cose. La base della squadraccia di partigiani era a Lippo, altra frazione di Calderara, ed era capitanata da una donna, morta di pazzia non molti anni dopo, pare a Reggio Emilia. Gli altri componenti erano tutti uomini ben noti in paese. La donna riteneva don Gianni una spia dei tedeschi, lo accusava di aver fatto fucilare il suo fidanzato, anch’egli partigiano. “Non era vero nulla” mi disse il testimone. “La diceria nacque solo perché i nazisti avevano costretto più volte don Gianni a girare per il paese su un loro mezzo. Ma il parroco non riferì mai nulla”. Il 21 aprile, la banda irruppe nella canonica e sequestrò don Gianni. Lo tenne segregato in una porcilaia che era nei pressi per un paio di giorni, giusto il tempo di mettere in scena un processo farsa. Processo che si concluse con la sua condanna a morte, che venne eseguita il 24, con contorno di sevizie invereconde.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Questi post è veramente bello, descrive esattamente l'aria che si continua a respirare in Italia. Dopo cosi tanti anni conntinuiamo a vivere nel passato.
Complimenti anche al blog, vi leggo volentieri e regolarmente al punto che ho deciso di linkarvi.

Anonimo ha detto...

Ho visto martedì scorso alla TV la sceneggiata offerta da una schiera di eroici resistenti da spiaggia contro la presentazione del libro di Gianpaolo Pansa che ho letto.
Sono nato nel 1925 e ho vissuto quegli avvenimenti in una città industriale di 35000 abitanti a nord di Milano e da, sia pure modestissimo protagonista nei giorni della liberazione. Alla disperata ricerca di un lavoro (per motivi principalmente alimentari), rispondendo ad un annuncio sul Corriere, mi sono trovato ingaggiato negli ultimi due mesi di guerra dall’esercito della RSI e messo alla testa di un reparto in tuta da lavoro, armato solo di picco e pala e occupato soprattutto a sgomberare macerie, riparare i danni fatti dalle incursioni dei cacciabombardieri alleati e ad aiutare la popolazione civile coinvolta e non. Il 23 Aprile 45, essendosi volatilizzati gli eroi della GNR, abbiamo risposto positivamente alla proposta di ingaggio da parte del CLN che ci ha armati per mantenere l’ordine pubblico ed eseguire, lungo i terreni golenali del Po tra Casalmaggiore e Viadana, il rastrellamento dei tedeschi sbandati a caccia di biciclette, abiti civili e viveri. Qualche palla del nemico mi è fischiata vicino alle orecchie e con la stessa musica credo di aver deliziato le orecchie dei miei “interlocutori”, ma nessuno è morto, le donne poterono circolare liberamente in bicicletta sulle strade vicino agli argini, la popolazione non subì danni, volle dissetarci e rifocillarci con una certa abbondanza e i tedeschi rastrellati, volenti o nolenti finirono in mano agli alleati.
In quei tempi ho avuto, tra amici e coetanei, due combattenti nel Savoia Cavalleria caduti nella carica di Isbuschenski, uno tra i giovani fascisti di Bir el Gobi, uno che faceva copia con me al biliardo fucilato dalle BN al Campo Giuriati, un amico d’infanzia ucciso a tradimento perché renitente alla leva da un BN imbecille suo amico, due amici coetanei in forza nella Monte Rosa al fronte, uno che arruolato di leva nella RSI, catturato dai Partigiani, dopo un mese di militanza con loro, è stato perentoriamente invitato da questi ultimi per motivi logistici a tornarsene a casa, uno che in città mi è morto quasi tra le braccia colpito dalla scheggia di un colpo sparato da un cacciabombardiere alleato, uno che ha avuto mezza faccia asportata e la sorella ventiduenne di un altro uccisa con una settantina di passeggeri di un treno sempre da proiettili della stessa provenienza.
Uno dei miei amici della Monterosa, che non hanno mai sparato un colpo contro degli italiani, dopo essersi arreso e aver consegnato le armi alle autorità con tutte le garanzie, è stato ucciso con altri prigionieri da un “eroico” resistente dell’ultima ora. Un mio vicino di casa, comunista dichiarato da sempre, che veniva a casa mia per ascoltare Radio Londra, naturalmente Partigiano, si è vantato con me e con altri di aver ucciso una ottantina di prigionieri giocando al tiro a segno.
E potrei continuare ma mi fermo qui.
Mi sarebbe piaciuto assistere al comportamento di quegli eroici combattenti da spiaggia di lunedì scorso nell’ambiente di quei tempi, quando era difficile vivere, tra l’altro con i 200 grammi di pane a testa della tessera annonaria, ma facilissimo morire, braccati da tedeschi, pseudo-fascisti presuntuosi e imbecilli, e bersaglio di aerei che sparavano a volte su tutto ciò che si muoveva compreso una donna vestita di rosso in bicicletta. (Padana superiore tra Vercelli e Novara -testimonianza oculare).
Ho conosciuto naturalmente validissimi Resistenti seri che tra mille rischi, si sono dati da fare per salvare tutto ciò che si poteva salvare, e “Repubblichini” che facevano altrettanto (il nostro ex medico di famiglia ostentava rutilanti divise ma faceva di tutto per salvare dalla Germania e dalla mobilitazione forzata diecine di nostri coetanei – “giustiziato” a fine guerra dal comunista di cui sopra) e che nonostante ciò sono stati ripagati, perfino dai beneficiati, con la morte.
Sarebbe bene ci rendessimo conto che durante la seconda guerra mondiale, siamo riusciti nell’epocale impresa di farci sparare addosso da tutti i belligeranti e, non contenti di questa mirabile prestazione, abbiamo finito per sparaci addosso tra di noi.
La resistenza vera l’hanno fatta la popolazione civile, le madri, le spose, le vedove, i genitori anziani, i figli di uomini dispersi o uccisi chissà dove da una guerra idiota e a volte con la casa distrutta, coloro che facevano marciare i treni, tenevano in piedi tra mille difficoltà la viabilità e i trasporti, coltivavano i campi con ciò che potevano, facevano marciare gli ospedali, le scuole, e le istituzioni molte volte a costo della loro vita, i 200 bambini di Gorla, le centinaia vittime di bombardamenti e di rappresaglie provocate principalmente da demenziali attentati, i Salvo D’Acquisto che hanno sacrificato coscientemente la loro vita per evitarle e tutti coloro che si davano da fare per proteggere la popolazione civile.
È bene si sappia che Il vituperatissimo Generale Franco ha fatto costruire nella sierra de Guadarrama, in una valle chiamata Valle de los Caidos, un imponente cattedrale sotterranea in onore di tutti i caduti della guerra civile spagnola non importa di quale parte. Molte delle loro salme sono inumate in gallerie laterali comprese quelle di Italiani militanti nei due schieramenti.
Ritengo che la Resistenza Italiana sarà adeguatamente onorata, quando anche noi
avremo il coraggio di renderle una analoga testimonianza.
Come ho detto, sono stato ufficiale civile di un reparto della RSI e come tutti gli ufficiali del Battaglione avrei avuto l’obbligo di portare un’arma.
Quando ho chiesto istruzioni in merito mi è stato detto dal comandante del battaglione (ex REI): “A che scopo? E poi noi tutti abbiamo deciso di non portare armi per non doverci mai trovare nella condizione di dover sparare contro degli Italiani neanche per legittima difesa: tu fai come vuoi”.
Volevo appunto fare ed ho fatto come loro e sono felice, pur da lurido involontario repubblichino, di aver fatto il possibile per aiutare e difendere in quei tragici momenti i miei connazionali che ne avevano bisogno senza mai chiedere nulla in cambio o a che fazione appartenessero e nonostante ciò, di aver portato a casa la pelle.

Bobo ha detto...

Questo racconto non mi stupisce. Ho conosciuto tanti anziani, che, in un momento di debolezza, mi hanno susssurrato: "sai, i rossi alla fine della guerra hanno fatto questo, quest'altro..." ma non se la sentiranno mai di far le loro dichiarazioni in pubblico. Potenza di sessant'anni di omertà...E poi questa gente vuol fare il partito democratico!Che ridere!di democrazia, in emilia ovvero nel loro feudo, ce ne è sempre stata molto poca!

Graziano ha detto...

Grazie delle vostre testimonianze. E un ringraziamento più caloroso a Pippo, quasi coetaneo di mio padre. Riflessioni come la sua, caro Pippo, fanno dimenticare - anche se solo per un attimo - le nefandezze di allora e di oggi.

Anonimo ha detto...

Gran bel post. Credo che lo inserirò come link nel mio blog.
Anche io vivo in Emilia, e quanto da te scritto mi sembra proprio vero!